Palermo – Forse molti ignorano il nome del medico italiano che, in qualità di presidente di “Medici Senza Frontiere”, nel 1999 ritirò a Oslo il premio Nobel per la Pace; lo stesso medico che, nel 2003, fu il primo a identificare il virus della SARS (Sindrome Respiratoria Acuta Grave) o polmonite atipica, la grave malattia epidemica manifestatasi allora in Estremo Oriente. Specie in questi giorni cruciali, nei quali si è più consapevoli dell’importanza della scienza e del valore altissimo della professione medica, ricordiamo allora il nome e la figura del dottor Carlo Urbani, specialista in malattie infettive e consulente dell’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità.
Palermo – Se un giornalista intervistasse
la gente chiedendo “Quali sono le virtù cardinali?”, molti oggi non saprebbero
rispondere. Il testo Le
virtù cardinali (Laterza, Bari, 2017, € 9), scritto da Remo Bodei, Giulio
Giorello, Michela Marzano e Salvatore Veca, ha
il merito di riportare l’attenzione sul poker di virtù - prudenza, giustizia,
fortezza e temperanza – definite cardinali poiché costituiscono i ‘cardini’, i
pilastri di una vita saggia e buona.
Negli ultimi tempi, la loro importanza esistenziale
è stata smarrita e ne è stato equivocato il vero significato. Questo vale
soprattutto per la prudenza e la temperanza. Come sottolinea infatti il
compianto prof. Bodei: “Nel linguaggio comune la prudenza tende oggi a
essere confusa con la cautela o la moderazione, ossia con una virtù modesta e
quasi senile, carica di paure o incertezze. (…) Per millenni essa è
stata invece considerata come la forma più alta di saggezza pratica, quale
capacità di prendere le migliori decisioni in situazioni concrete, applicando
criteri generali a casi particolari”. Quindi la prudenza, a causa dello slittamento
semantico subìto, è adesso connessa in modo riduttivo con la cautela ed è
spesso collegata ad una valutazione di egoistico tornaconto personale. In
realtà la prudenza dovrebbe essere identificata con la saggezza, che discerne,
in ogni circostanza, il nostro vero bene, e sceglie poi i mezzi adeguati per attuarlo.
Di origine latina, la parola è connessa al verbo vedere, e il prefisso ‘pru’
(contrazione da pro) indica ciò che è posto davanti nello spazio o prima nel
tempo. Essere prudenti significa allora potenziare le proprie capacità visive
per pianificare una scelta, cogliendone tutte le implicazioni future e
soppesando con intelligenza rischi e implicazioni.
Ecco ancora Bodei: “Si tratta dunque
della virtù deliberativa per eccellenza, che pone chi la pratica in condizione
non solo di discernere il bene dal male, ma anche di prepararsi per il futuro a
partire da un presente che ha fatto tesoro degli insegnamenti del passato. Essa
è quindi un potente antidoto alla precipitazione nell’agire, al fanatismo e
all’odio”.
La temperanza
è la virtù della pratica della moderazione. Nel mondo ellenico era intesa come
“il giusto mezzo”, con il termine che i latini tradussero con mediocritas.
