mercoledì 29 settembre 2010

FUORI TARGET


“Non capisci che i fiori non sono perfetti… e poi ti pare che la coccinella si metta sul nastro?! E non vedi come è arruffata l’erbetta?” Così sentenziava, sbuffando, la Figlia laureata, denigrando i suoi tentativi alla buona di confezionare i confetti. Già, proprio l’erbetta… Quell’erbetta che la faceva soffrire.
Non solo perché le sue dita inesperte stentavano nell’allineamento perfetto con i fiorellini. Non solo perché il nastrino risultava quasi sempre più lungo da un lato. Ma anche perchè il suo pensiero volava all’impatto ambientale. Cento pacchi di confetti per trecento fiorellini di plastica per cento mucchietti di verdi fili sintetici… Scartati i confetti con golosità frettolosa, il contorno di plastica, che tanto stava a cuore alla Figlia, sarebbe finito in discarica.
Una goccia nell’oceano di immondizia che circondava Palermo, d’accordo. Ma lei ci soffriva. Era fatta così. Era fissata. Di ogni suo gesto, ormai si chiedeva che cosa restasse alla Terra. Magari rinunciava ad uscire, per non gravare il pianeta di un po’ di CO2. Si sentiva in colpa se comprava un nuovo vestito, perché, a suo parere, ne aveva sin troppi.
E però continuava a confezionare confetti. Cercando di fare il più bel fiocco possibile. E di incollare la coccinella nella posizione migliore. Perché la Bellezza trionfasse. Per fare felice l’incontentabile Figlia laureata, alla quale voleva un gran bene.
I suoi pensieri fuori target, per carità, li teneva per sé.

domenica 26 settembre 2010

C’è un’altra vita dove sei amata

C’è un’altra vita - dove sei amata.
Hai qualcuno vicino, che ti dà il buongiorno.
Fa la colazione, poi porta giù il cane -
la sera sei stanca e ti massaggia i piedi.

Ha rughe sottili, spalle un po’ curve
è alto, ha i capelli macchiati di nebbia -
occhiali pesanti su occhi pensosi
e gesti bizzarri, da direttore d’orchestra.

Gli piace cantare, parlare a gran voce
ma sa sussurrare all’orecchio i segreti.
Scrive un po’ storto, si macchia le dita
con penne che perdono sempre l’inchiostro.

Passate le notti a raccontarvi le storie,
scambiate ricordi d’infanzie diverse.
Fare l’amore con lui è ritornare
in case perdute con odore di zuppa.

Camminate in montagna, svegliandovi presto.
In città pedalate, fermandovi al bar.
Tu prendi un tè, lui un latte macchiato,
leggete il giornale diviso a metà.

Se uscite la sera e c'è molto freddo
tu tieni una mano nella sua tasca sinistra
e lui te la stringe e ti carezza le dita
in mezzo a monete, fiammiferi e pillole.

I pomeriggi d’inverno declamate poesie
e cucinate pietanze che in parte bruciate,
siete molto distratti, la casa va a rotoli -
i figli ormai grandi vi prendono in giro.

A volte per gioco vi scambiate i maglioni,
vi piace vestirvi con l’odore dell’altro.
Ha già cinquant’anni, tu qualcuno di meno -
invecchiate insieme, ritornando ragazzi.

Quando ti guarda ti senti al caldo
e fuori la pioggia batte sui vetri.
Lo senti più tuo di un braccio o d'un piede.
C’è un’altra vita - dove sei amata.
(25 settembre 2010) Leonora Cupane

