giovedì 21 aprile 2011

101 STORIE: QUANDO, A ESSERE SPERDUTO, E' QUALCHE DOCENTE: IL BURNOUT


Fare l’insegnante è uno dei mestieri più difficili del mondo. E uno dei più dolorosi. Perché bisogna essere sempre preparati e aggiornati. E avere forza, pazienza, passione e tenacia. Avere autostima. E fiducia in se stessi. E tanto amore per gli altri. Scrive Hanna Arendt: “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumerne la responsabilità”.
Non è facile che un insegnante riesca a tenere unite insieme dentro di sé tutte queste qualità. Può capitare che sia ricco di passione, ma manchi di autostima. Può essere bravo didatticamente, ma poco paziente. Può essere disponibile e pieno di attenzione per i suoi alunni, ma fragile e poco tenace. E poi ci sono i mille problemi di affrontare: un numero esorbitante di alunni per classe, pochissime risorse a disposizione, la solitudine amara di fare un lavoro difficilissimo e poco apprezzato.
Paradossalmente, i docenti (e gli psicopedagogisti!) più in gamba sono soggetti più degli altri a uno stress notevole che può renderli vittima di quella che gli specialisti chiamano “la sindrome da corto circuito” o da "burnout" (che in inglese significa proprio "bruciarsi").
Tale sindrome è stata descritta inizialmente verso il 1970 da H. Freudenberger e da C. Maslach, che descrissero le prime osservazioni su tale fenomeno all’interno di un reparto di igiene mentale, dove avevano notato su alcuni operatori dei sintomi caratteristici di questo problema.
La traduzione italiana della parola “burnout”, che comunemente avviene con il termine “bruciato” (o anche “scoppiato” o “andato in cortocircuito”), permette di descrivere parte delle sensazioni vissute da chi sperimenta lo stato di questa sintomatologia.
Che è riscontrata proprio in quelle tipologie di professioni educative, ad esempio gli insegnanti, che generano un contatto, spesso con un coinvolgimento emotivo profondo, con i disagi degli utenti con cui lavorano e di cui guidano la crescita personale. Ma possono esserne colpite tutte le persone legate alla gestione quotidiana dei problemi delle persone in difficoltà: poliziotti, carabinieri, medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, vigili del fuoco…. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata.
Secondo i risultati delle indagini di alcuni studiosi, la chiave della genesi del burnout è da rintracciarsi in questo contatto frequente con le emozioni dolorose degli altri, una condizione che stressa emotivamente a causa della medesima natura umana e della capacità di sperimentare l’empatia, non sempre gestita in modo da saper mantenere un giusto distacco emozionale.
Secondo gli specialisti, il disagio da burnout comprende tre vissuti che rappresentano le dimensioni fondamentali del problema:
La prima caratteristica è quella dell’esaurimento emotivo che è vissuto come un inaridimento interiore e come la sensazione di non avere più qualcosa da dare ai propri utenti e che viene esperito spesso come impotenza, tensione, impazienza, nervosismo o anche depressione e demotivazione rispetto a tutte le attività quotidiane precedentemente soddisfacenti.
La seconda caratteristica è chiamata depersonalizzazione e corrisponde a una tendenza a reagire in modo freddo o persino cinico-aggressivo nei confronti delle persone che sono destinatarie della propria attività lavorativa.
 La terza particolarità del burnout è la presenza di una ridotta realizzazione lavorativa che determina una sfiducia nelle proprie capacità e competenze. Molti casi gravi di burnout possono determinare una pesante sensazione di inutilità personale.
Paradossalmente sono le persone più idealiste a essere più a rischio di burnout: infatti quando una persona sceglie un lavoro iniziando con una eccessiva esaltazione e un entusiasmo idealistico, con la convinzione di poter cambiare gli altri o se stessi in modo radicale, si pone in una condizione potenziale di vulnerabilità maggiore a tale sindrome.
Eh si. Credo che tutti gli insegnanti e gli psicopedagogisti siamo a grave rischio burnout. Me compresa, giorno dopo giorno…
Non mi resta che aggrapparmi alla mia litania di pensieri, per evitare soprattutto il delirio di onnipotenza: mi ripeto che non posso cambiare il mondo, che non posso trovare il lavoro al padre disoccupato che piange senza ritegno nella mia stanzetta, che non ho la bacchetta magica per risolvere i disperati problemi familiari di tanti miei alunni, che non posso evitare che alcuni siano bocciati o non vengano a scuola, nonostante, a volte, io stia a scuola dieci ore di seguito….
E, come suggeriscono gli specialisti, tendo a diminuire la componente onirico-idealista rispetto al lavoro, cerco di evidenziare gli aspetti positivi della mia professione, ridimensiono le mie aspettative. Cerco di apprezzare ogni sfumatura di miglioramento. Mi confronto con i miei colleghi più attenti e sensibili per non sentirmi sola e condividere lo stress. Coltivo interessi al di fuori dal lavoro.

Scrivo in questo blog, ad esempio.

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