Ma oggi nella parola italiana ‘mediocrità’ c’è solo una connotazione negativa. Per
Aristotele invece la temperanza era il giusto mezzo tra intemperanza e
insensibilità e veniva posta accanto al coraggio, alla liberalità, alla magnanimità,
alla mansuetudine e alla giustizia. Oggi la parola
“temperanza” è quasi estranea dal vocabolario quotidiano; ed è sicuramente
controcorrente, forse perché allude a un’etica del limite, legata
all’autocontrollo, alla padronanza dei desideri e al senso della misura. La
temperanza comunque ha poco a che fare con l’inibizione, al contrario è forza,
è misura che rende armonica la vita; è attuazione dell’ordine, dell’equilibrio
all’interno dell’uomo. Infatti, sottolinea ancora Bodei: “La temperanza allora
è da intendersi non tanto come continenza, autocontrollo della volontà sulle
passioni e i desideri, quanto come accordo dell’anima con sé stessa. In tale
armonizzazione si raggiunge l’equilibrio degli opposti. (…)
Michela Marzano ci sollecita poi a
riflettere sulla fortezza, secondo Aristotele giusto mezzo tra viltà e
temerarietà: “Il coraggio consiste, prima di tutto, nel nominare la paura,
nel riconoscerla; in un secondo momento, nel trovare un modo per attraversarla;
e, infine, nel trovare i mezzi e la possibilità per agire, nonostante si
continui ad avere paura”. E nell’evidenziare le caratteristiche della
fortezza, la Marzano offre considerazioni davvero illuminanti: il forte è
capace di rinunciare al conformismo, all’applauso immediato, è capace di fare
delle rinunce e, se è il caso, di disobbedire. Perché, come esortava anche Hanna
Arendt: “Il coraggio è necessario ogni giorno … sia che si tratti di votare
in Parlamento, di punire un alunno indisciplinato, di decidere come educare i
propri figli. Ci vuole sempre il coraggio di pensare con la propria testa. E il
male nasce nel momento in cui si smette di farlo e si obbedisce automaticamente
agli ordini, a prescindere dal loro contenuto.” Oggi più che mai allora la fortezza è una virtù centrale nell’agire
individuale e in quello sociale e politico: nell’agire individuale conferisce
spessore, perseveranza, tenacia; nell’agire pubblico è energia protesa a
vincere la paura della violenza e del male, ma anche energia per opporsi
all’ingiustizia.
Salvatore Veca, nel suo
saggio sulla giustizia, ricorda – anche lui citando Aristotele - che la giustizia era una delle
virtù etiche per eccellenza, e comprendeva il rispetto della legge, la giustizia politica, la giustizia intesa come equità. Cita
poi il filosofo statunitense John Rawls che, nel suo saggio ‘Una teoria della
giustizia’, ha affermato “La giustizia è la prima virtù delle istituzioni
sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero (…) leggi e
istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere
riformate e abolite, se sono ingiuste”. E, con l’economista indiano Amartya
Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998, Veca conclude la sua riflessione
includendo nell’idea concreta di giustizia anche i diritti economici e sociali,
pur consapevole della difficoltà attuativa giustizia globale. Infatti, solo la
percezione di un rapporto di fraternità civile tra gli esseri umani condurrà
alla realizzazione concreta della giustizia, virtù cardinale per eccellenza. Ma
perché a ciascuno sia dato il suo – “unicuique suum” scriveva Cicerone – la
strada è davvero ancora tutta in salita. E non è facile trovare uomini di buona
volontà desiderosi di percorrerla.
Palermo – Maruzza era avvezza alle quarantene forzate. Nel tempo che fu, le sue tre gravidanze l’avevano costretta a fermarsi e ad attendere con santa pazienza che le creaturine stessero al sicuro sino al nono mese. Quando era incinta del suo secondo figlio, il soffitto di una stanza di ospedale prima e quello della sua camera da letto dopo, erano stati per quasi due mesi il suo unico cielo. Però si trattava di quarantene private: sofferte sì, ma comunque felici, necessarie per dare alla luce una vita.
Ora la faccenda è molto diversa: bisogna stare tutti a casa per sfuggire al coronavirus e impedire che il contagio semini morte. Così a Maruzza torna in mente la massima di Epicuro: “Vivi nascosto”.
Ma, nel quarto secolo avanti Cristo, il filosofo greco non intendeva la solitudine e la vita ritirata come una fuga dalla società, ma come una modalità per non cedere alla lusinga del successo e dei falsi idoli, come un mezzo per entrare in contatto con la propria interiorità e vivere con maggiore serenità e consapevolezza. Nei nostri giorni l’invito di Epicuro ha una valenza ben diversa, quella dell’obbligo di restare a casa, giustamente impartito dal Governo italiano per fronteggiare, col distanziamento sociale, la pericolosa epidemia. “Vivi nascosto” ovvero “Resta a casa” è quindi, per necessità, l’attuale condizione esistenziale di tutti gli italiani.
Maruzza si è attrezzata per dare a questi giorni – la cui durata si prevede lunga e assai incerta - un ritmo, una direzione e un senso: si dà un tempo per cucinare, uno per pulire, uno per rigovernare, uno per stare al balcone, uno per tenere i contatti col mondo via web o via telefono, uno per annaffiare le piante e uno per godere su Skype dei sorrisi dei nipotini. In questo assai difficile frangente, Maruzza benedice la vita per la grazia delle sue relazioni virtuali, con parenti, colleghi/colleghe e amiche/amici preziosi. Comprese due silenziose alleate speciali: lettura e scrittura, che mai come in questo momento le stanno donando aiuto e sollievo.