(La mia amica Leonora, rendendo pubblica questa poesia, ha aggiunto:
"Da tempo non credo nella convivenza e nella coppia "canonica", anzi credo sinceramente che la convivenza spesso conduca alla degenerazione dei rapporti d'amore, ma questa poesia è l'espressione di una mia voce"minoritaria" che evidentemente esiste, ha dei rimpianti e ancora perfino - forse- dei sogni, e oggi voleva essere ascoltata: dunque eccola.
Preciso che questa poesia non è però strettamente autobiografica. L'uomo in questione infatti non esiste, o meglio è un mix di diversi personaggi, uno dei quali proviene da un libro di Natalia Ginzburg, un altro è un mio ex fidanzato olandese, un altro ancora è un caro collega più grande di me, e poi ci sono pezzetti di molti altri uomini, incluso mio padre. Anche il rapporto di cui parlo non ha alcun riferimento a storie mie o di altri. Molte delle cose che descrivo non fanno neppure parte del mio immaginario relativo all'amore (altre sì, ovviamente). Sono proprio come arrivate da lontano: mi hanno abitata oggi per la prima volta. Mi ha fatto molto piacere questa esperienza nuova: scrivere di me eppure non di me, raccontare in poesia una relazione che non è mai esistita, dando vita a un personaggio immaginario, del tutto nuovo eppure così concreto e dotato di particolari. Man mano che scrivevo ha preso forma e voce, odore e consistenza. E' diventato vivo e tenero e amato. E' qualcosa di insolito, che soddisfa, come se qualcuno, un estraneo,fosse venuto a farmi visita, e io gli avessi preparato un buon pranzo, e ci fossimo fermati a parlare accorgendoci di conoscerci da sempre."

LA PEDAGOGIA DELLA LUMACA


Quello della lentezza non è un discorso che riguarda i bambini, ma prima di tutto è rivolto a noi adulti, genitori, educatori, insegnanti. Mi viene in aiuto il maestro catalano Joan Domènech con il suo «Elogio dell’educazione lenta» quando afferma: «Gli educatori devono aver il tempo per la lettura e l’ozio, per vivere la sessualità e le relazioni personali ed emozionali e di coppia, il riposo per viaggiare e conoscere altre realtà, per la famiglia, i conoscenti, gli amici… Una parte importante la si deve dedicare a poter disimparare, per poter tornare ad imparare, per poter creare. Devono riservare tempo per la riflessione e la meditazione, per l’osservazione della natura e la conoscenza della società. È troppo importante questa professione per non insistere su questi aspetti. Gli educatori devono aver tempo per sognare un’educazione migliore». Troppo spesso, invece, noi che ci interessiamo di scuola e di educazione, siamo preoccupati di fare, di proporre, di realizzare. E tutto questo ci porta poi all’ansia e all’insoddisfazione.
Decalogo per una educazione lenta
Come fare a diminuire, a rallentare, quando è la scuola stessa che chiede «risultati tangibili»? Sempre Joan Domènech snocciola 10 suggerimenti, un decalogo che traduco, faccio mio e sintetizzo:
1) Decidere dove vogliamo andare, senza guardare sempre l’orologio. Poiché vogliamo educare, chiediamoci a cosa miriamo… e condividiamolo con gli alunni e con i colleghi.
2) Coinvolgersi tutti, insegnanti, ragazzi e famiglie. È un aspetto basilare nella costruzione di un progetto educativo.
3) Dare priorità ad aspetti importanti e urgenti, tralasciando gli aspetti del curriculum, della vita di classe e della scuola che non sono urgenti né importanti.
4) Perdere tempo anche con attività non organizzate, impreviste e imprevedibili.
5) Dare ad ogni alunno il tempo necessario per esprimere la propria creatività nelle attività.
6) Coltivare la pazienza e la perseveranza, dando un senso alle attività che si fanno coi ragazzi.
7) Saper vivere in maniera positiva, testimoniando esempi di vita e valorizzando lo humor nell’educazione.
8) Sfruttare il momento, le attività che hanno un senso, senza essere condizionati dal programma da svolgere.
9) Semplificare i programmi scolastici, limitare gli obiettivi e mirare ad approfondire i temi.
10) Basare il cambiamento sulle potenzialità e le capacità dei ragazzi e di tutti i settori della comunità educativa. Saper ascoltare i ragazzi.

