mercoledì 14 giugno 2023

Chi nicchi e nacche

      Chi nicchi e nacche: intraducibile. Si dice per un discorso o una situazione che non sta né in cielo né in terra. Usata in tutta la provincia di Agrigento, l’espressione trovò forse applicazione perfetta un sabato sera del 1936. 
     Il federale De Magistris, del resto obbedendo a ordini dall’alto, per concretamente dimostrare come il fascismo fosse interclassista, fece la bella pensata di organizzare un serata danzante al mio paese, nella palestra di una scuola, e invitò ricchi e poveri, avvocati e scaricatori di porto, commercianti e spazzini, medici e pescatori. Con rispettive signore, s’intende. Nessuno osò declinare l’invito che aveva il tono di un ordine. Nella palestra, addobbata con festoni e bandiere, si operò subito una sorta di selezione naturale: i borghesi si aggrupparono da un lato e i proletari in quello opposto e tutti coi musi lunghi, a nessuno andava di mescolarsi in un ballo interclassista (e meno  di tutti, a onor del vero, ai proletari).
    Accolto dalle note di “Giovinezza” suonate da una volenterosa orchestrina, arrivò il federale e subito, sbrigativamente com’era nello stile dei gerarchi dell’epoca, diede inizio alle danze, andando a invitare una donna del popolo. Si trattava, per sua disgrazia, della gna’ Rosina Trupìa, donna di servizio a ore, nota in tutto il paese perché amava parlare latino, non quello di Cicerone. Da noi parlare latino significa non avere peli sulla lingua. Gna’ Rosina guardò freddamente il federale in uniforme che davanti a lei stava a metà piegato nell’inchino e proruppe a voce altissima: “In prìmisi in prìmisi ‘un sacciu abballari, e po’ chi nicchi e nacche abballare cu vui?”
    Il federale capì senza bisogno di traduzione (e non credo occorra nemmeno ai miei lettori). Poco dopo, con molti “alalà”, la festa si sciolse.

Andrea Camilleri, Il gioco della mosca, Sellerio, Palermo 1999


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