Ad esempio, gli scenari complessi e allarmanti di una pandemia, lei – come tanti amanti della letteratura – li conosceva da tempo, avendo letto e riletto “I promessi sposi” del nostro Alessandro Manzoni e l’inquietante “Cecità” di José Saramago.
E poi, da studiosa di Storia, ricordava l’esempio di Anna Frank, capace di vivere rinchiusa per due lunghi anni in una stanzetta: nascondiglio che l’avrebbe salvata, se lei e la sua famiglia non fossero stati traditi e consegnati ai nazisti. Maruzza prendeva poi lezioni di resilienza da Nelson Mandela, in carcere per ben 27 anni per la sua lotta contro l’apartheid, prima di diventare Presidente del Sudafrica.
Certo aveva paura anche lei, con nostra sorella Morte padrona di casa nel suo Paese. E le frequenti sirene delle autoambulanze le istillavano un’ansia sottile. Cercava però di tenere lontani gli improvvidi e perniciosi rumori di fondo: le chiacchiere senza costrutto, le chat immondezzaio, le ansie irrazionali … Per fortuna, il pranzo da preparare, l’articolo da scrivere e le mutande da lavare le offrivano una salutare distrazione.
E poi un giorno sarebbe finita, questa vera, lunga Quaresima: l’aveva definita così la sua zietta che aveva già compiuto 100 anni. Zietta che se ne stava a casa tranquilla, recitando le lodi, i vespri e il rosario. Ed era lei a chiedere per prima, al telefono, notizie della salute di nipoti e pronipoti, specie di quelli lontani…
Maruzza nutriva nel cuore una grande speranza: che dopo questo calvario, l’Italia intera avrebbe mostrato a se stessa e al mondo una nuova Rinascita, basata su un’economia solidale, non più schiava del dio profitto, ma attenta ai lavori e ai settori davvero importanti.
E, come tutti, sognava un’etica nuova, attenta a ciò che nella vita conta davvero. E, insieme, sperava in una nuova politica, capace di occuparsi dei bisogni reali del nostro Paese: la sanità, la ricerca scientifica, l’energia pulita, la cultura, le comunicazioni e i trasporti, l’armonia e la sicurezza sociale, l’equa condivisione di risorse e beni comuni.
Allora, forza, Italia …
Palermo – Avrebbe meritato il Nobel per la medicina il dottor Albert Sabin, nato in Polonia e poi, dagli anni ’20, cittadino statunitense, il cui vaccino contro la poliomielite, introdotto in Italia nel 1963 e reso obbligatorio nel 1966, ha permesso la scomparsa della malattia dal nostro Paese.
Invece Sabin non solo non ha avuto alcun riconoscimento dall’Accademia di Stoccolma, ma non ha neppure conseguito guadagni economici dalla sua importante scoperta scientifica perché si rifiutò di brevettarla: volle infatti che il costo del vaccino rimanesse accessibile a tutti i Paesi, per favorirne la più ampia diffusione. In effetti, con la zolletta di zucchero contenente il vaccino Sabin, sono stati vaccinati – e salvati dalla polio - centinaia di milioni di bambini del mondo.
Gli effetti della poliomielite sono noti fin dall'antichità. (continua su: il Punto Quotidiano)
Palermo – L’otto marzo, giornata dedicata alle donne, merita un tributo speciale la professoressa Fabiola Gianotti, dal 2016 direttore generale del CERN (Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare), il più grande laboratorio al mondo che studia la fisica delle particelle. La professoressa Gianotti vanta due primati: è la prima donna ad aver ricoperto tale incarico ed è la prima persona che ricopre questo ruolo due volte di seguito. Il CERN infatti, il 6 novembre 2019, alla scadenza del primo mandato, l’ha riconfermata alla guida del prestigioso centro di ricerca di Ginevra sino al 2025.
Con uno sguardo mi ha resa più bella,
e io questa bellezza l’ho fatta mia.
Felice, ho inghiottito una stella.
Ho lasciato che mi immaginasse
a somiglianza del mio riflesso
nei suoi occhi. Io ballo, io ballo
nel battito di ali improvvise.