Gianfranco Zavalloni - ©Cem Mondialità Giugno/Luglio 2010

L'importanza di dire di no


         Quanti sono i «no» che hanno fatto la Storia? Molti, moltissimi. Mai troppi, comunque. Spesso il «no» è il primo passo verso l’affermazione di un diritto, di un rispetto, di una parità troppo a lungo negati. È il modo più immediato per dire «basta!» ad una sopraffazione umiliante e insopportabile. Allora il «no» diventa liberatorio, catartico, ci fa toccare con mano la possibilità di un mondo diverso e più giusto.
              Questo il senso del «no» pronunciato, oltre mezzo secolo fa, da una giovane donna americana. Era il 1° ottobre 1955: Rosa Parks, rifiutandosi di cedere il suo posto a un bianco sull’autobus, apriva una nuova stagione per i neri americani, quella che avrebbe portato all’abolizione della segregazione razziale nel sud degli Stati Uniti.           La sua storia è ora narrata a beneficio dei giovani lettori (e di tutti noi) da Paola Capriolo nel suo recente libro No (EL, 2010, pp. 91, 10,50 euro, da 12 anni). Una storia intensa dal ritmo incalzante, narrata con una scrittura essenziale e precisa.
Nel 1941 Rosa ottiene un lavoro in una base militare vicino alla città di Montgomery: un’esperienza molto strana per una donna abituata alle continue discriminazioni che il «Jim Crow» imponeva in tutti gli stati del Sud. Il presidente F.D. Roosevelt aveva proibito qualsiasi forma di segregazione razziale nelle strutture dell’esercito americano: dunque Rosa poteva sedere tranquillamente accanto ai bianchi sui mezzi di trasporto che circolavano all’interno della base militare; ma uscita di lì, per fare ritorno in città, doveva prendere un autobus «segregato», nel quale vigevano le regole seguenti: 1) Tutti i passeggeri dovevano salire sull’autobus dalla porta anteriore per acquistare il biglietto; poi però le persone di colore, invece di attraversare il corridoio, dovevano scendere e risalire dalla porta posteriore per raggiungere i loro posti; 2) I passeggeri di colore potevano sedere solo nelle ultime file, a loro riservate, mentre le prime erano a uso esclusivo dei bianchi; 3) Nelle file intermedie, i bianchi avevano il diritto di precedenza, mentre i neri potevano sedervisi solo se libere; 4) Una volta seduto, il nero doveva comunque tenersi pronto, all’occorrenza, a cedere il posto a un bianco, persino se il nero fosse stato un vecchio di 80 anni o una donna incinta e il bianco un aitante giovanotto pieno di energia; 5) Nel caso che un bianco si fosse seduto in una di queste file intermedie, tutte le persone di colore che si trovavano in quella fila avrebbero dovuto alzarsi e cercare posto altrove, o rimanere in piedi, per evitare che un membro della «razza superiore» fosse stato costretto a viaggiare fianco a fianco con loro.
        Rosa non ce la fa più a sottostare a questa assurda umiliazione. Un giorno, alla richiesta dell’autista di alzarsi, risponde: «No! Sono stanca di essere considerata una cittadina di seconda classe». Questa disobbedienza le costerà l’arresto, ma il suo gesto diventerà il motore di un movimento che porterà al riconoscimento dei diritti civili. La notizia del suo arresto determinò scontri violenti nella città di Montgomery, ma fu anche un’importante occasione di riflessione dei leader della comunità afroamericana su una nuova forma di ribellione: la resistenza passiva, la non violenza e il boicottaggio. Dalla lettura dell’agile libricino della Capriolo resta impressa la forza morale della protagonista, il coraggio e la voglia di reagire all’ingiustizia che riescono a cambiare la Storia.
Rosa Parks muore nel suo appartamento di Detroit il 24 ottobre 2005. Tre anni dopo, un uomo dalla pelle nera, Barak Hussein Obama, sarà eletto presidente degli Stati Uniti d’America.


Lorenzo Luatti © Cem Mondialità - Agosto/Settembre 2010

sabato 25 settembre 2010

SETTE FIORIERE E UN TABACCAIO


Due anni fa ho ripulito dai rifiuti sette fioriere poste davanti a un negozio, vicino casa mia, a metà strada tra piazza Guadagna e Brancaccio. Con un po’ d’acqua in estate e la periodica asportazione di cicche e cartacce, le piantine sono oggi vive e vegete. Purtroppo, assieme all’aloe rigogliosa, è cresciuta anche la stizza del tabaccaio. Che non accetta che io mi sia occupata delle fioriere abbandonate a se stesse. Adesso poi il verde delle fioriere smentisce la sua vecchia profezia “Che pulisce a fare? Tanto tra un mese saranno di nuove schifiate…” . “Gli intermittenti cicli di resurrezione di Palermo hanno portato a una forma di narcotizzazione della coscienza cittadina (…) e a rafforzare il già ipertrofico cinismo dei suoi abitanti” scrive Alajmo ne “L’arte di annacarsi”. Così mi spiego lo sguardo duro del tabaccaio, quando annaffio le piante. E, con esse, la speranza di una Palermo migliore.
Maria D’Asaro

