Ci sono libri per l’estate e libri per l’inverno. Libri per donne e libri per bambini. Libri di fantasia e libri pregni di realtà. Libri per dotti e libri per gente comune. Il libro dell’ignoto di Jonathon Keats (Giuntina, Firenze, 2010, € 16) è un libro per tutti e per tutte le stagioni. Perché è nutriente, è un libro che cura.
Il libro dell’ignoto racconta le storie di dodici creature, sei donne e sei uomini, che vivono in luoghi immaginari sospesi nel tempo e nello spazio. Jonathon Keats si cela dietro le vesti di Jay Katz, fantomatico professore universitario studioso di riti e tradizioni ebraiche. Il professore va in giro in villaggi sperduti ad ascoltare le storie di ladri, idioti, sgualdrine, falsi messia che, secondo la pergamena di un misterioso cabbalista, sarebbero alcuni dei Lamed-vav, i trentasei giusti necessari in ogni epoca per giustificare l’esistenza dell’umanità agli occhi di Dio.
Al riparo di questo pretesto narrativo, la fervida fantasia dell’autore, in sinergia con una costante tensione metafisico-filosofica, ci presenta personaggi imperdibili: Chet l’imbroglione, mangiatore di peccati: la sua “non era una professione semplice. Colui che la esercitava doveva essere penitente in ogni momento, e doveva fare attenzione a non peccare mai, neppure in sogno”; Yod-Bet la ribelle: “pallida come la paura e fragile come la fortuna”, caduta sulla terra dopo un terribile scroscio celeste, come tutti gli angeli espulsi dai cieli per crimini contro il paradiso che “precipitano nella notte luminosi come fiamme e la gente chiama stelle cadenti”; Tet il fannullone, che viveva in un paese dove si lavorava senza sosta e le campane suonavano in continuazione perché colpite da “insonnia cronica”; Alef l’idiota, al quale si poteva far credere che “il pesce di scoglio dentro il suo secchio si sarebbe pietrificato e offrirgli … di barattarlo con un verme che gli avrebbe portato più fortuna”.
La cornice fiabesca e il "topos" dell’indeterminazione spazio-temporale non impediscono a Keats di parlarci dell’oggi e di dire chiaramente la sua tra la filigrana delle vicende fantastiche: nella storia di He la clown viene messo alla berlina il concetto stesso di potere, che combatte persino per affermare se “era l’est che tratteneva il sole al mattino, oppure era l’ovest che se ne appropriava la sera”. Alla fine però la guerra viene sconfitta da una risata e tutta la vicenda può essere considerata un perfetto manifesto antimilitarista e nonviolento. La storia di Tet il fannullone, che restituisce alla sua città il sonno e la veglia e il giusto equilibrio tra l’ozio e il lavoro, dovrebbe essere meditata a Milano, come a Tokyo e San Francisco, metropoli ossessionate dal mito della crescita a tutti i costi. E Tet potrebbe divenire il leader di un qualsiasi movimento della decrescita felice, che, anziché pensarli come scopo ultimo della vita sociale, ricollochi gli affari, la produzione e il commercio a semplici mezzi per vivere.
L’autore ci offre inoltre una sapiente contaminazione tra estro fantastico e riflessioni etiche di notevole spessore: che evidenziano il valore del pensiero divergente e la feconda dialettica tra l’opera del singolo uomo/donna e la trasformazione della comunità.
Jonathon Keats e Silvia Pareschi |
Il testo infine, magistralmente tradotto da Silvia Pareschi, è impreziosito dalla particolare cifra stilistica dell’autore, che, in più tratti, richiama i voli di fantasia e le preziose suggestioni del Calvino de “Le città invisibili” e, per la freschezza e la grazia con cui vengono narrate le scene d’amore, ricorda qualcosa di Erri De Luca.
Il libro lascia quindi nel palato del lettore un retrogusto profumato e nutriente. Qual è infatti il segreto di questi dodici Lamed-vav? Intanto che “la santità, al contrario dell’eroismo, è qualcosa di quotidiano”. C’è un collante, un filo rosso che lega le dodici storie: i dodici personaggi sono capaci di amore e di perdono. Il loro cuore sa che l’amore è la chiave di volta di tutte le relazioni umane, il balsamo che guarisce tutte le ferite. Come Yod l’inumana, imparano anche “una sensazione nuova, diversa dal dolore e dal piacere ma anche dai frutti eterogenei della loro unione, le passioni sorelle di odio e amore (…) Yod non lo sapeva ancora, ma gli altri la chiamavano compassione”.
Alla fine allora, la realtà da ricercare non è il paradiso, che “potrebbe essere bello o brutto come qualsiasi altro posto, ma diventa terribile perché vuol essere perfetto”, né la sapienza e neppure la salvezza egoistica della propria anima. Perché, come ci ricorda Paolo di Tarso: “Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla.”
Grazie allora a Jonathon Keats, che attraverso le storie dei dodici giusti ci ricorda che solo l’amore, nelle sue molteplici declinazioni, oggi come ieri, è in grado di salvare il mondo.
Maria D’Asaro