Il tavolo è tavolo, il vino è vino
nel bicchiere che è un bicchiere
e sta lì dritto sul tavolo.
(...)
Gli parlo di tutto ciò che vuole:
delle formiche morenti d’amore
sotto la costellazione del soffione.
Gli giuro che una rosa bianca,
se viene spruzzata di vino, canta.
Mi metto a ridere, inclino il capo
con prudenza, come per controllare
un’invenzione. E ballo, ballo
nella pelle stupita, nell’abbraccio
che mi crea.
Eva dalla costola, Venere dall’onda,
Minerva dalla testa di Giove
erano più reali.
Quando lui non mi guarda,
cerco la mia immagine
sul muro. E vedo solo
un chiodo, senza il quadro.
Wislawa Szymborska
La gioia di scrivere, tutte le poesie (a cura di Pietro Marchesani)
Palermo – “Se Katherine dice che i calcoli vanno bene, allora io vado” – questa la condizione posta da John Glenn, l’astronauta statunitense che eguagliò l’impresa del russo Jurij Gagarin, rimanendo in orbita attorno alla terra per alcune ore.
Infatti, quando nel 1962 con la missione Mercury la NASA utilizzò per la prima volta i calcolatori elettronici per programmare il primo volo orbitale americano, venne chiesto alla matematica Katherine Johnson di verificare a mano, col solo ausilio della sua calcolatrice meccanica, i dati delle macchine elettroniche, poiché Glenn si rifiutava di volare, se lei non avesse dato il suo ok.
Perché era davvero brava con i numeri, Katherine: aveva mostrato sin da bambina il suo spiccato talento per la matematica, conseguendo il diploma di scuola superiore a 14 anni e ottenendo magna cum laude la laurea in matematica a soli 18 anni. Nel 1938 è l’unica donna afroamericana a superare le barriere segregazioniste dell'Università della Virginia Occidentale, accedendo a una specializzazione universitaria sino ad allora preclusa agli studenti di colore.
Dal 1953 Katherine cominciò a lavorare per la NASA. Fino al 1958 svolse l'attività di "calcolatrice", lei e le altre donne afro-americane nel pool di calcolo venivano appellate "calcolatrici di colore" (coloured computers) e soggette a discriminazioni sul posto di lavoro, come il dover lavorare, pranzare e usare servizi igienici diversi dai bianchi.
Nonostante la fatica di lavorare in un ambiente pieno di pregiudizi e di limitazioni, Katherine riuscì a essere ammessa, unica donna e nera per giunta, nel team di lavoro della stanza dei bottoni, quello che progettava le prime missioni nello spazio. E’ proprio lei, nel programma Mercury, a calcolare le traiettorie del primo volo spaziale del 1959, assegnato ad Alan Shepard, e a verificare poi a mano i calcoli del volo orbitale di John Glenn.
Dopo il successo delle prime missioni spaziali, dovuto anche alla straordinaria precisione dei suoi calcoli, Katherine diviene una delle figure di spicco della Nasa: sino al 1986 lavora per quasi tutte le missioni spaziali: la missione Apollo 11 del 1969 con il leggendario sbarco dell’uomo sulla Luna, le missioni dello Shuttle, e dà infine un significativo contributo agli studi teorici per le sonde da inviare su Marte.
La sua storia, assieme a quella delle colleghe Dorothy Vaughan e Mary Jackson, è stata magistralmente raccontata nel libro “Hidden Figures”, da cui nel 2016 è stato tratto il film “Il diritto di contare”, che ha reso Katherine, Dorothy e Mary finalmente celebri in tutto il mondo.
E’ stata persino creata una bambola Barbie con il suo nome e le sue sembianze, come esempio per le bambine di oggi. Nel 2015 il presidente Barack Obama l’ha insignita della Presidential Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile americana.
Katherine Coleman (Johnson è il nome del secondo marito, sposato dopo essere rimasta vedova del primo) ci ha lasciati il 24 febbraio scorso, a 101 anni.
In prossimità dell’otto marzo, vogliamo ricordarla proponendola come modello luminoso per tutte le donne: perché abbiano fiducia nella propria intelligenza e nei propri piccoli grandi talenti. E lottino con serietà e determinazione per ottenere il diritto di “contare” e di costruire assieme agli uomini un mondo migliore.