Dal balcone di palazzo Venezia a Roma, il 10 giugno 1940, Benito Mussolini annunciava l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, parlando a una folla oceanica: “Batte nel cielo della patria… l’ora delle decisioni irrevocabili” e si rivolgeva con retorica ai “Combattenti di terra di mare e di aria” …
Tra i chiamati alla leva c’era Francesco Greco, un siciliano di Aragona, un paesino a due passi dalla bella Agrigento. Il ragazzo, che non aveva neppure vent’anni (era nato il 5 ottobre 1921) nel gennaio 1941 si trovò catapultato a Saluzzo, in provincia di Cuneo, a migliaia di chilometri dalla sua terra, nel 44° reggimento di fanteria, divisione “Forlì”. Una sua foto, datata 21 marzo 1941, ci mostra un ragazzino dallo sguardo serio e pulito, forse non del tutto a suo agio in quella divisa così impegnativa e pesante.
Dopo l’addestramento, lo ritroviamo nella primavera del 1943 a combattere in Grecia, prima a Neapolis, dove il suo battaglione, subirà una serie di assalti militari ad opera dei ribelli greci. Poi, a fine aprile, a Domugos; infine a Lamia.
In una foto del 23 agosto lo rivediamo con i baffi, che gli danno un’aria un po’ più da grande. Ma Francesco, matricola 1150, chiamato a combattere una guerra che non gli appartiene, non ha ancora compiuto 22 anni.
Dal suo diario apprendiamo che il cibo che arrivava ai soldati italiani scarseggiava: per vincere la fame, talvolta erano costretti a rubacchiare uova o galline e tutto ciò che sembrava commestibile…
Intanto in Italia nel luglio 1943 il governo di Mussolini era stato destituito e l’8 settembre il nuovo governo Badoglio firmava l’armistizio con gli ex avversari, gli Alleati. L’esercito italiano precipitava nel caos.
Francesco ci ha raccontato cosa gli è successo, nelle pagine di un diario amorevolmente conservato da sua figlia Mariella:
L’11 settembre, Francesco e il suo battaglione vennero presi prigionieri dai tedeschi, nel cimitero del paese greco di Leon. Radunati poi in un campo sportivo, un comandante tedesco propose loro di collaborare con il loro esercito: nessuno aderì alla proposta.
I soldati italiani furono pertanto trasferiti alla stazione ferroviaria di Lamia e da lì, strettamente sorvegliati dai tedeschi, furono fatti salire su un treno merci. Il convoglio passò attraverso la Bulgaria, la Romania e l’Austria. A ogni fermata qualche soldato riusciva a scappare; non Francesco, che credeva fiducioso alla parola dei tedeschi, i quali avevano promesso ai soldati che sarebbero tornati in Italia. Purtroppo non fu affatto così.
Ma ora diamo la parola a Francesco. Ecco cosa scrive nel suo diario:
«Erano circa le 7 del mattino del 14 ottobre ’43, quando il treno entrò in un campo di concentramento, il lager 1B di Hohnsten, cittadina tedesca nella Sassonia, non lontano da Dresda.
Dopo lo smistamento, noi soldati italiani rimanemmo in baracche di legno per circa due giorni. Il 16 ottobre, tutti e cento i soldati prigionieri, me compreso, fummo trasferiti in un altro campo di concentramento a Torgau/Elbe nel Lager Bezeichnung. Venimmo fatti spogliare, ci furono rapati i capelli a zero, fummo disinfestati e disinfettati, ci venne assegnato un numero. Io, Francesco, divenni il numero 24710.
Fummo tutti costretti a lavorare in una fabbrica di materiale bellico, la fabbrica ‘Elfa’ a Elsterwerda. Lavoravamo lì tutti i giorni, tranne la domenica, dalle 6.00 del mattino sino alle 18.00. Il freddo e la fame ci sfiancavano… litigavamo anche per pochi bocconi di pane raffermo.