( pubblicato su “Centonove” il 24-09-2010)

mercoledì 22 settembre 2010

martedì 21 settembre 2010

UN RICORDO DI PIPPO


(Un collega: così vicino, così lontano.
Scomparso troppo presto nelle nebbie dell'Ade. Mi mancheranno le sue fragorose risate.)


Chi

mi dirà

"occhi di cerbiatto",

con un aperto sorriso?

Addio.


lunedì 20 settembre 2010

UN OCEANO DI SILENZIO


In verità, non desiderava mari da solcare. Non ancora, almeno. Forse voleva solo una nicchia. Un nascondimento. Dove vivere al sicuro, protetta. “Nasconditi, vivendo”: esortava Epicuro. E lei voleva vivere nascosta. In un’isola lontana, silenziosa e mite: a coltivare le sue lattughine e a giocare col suo cagnolino. E a filare la lana. Un luogo dove il tempo fosse sospeso e lo spazio fosse quieto e sereno. Un luogo che la nutrisse con bacche odorose e continue carezze.
Solo quando si fosse saziata di frutti, di silenzio e d’affetto, solo allora poteva sciogliere le vele. E salpare.


venerdì 17 settembre 2010

Edicole votive

       Prima che nella hit parade della devozione popolare dei palermitani troneggiasse l’onnipresente padre Pio, la Madonna occupava una postazione di tutto rilievo. Tanto da convincere molti concittadini a dedicarle minuscole edicole votive, scavate nel muro esterno della propria casa. 
     In queste nicchie, nel centro storico di Palermo, troviamo tante madonnine, dai molteplici nomi: madonna delle grazie, madonna del perpetuo soccorso, madonna immacolata… Ognuna ci invita a recitare un certo numero di pater, ave e gloria, in cambio di una sicura indulgenza. 
     Posta su una base di pietre, c’è un’edicola votiva anche a piazza dell’Ammiraglio, vicino alla foce dell’Oreto. Ho scorto dei foglietti arrotolati, ai piedi della statuina. Scrittura fresca, di sicuro. Forte la tentazione di leggerli. 
     Ma poi ho pensato che non sarebbe stato facile sostituirsi alla Madonna per fare la grazia…. Anche se, sono certa, a Maria non dispiacerebbe, se non sostituita, essere almeno affiancata nel suo difficile compito.


Maria D'Asaro
("Centonove",  17.09.2010)

mercoledì 15 settembre 2010

AL BAMBINO/ALLA BAMBINA CHE E' IN NOI....

Dedicato alla bambina e al bambino che è in noi. Che ha diritto di vivere e giocare, anche se ha novant'anni. E a un amico che segue il mio blog.


venerdì 10 settembre 2010

A PASSO DI BIMBO


Visitando Amsterdam, ho notato l’abbondanza di asili, spazi verdi attrezzati e parchi immensi. Un piano della grande biblioteca nazionale è dedicato ai bambini, con appositi internet-point e migliaia di testi. Di solito papà e mamma portano i figli in bici, o in comodi carrettini se i bimbi al seguito sono due o tre. Noi, a Palermo, ci distinguiamo per le mega celebrazioni di battesimi e prime comunioni, ma la nostra città non è a misura di bambino: pochissimi parchi, asili col contagocce. Bambini viziati, ma non curati e accolti.
Ribadisco una (ovvia) convinzione: dove i bambini sono amati e tutelati, si cresce meglio. E prima. Quasi sempre, nel nord Europa, a 18 anni i ragazzi sono pronti a viaggiare, a lavorare, a vivere da soli. Ha ragione Natalia Ginzburg: “Per imparare poi a camminare con le scarpe rotte, è bene avere i piedi asciutti e caldi quando si è bambini”.
(pubblicato su “Centonove” il 10-09-2010) Maria D’Asaro

mercoledì 8 settembre 2010

L'AMACA

( Mi sono indignata e commossa, per questo ennesimo, insopportabile, barbaro assassinio.
Ho pianto troppi morti ammazzati per la libertà . l'uguaglianza e la giustizia, nella mia terra di Sicilia.
Angelo Vassallo: come ammonisce Michele Serra, il suo nome sarà impresso nella mia mente e nel mio cuore)

