Karl Popper |
Dalla critica dello storicismo come ideologia dogmatica degenerante nelle diverse utopie totalitarie si sviluppa il pensiero politico di sir Karl Popper (1902-1994) viennese naturalizzato britannico, epistemologo della “falsificabilità”, nonché teorizzatore della cosiddetta “società aperta” (...).
Ogni forma di storicismo intravede nella storia un senso compiuto, un fine da realizzare, che diventa “valore in sé”, producendo inevitabilmente, come mostrano le vicende del trentennio compreso tra le due guerre mondiali, ideologie foriere di fanatismo, violenza, sopraffazione. Fedele al modello metodologico della scienza moderna che procede per congetture ed esperimenti, Popper ritiene che dall’analisi dei fatti (…) non sia possibile trarre alcuna conclusione riguardo alla sfera dei valori che regolano l’agire morale e politico. Non si dà, dunque, scienza dei valori in termini storico-fattuali: sono gli uomini a dar senso alla storia e alla politica. Né in ambito politico è possibile giungere a conclusioni di tipo olistico e sistematico. La totalità e l’interezza (di contro all’hegeliano “vero è l’intero”) sfuggono ad ogni considerazione veritativa.
In tale prospettiva Popper riprende l’antinomia già coniata da Bergson di “società chiusa” versus “società aperta”. La prima si fonda su una visione politica di tipo storicistico, ovvero metafisico e dogmatico e produrrebbe regimi totalitari, oppressivi, illiberali. La seconda, di contro, corrisponde al modello di liberal-democrazia. Propensione che egli maturò non solo per ragioni teoretiche, bensì per scelta consapevole, autobiografica: Popper, a causa delle sue origini ebraiche, in seguito all’avvento del nazismo (…) abbandonò l’Austria e si trasferì prima in Nuova Zelanda e dopo la fine della guerra in Inghilterra (…).
Ma quali sono le principali caratteristiche “virtuose” della società aperta? In primo luogo la salvaguardia della libertà personale dei suoi membri, intesi come singolarità: in linea con la tradizione liberale, lo Stato è costituito al fine di garantire i diritti inalienabili dell’individuo, in primo luogo proprio da quel surplus di potere che esso stesso può incarnare là dove pretenda trasformarsi in regime totalitario. In secondo luogo, democrazia è sinonimo di apertura, possibilità, dialogo, revisione, fallibilità: una società si definisce “aperta” nella misura in cui le sue istituzioni si rivelino continuamente suscettibili di critica, di riadattamento, e siano dunque, nel complesso, capaci di autocorrezione e riforma.
Così, in democrazia, lo statista dovrebbe riprodurre atteggiamenti e procedure simili a quelle utilizzate dallo scienziato popperiano, il quale, come è noto, si muove prudentemente sotto l’egida del cosiddetto “falsificazionismo”: dal momento che l’intero sfugge alle capacità relative della conoscenza umana, una teoria scientifica sarà adottata fintantoché il progredire della ricerca non l’abbia dimostrata falsa.
Altra fondamentale peculiarità del regime democratico consiste nella possibilità offerta ai governati di controllare i governanti. A questo sostanzialmente servono le elezioni, che devono essere liberamente tenute a scadenze prefissate in modo che i governati possano liberarsi con mezzi legali, senza far uso della violenza, degli eventuali cattivi governanti. In altre parole, il grado di apertura e democraticità di una società si misura in base alla maggiore o minore capacità di organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che politici disonesti e incompetenti (…) facciano troppi danni e, soprattutto, riescano a impossessarsi stabilmente del potere.
Fondamentale (…) è il ruolo delle opposizioni: le minoranze vanno salvaguardate e valorizzate in quanto portatrici di visioni politiche alternative e quindi potenzialmente feconde. Una democrazia che non tuteli la minoranza si trasforma tout court in una “dittatura della maggioranza”.Tutto l’impianto legislativo deve essere di fatto emendabile e riformabile, fatte salve le condizioni che rendono possibile la democrazia stessa. Ovverosia, le regole del gioco democratico non sono rivedibili e vanno difese (…). Ma le democrazie, riconosce Popper, avranno vita breve se ci si limita a proteggerle dai loro nemici, interni ed esterni, senza promuovere in ogni battaglia politica senso civico, capacità di confronto e di dialogo, rispetto delle diversità.
Se democrazia è sinonimo di fallibilità e cambiamento, Popper rifiuta tuttavia qualsiasi prospettiva rivoluzionaria. Il vocabolo “rivoluzione” del resto non poteva non evocare scenari teleologicamente orientati, caratterizzati da valori forti ed esclusivi, totalitari appunto. Utopie che la storia recente svelava per distopie grondanti il sangue di milioni di esseri umani. I cambiamenti, pertanto, dovranno essere introdotti in maniera graduale, e sempre realisticamente limitati a settori specifici della società, in modo che si possa valutarli separatamente e analiticamente, prescindendo da qualsiasi considerazione basata sui massimi sistemi. Il filosofo propende quindi per un riformismo gradualista, sperimentale – al pari della scienza la democrazia è, in fin dei conti, metodo razionale – inserito all’interno della tradizione del liberalismo classico.
(Dall’imperdibile
saggio a più voci: Democrazia, Diogene Multimedia, Bologna, 2016, €20, a cura di Francesco Dipalo, Giorgio Gagliano, Elio
Rindone - pagg.97/101)
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