Un giorno mi accorsi che, proprio accanto alla fabbrica, c’era un magazzino dove i tedeschi conservavano patate, carote, verdure… un paradiso di verdure. Escogitai un modo per entrare nel magazzino, mi nascosi dietro un cumulo di carote e attesi immobile l’orario di chiusura. Dopo un po’, spinto dalla fame, cominciai a mangiare di tutto… Una volta sazio, mi addormentai.
Nessuno quella sera si accorse della mia scomparsa. Ma il mattino seguente la mia assenza in fabbrica fu subito segnalata. Un caporale tedesco fece annusare i miei indumenti a dei cani e cominciò la mia ricerca, che si concluse ben presto davanti alla porta del magazzino.
Fui svegliato dai cani che abbaiavano e mi ritrovai con una pistola alla tempia: in quell’istante, cominciai a pregare… ero convinto che mi avrebbero ucciso. Ero preso dallo spavento, supplicai il comandante tedesco di risparmiarmi la vita…
Non so come, ma avvenne un miracolo: il tedesco non solo non mi uccise, ma, invece di punirmi, finse di picchiarmi, battendo il bastone su un tavolo. Da quel momento in poi, anche se la guerra ci costringeva ad essere nemici, tra noi nacque una sorta di amicizia.
Quella non fu l’unica volta in cui scampai quasi miracolosamente alla morte.
A causa del freddo e degli stenti, mi ammalai gravemente. Non ero in grado di lavorare e fui trasferito in un ospedale dove rimasi infermo per un po’ di tempo.
Quando mi sentii un po’ meglio, mi fu ordinato di pulire i corridoi dell’ospedale. Fu così che una mattina ebbi modo di incontrare un infermiere italiano della Croce Rossa, che in segreto mi bisbigliò i andar via da quell’ospedale poiché nessun prigioniero ammalato ne usciva vivo.
Fui molto turbato dalle parole di quell’infermiere: da cosa voleva mettermi in guardia? Decisi di darmi da fare per scoprire la verità.
Così un giorno, mentre spazzavo i corridoi, mi accorsi che i soldati tedeschi trasportavano con un lenzuolo un soldato moribondo. Li seguì e li vidi aprire una porta e gettarvi dentro il corpo. In quell’istante fui quasi inondato da un odore nauseabondo, molto forte, di carne bruciata, scoprì così che oltre quella porta c’era un forno crematoio e la polvere che spazzavo nei corridoi dell’ospedale era cenere umana…
Fui sconvolto per quell’orrore. Ebbi pietà per quei morti. E feci di tutto per evitare di morire così. Andai dai medici: li convinsi a dichiarare che mi ero completamente ristabilito in modo che mi facessero andare via e potessi tornare in fabbrica a lavorare.
Quando mi videro, i miei compagni erano increduli: nessuno prima di me era rientrato da quell’ospedale».
Altri episodi hanno caratterizzato la prigionia di Francesco, sempre in lotta per la sua sopravvivenza. Finalmente, il 19 aprile 1945, il campo venne liberato dai soldati russi. Ma i prigionieri italiani dovettero aspettare mesi prima di poter tornare a casa, perché il loro diritto alla fine della prigionia e alla effettiva libertà non fu subito riconosciuta dai russi.
Il primo settembre del 1945 riuscirono tutti a partire. Francesco iniziò il suo lungo cammino per tornare a casa ad Aragona, nella sua Sicilia.
Lì, dieci anni dopo circa, il 16 giugno 1956 Francesco Greco sposa Lilla Morici. E il 10 agosto del 1957 nacquero i loro figli: i gemelli Mariella e Federico.
Nel 2003, ormai molto anziano, papà Francesco decise di scrivere un diario per raccontare la sua storia. La figlia Mariella ha avuto la forza di leggere questo diario solo dopo la sua morte, avvenuta il 27 dicembre 2018: «Solo adesso ho capito perché lui era sempre allegro e ottimista: era stato fortunato, nonostante tutto… Se ne è andato via con dignità - quella che ha sempre avuto - circondato dall’affetto dei suoi cari, a quasi 98 anni».
Questa la testimonianza affettuosa e accorata della figlia Mariella, docente di Musica: a Mariella il nostro grazie per averci reso partecipi di un pezzo così importante della sua e della nostra Storia.