Più ancora del sangue di Angelo Vassallo, ambientalista e sindaco, ennesimo martire della democrazia ucciso dalla dittatura criminale, è il suo nome che ci deve essere caro, e presente. Angelo Vassallo, Angelo Vassallo, Angelo Vassallo: cerchiamo per piacere, nella nostra distrazione e nella nostra rassegnazione, di mandarlo a memoria, come si faceva con le poesie a scuola.Saviano ha già fatto l´elenco terribile dei morti dimenticati. Militanti politici, amministratori, giudici, poliziotti, sindacalisti, uomini dello Stato e uomini del popolo freddati dai servi-sicari che per quattro soldi onorano il potere bestiale dei loro padroni ricchi, feroci e ignoranti, distruttori della loro terra e carnefici del loro popolo. Nemici della bellezza e del coraggio, edificatori di bruttezza e paura, con le loro montagne di denaro che ammorba, corrompe, avvelena, ma non sa creare niente di utile, di gentile e di condiviso. Impossibile immaginare un omicidio politico più politico di questo: il difensore del bene comune assassinato da chi vuole mangiarselo, il bene di tutti, e farne indigestione lui soltanto, lui e la sua piccola tribù ingorda. Angelo Vassallo, Angelo Vassallo, Angelo Vassallo: i nomi, almeno i nomi, cerchiamo di salvarli dalla morte.

lunedì 6 settembre 2010

AFTER SHAVE


E così era attratta da essenze maschili: acqua di colonia, eau de metal, fragranza di muschio. Forse era la sua voglia di utilizzare gli scarti. Di giocare alla signora povera, una sorta di Crusoè al femminile, in una oscura città del ventunesimo secolo. E nella sua isola-casa c’era abbondanza di profumi maschili, che sonnecchiavano con noncuranza, dal secolo scorso, nelle mensole in penombra del bagno. O forse la voglia di essenze per uomo era segno e figura della sua metamorfosi: niente più lacrime, niente mollezze, nessuna incertezza o voce tremante. La pallida luna tradita dall’amplesso con Marte.
Un sano cinismo, una calcolata prudenza, sorsi d’acqua sugli eroici furori, navigazione sicura nelle acque tranquille di un vigoroso realismo. Contemplava da lontano la fregatura pregressa della soggezione mensile agli estrogeni. Acqua, anzi sangue passato. Corpo, cuore e mente: insieme a formare un’allegra brigata. Con una spruzzata di frizzante colonia. Pensieri maschili in morbidezze di donna. Niente male, però.

