Palermo – Primo
Levi, morto l’11 aprile 1987 per una fatale caduta nella tromba delle scale del
suo appartamento in corso re Umberto 75 a Torino, il 31 luglio avrebbe compiuto
100 anni. Con la sua misteriosa dipartita – suicidio o tragico incidente? – l’Italia
ha perso il testimone più acuto e più lucido della Shoah. Per la sua azione di
partigiano, Levi fu arrestato in Val d’Aosta il 13 dicembre 1943 e, in quanto
ebreo, fu poi condotto a febbraio del 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz. Con lui furono
deportati 650 ebrei italiani, tra cui vecchi, donne e bambini; Primo Levi fu
uno degli unici venti sopravvissuti.
Come racconta lui stesso, lo salvarono la
laurea in chimica, che gli permise di essere utilizzato per alcuni mesi in un
laboratorio chimico, al riparo di freddo e percosse, e l’aver ricevuto qualche razione
di cibo in più da un operaio italiano, Lorenzo, che lavorava da civile nel
lager e mostrò sempre verso di lui una disinteressata misericordia.
Primo Levi raccontò
con parole magistrali, nel libro “La tregua”, l’ingresso ad Auschwitz il 27
gennaio 1945 dei soldati russi, che segnò la liberazione dei prigionieri
superstiti: «Erano quattro giovani
soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori, lungo la
strada che limitava il campo(…) A noi parevano mirabilmente corporei e reali,
sospesi … sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del
cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo. Ci pareva
… che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri
spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro
uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai
visi rozzi e puerili, sotto i pesanti caschi di pelo».
La sua opera più
celebre rimane “Se questo è un uomo”, il resoconto della sua vita nel lager di
Auschwitz, scritto, come dichiarato dall’autore nell’appendice del 1976 per
l’edizione scolastica, «con il linguaggio pacato e sobrio del testimone,
non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore». Perché,
continua Levi: «Io credo nella ragione e
nella discussione come supremi strumenti di progresso, e perciò all’odio
antepongo la giustizia».
Oltre che
testimone speciale dell’Olocausto, Primo Levi si rivelò anche scrittore di
talento: con La tregua vinse nel 1963
il Premio Campiello; nel 1979 con il racconto La chiave a stella si aggiudicò il premio Strega. Una delle sue
ultime opere, il saggio I sommersi e i salvati, ha assunto
infine nel tempo un altissimo valore etico e civile perché in questo testo Levi si chiede il perché della violenza cieca del lager e fornisce risposte chiare,
efficaci e storicamente fondate.
Illuminante, in
particolare, è la sua analisi alla "zona grigia", rappresentata da
tutti coloro che a vario titolo e con varie mansioni avevano partecipato al progetto
concentrazionario nazista: «Ci viene
chiesto dai giovani (…) chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri
«aguzzini». Il termine allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere è
improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici (…). Invece erano
fatti della nostra stessa stoffa, erano essere umani medi, mediamente
intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il
nostro viso, ma erano stati educati male. Erano in massima parte gregari e
funzionari rozzi e diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista,
molti indifferenti o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera o
troppo obbedienti. Tutti avevano subito la terrificante diseducazione fornita e
imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler e dai suoi collaboratori».
Dunque,
ammonisce l’autore; «Se comprendere è impossibile, conoscere è
necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono
nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».
E conclude
affermando che solo la buona politica e leggi giuste possono salvarci. Ogni
epoca storica ha in sé i germi dell’oppressione e della violenza dell’uomo
sull’uomo. Auschwitz è sempre alle porte: è necessaria una vigilanza continua,
individuale e collettiva insieme, perché non vengano infranti gli argini delle
strutture etiche e giuridiche che impediscono alla violenza cieca il funesto ingresso
nella Storia umana.
Maria
D’Asaro, 11.08.2019, il Punto Quotidiano
Non mi stanco mai di leggere Primo Levi, di sentirne parlare. La tua sintesi magistrale trova, nella conclusione, un riferimento ad ogni tempo e direi anche - drammaticamente - alla incertezza del tempo presente in Italia. Un caro abbraccio e grazie.
RispondiElimina@Rossana: Ci troviamo d'accordo nel considerare Primo Levi un gigante del '900. Non dovremmo mai dimenticare il suo grido di dolore e le sue riflessioni ammonitrici. Ricambio caramente l'abbraccio
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