giovedì 20 gennaio 2022

Alla ricerca dell’abbraccio perduto: la ‘grammatica’ del contatto

     “Cappella Sistina: Creazione di Adamo.”: il dito di Dio è pronto per toccare il dito di Adamo. Estatici contempliamo la scena e sentiamo nel nostro corpo che il dito di Dio vibra in cerca di Adamo. E lui, forse inizialmente indolente, svegliato dalla ricerca del dito di Dio, si trova dentro la tensione del decidere se rispondere o no. È vero ciò che diceva Aristotele: se il dito duole, l’anima è nel dito che duole. L’anima è nel dito che vibra alla ricerca dell’altro. Ma nella Creazione di Michelangelo le due dita sono state dipinte nell’attimo che precede l’incontro, proprio nel momento in cui la tensione ha raggiunto il suo acme e si è pronti a consegnarsi all’altro. 
    Forse lo spazio vuoto contiene il segreto della nostra inquietudine: la ricerca di un contatto che ci dia calore e ci lasci libertà. Il contatto ci placa, ci dà pienezza, e al contempo ci rimette in cerca. Lacan (e Recalcati) hanno torto. Siamo spinti al contatto non dalla mancanza ma dalla pienezza. 
     Sono passati secoli, e quelle dita continuano a vibrare, a raccontarci che nella tensione verso l’altro è racchiuso il senso pieno dell’esistenza. E se fosse questo il significato genuino del ‘Panta rei’ tradotto da Michel de Montaigne con «tutto è in movimento»? Completa Maria Fux: «Il movimento vibra in ogni corpo, anche se il corpo non lo sa». 
     Ma verso dove ci muoviamo? È chiaro: verso la pienezza del contatto. È il contatto che genera il fuoco della vita. 
      Miliardi di recettori straordinariamente distribuiti sulla superficie corporea permettono di percepire e distinguere il caldo, il freddo, il dolore, persino l’orientamento del corpo nello spazio circostante. È la sensibilità tattile che rende l’individuo, uomo o animale che sia, capace di rilevare la presenza di stimoli esterni, generati dal contatto della superficie cutanea con il resto del mondo. Tramite preziosi meccanismi anatomofisiologici ci relazioniamo col mondo esterno (e interno) riuscendo a tradurre il contatto materiale tra il corpo e gli agenti fisici in sensazioni termiche, dolorose, variazioni di pressione, percezione dei movimenti. Siamo stati seriamente progettati per interagire con l’altro, fuori di noi e dentro di noi.  
Giovanni Salonia
     In un periodo storico in cui olfatto e gusto sono diventati i due sensi ‘sentinella’, la percezione tattile si ritrova gravemente segnata dal rigido distanziamento fisico dovuto al virus. Toccare e poi toccarsi potrebbe essere causa di contagio: niente di più distruttivo poteva colpire il bisogno innato che l’uomo ha di relazionarsi corporeamente con l’altro, di fare con-tatto. Ma è proprio perdendo gli abbracci che abbiamo scoperto quanta fame abbiamo di contatti e come ne siamo nutriti. 
     Certo, questo lungo digiuno di abbracci rischia di rendere i nostri copri freddi, impauriti. Toccare è vibrare: due corpi accostati sentono reciprocamente il calore l’uno dell’altro: è come respirare in un’unica contrazione diaframmatica. Farne esperienza è spinta irrinunciabile alla vita. Non farla questa esperienza, o non averla mai fatta, è violazione di una dimensione fondamentale del vivente, che ogni essere avrebbe il diritto di provare. 
   Perché nasciamo nel bisogno incessante di essere avvolti da un abbraccio, di essere accarezzati, riscaldati, nutriti, di essere consolati da un semplice tocco ‘caldo di presenza’. Il bimbo in orfanotrofio, accucciato lungo le sbarre del cullino che lo ospita, testimonia drammaticamente il bisogno indiscusso che ogni uomo sente di una percezione cosciente e confortante dell’altro. L’anziano che inaspettatamente blocca e stringe la mano che gli porge l’ennesima pillola della giornata, approfittando di quel passaggio veloce per ‘sentire’ la presenza, ci rimanda al bisogno pulsante, intimo, di una pur fugace percezione dell’altro. 
        Viviamo un tempo duro. Eppure, in questo periodo così impervio, Michelangelo forse ci sostiene. È lui, nella Creazione di Adamo, a ricordarci che sebbene le dita non si tocchino si può vibrare di energia e di vita. Perché il contatto accada dobbiamo desiderarlo con tutto noi stessi, cercarlo dentro una grammatica che, come le sponde, permette al fiume della vita di scorrere e di fluire senza smarrirsi.   
Chandra Livia Candiani
    Nella grammatica del contatto innanzitutto ci viene chiesto di ‘esserci’, di ‘essere presenti'. Impariamo dai ragazzi. Si accertano del contatto chiedendosi reciprocamente: ‘Sei connesso?’ E poi continuano: ‘Ma ci sei?’. Quasi a dire: ‘Ti voglio presente’. Ed ancora, per verificare quanto l’altro tenga all’incontro: ‘Ma tu, quanto ci sei? Da 1 a 10 quanto ci si sei?’.
    Affinché accada il contatto, quello vero, che rigenera, dobbiamo essere presenti, esserci totalmente. Nel con-tatto ci sentiamo vivi. Anestesia e parestesie sono infatti dimensioni patologiche che sregolano la nostra relazione corporea nel mondo e con il mondo, perché siamo vivi ma soprattutto ‘ci sentiamo vivi’ se toccando ci arriva la percezione tattile del gesto. E solo così riusciamo a orientarci nel mondo. Se siamo connessi e siamo presenti, allora siamo pronti e disponibili per il contatto. 
        Forse solo adesso possiamo capire quanto fossero veloci e vuoti tanti abbracci, tanti contatti prima della pandemia. Oggi siamo pronti a sapere, a capire nel profondo, che lo sguardo e la parola si riempiono di magia solo se sono pieni di anima, se sono i luoghi in cui si esprime il desiderio di incontrare l’altro. 
    La vita d’altronde, quando vibra, inventa il dove e il come incontrarsi. In questa condizione borderline a cui la pandemia ci costringe, il ‘ti amo e non posso abbracciarti diventa ‘ti amo, non ti abbraccio, ma inventiamo insieme una strada per incontrarci’. 
 Possiamo e dobbiamo attraversare questo momento di necessaria distanza fisica con la creatività che si sprigiona da una rinnovata intenzionalità di contatto. In tempi difficili come i nostri, quando 'essere pessimisti sembrerebbe la via più sicura e più facile' (direbbe Bonhoeffer), l’ottimismo genuino e fecondo è quello generato dalla certezza che mai dovremo smettere di cercare l’altro: nostro porto, nostro destino, nostra salvezza. Scrive Chandra Livia Candiani: «Dammi l’acqua / dammi la mano / dammi la tua parola / che siamo, / nello stesso mondo!».

Prof. Giovanni Salonia, psicologo e psicoterapeuta  (da qui)

3 commenti:

  1. La pandemia ha rotto il contatto umano tra uomo e uomo. Non si può immaginare niente di peggio.

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    1. @Gus e Franco: caro Gus, sono d'accordo con Franco. A mio avviso, oltre alla morte ovviamente, la guerra, la violenza, l'odio, il disastro ambientale, le macroscopiche ingiustizie sociali... sono eventi peggiori della pandemia che, grazie ad alcune conoscenze scientifiche, si tenta comunque di fronteggiare. Buona giornata e buon fine settimana.

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