domenica 5 settembre 2010

Nel mare ci sono i coccodrilli


    “Tre cose non devi mai fare nella vita, Enaiat jan, per nessun motivo. La prima è usare le droghe (…). La seconda è usare le armi. (…). La terza è rubare.” Queste le brevi, essenziali raccomandazioni che la madre sussurra a Enaiatollah, il figlio di dieci anni che è costretta ad abbandonare in Pakistan per salvarlo dalla furia omicida dei talebani.
    Dopo aver letto Nel mare ci sono i coccodrilli (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010), € 16)
 il libro in cui, attraverso lo scrittore Fabio GedaEnaiatollah Akbari  racconta la sua personale odissea che dall’Afghanistan lo porterà in Italia, anche lo sguardo più duro e distratto verso chi arriva dalle carrette del mare dovrebbe mutare.   E divenire più  umano e accogliente. Perché dovrebbe capire che è solo per un caso strano e fortunato che, alle nostre latitudini, i ragazzi hanno infanzie serene, mentre Enaiat, per avere una vita degna di questo nome, è costretto a lasciare sua madre e i suoi fratellini, la sua città, i suoi amici con cui giocava a Buzul-bazi … E a lasciare, ancora prima, la scuola, chiusa a forza dalla follia talebana, nonostante l’opposizione coraggiosa del suo maestro “che non alzava mai la voce e quando gridava sembrava spiacesse più a lui che a te”, maestro che viene  ucciso davanti ai suoi attoniti alunni.
Il viaggio lungo e travagliato che Enaiatollah compie dal Pakistan a Torino, quasi una discesa negli inferi dello sfruttamento, della solitudine e della precarietà, non può che essere accompagnato dal nostro sgomento e dalla nostra partecipazione affettuosa. Il lavoro massacrante che Enaiat è costretto a subire nel suo peregrinare, lo fa sentire quasi “mangime per galline” e gli impedisce di dormire, perché “forse la notte conveniva stare svegli, per evitare che le persone vicine sparissero nel nulla”. Viaggio che rischia di farlo morire tra le montagne dell’Asia minore o durante l’incredibile traversata dell’Egeo, compiuta su un canotto, con ragazzini che saranno meno fortunati di lui.
       La vicenda di Enaiatollah è una storia che dovrebbero leggere tutti: uomini e donne, vecchi e scolari, gente di destra e gente di sinistra. Per capire che la speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento e di qualunque legge o divieto. Fa parte dei diritti iscritti nella dignità di ogni essere umano. “Mia madre – continua Enaiatollah  – ha deciso che sapermi in pericolo lontano da lei, ma in viaggio verso un futuro differente, era meglio che sapermi in pericolo vicino a lei, ma nel fango della paura di sempre”.
A questa splendida madre-coraggio, ritrovata telefonicamente dopo otto anni, sono dedicate le struggenti righe finali del libro: “Dalla cornetta è uscito solo un respiro, ma lieve, e umido, e salato. Allora ho capito che stava piangendo anche lei. Ci parlavamo per la prima volta dopo otto anni, otto, e quel sale e quei sospiri erano tutto quello che un figlio e una madre possono dirsi, dopo tanto tempo (…). In quel momento ho saputo che era ancora viva e forse, lì, mi sono reso conto per la prima volta che lo ero anch’io”.
                                                                                            Maria D’Asaro

venerdì 3 settembre 2010

FERITE … D’AGOSTO


Rimasta in città, ad agosto di Palermo ho percepito un sapore diverso: le sue periferie quasi deserte, avvolte in uno strano silenzio, ti danno la sensazione di stare in un involucro vuoto. Del quale cogli i contorni, in tutta la loro evidenza. Quasi che la città si offra nuda, nella sua verità, a quanti non l’hanno abbandonata. Con l’abbagliante bellezza verde e azzurra del Foro Italico, e il colore vivo e improvviso delle corisie fiorite. Ma anche con le automobili posteggiate in seconda fila (malgrado la “largasia” estiva!), con le tante costruzioni approssimate, senza regole e senza estetica, con i mille rottami abbandonati nelle strade. E magari con lo scippo violento ai turisti. E allora pensi alle strade palermitane come appendici silenziose e scomposte di un corpo bello e malato, che si ostina a negare le sue ferite. Col rischio concreto che si infetti e marcisca, tra poco, l’intero organismo.
Maria D’Asaro

( pubblicato su “Centonove” il 3-09-2010)

mercoledì 1 settembre 2010

Lettera di Manfredi Borsellino al padre Paolo

(Ho conosciuto il giudice Borsellino quando intervenne alla Biblioteca Comunale, un mese dopo la morte di Falcone. Ho conosciuto Giovanni Falcone a un seminario di formazione per insegnanti. Borsellino e Falcone sono i miei santi laici. Se non mi vergogno di essere siciliana, è grazie al loro esempio, a quello di Peppino Impastato, di p.Puglisi, di Libero Grassi. E dei tanti siciliani che hanno dimostrato, anche sacrificando la loro vita, il loro desiderio di giustizia e la loro voglia di vivere a testa alta. Una loro foto è nella mia stanza, assieme a quella di mio padre e di mia madre.)

"Grazie caro papà".
Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi. Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.
La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre. Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare. Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.
Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.
Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.

( La testimonianza del figlio del giudice – pubblicata per gentile concessione dell’editore – chiude il libro “Era d’estate”, curato dai giornalisti Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi- Pietro Vittorietti editore).FONTE:http://carloruberto.blogspot.com/2010/07/grazie-caro-papa.html