Luca Grecchia |
Che cosa è la felicità? Può l’uomo contemporaneo essere felice? Questi gli interrogativi non da poco posti da Luca Grecchi nel saggio Conoscenza della felicità (Ed. Petite Plaisance, Pistoia, 2005, € 15). Già nelle pagine iniziali del testo, l’autore ci offre una risposta positiva: l’uomo tende naturalmente alla felicità, cioè ad una condizione di armonia con se stesso e col mondo, e la filosofia ci è di aiuto per conseguirla. Il problema però, sottolinea Grecchi, è che la nostra società non è funzionale al suo raggiungimento: infatti l’uomo contemporaneo “privato sempre più di quelle relazioni sociali comunitarie che sole sono in grado di costituirgli un’anima, bada da tempo sempre più al corpo” e considera massimo bene la sua sopravvivenza materiale. Così, attorniato da un contesto mediatico impegnato a veicolare il culto della ricchezza a ogni costo, l’uomo si ritrova in una società caratterizzata da enormi “vuoti d’anima”.
L’autore poi, facendo sua le analisi di Marx, afferma che “il modo di produzione capitalistico è infatti oramai giunto a costituire direttamente i nuclei comportamentali profondi della popolazione”, raggruppabili in cinque “tendenze” che evidenziano tutte forti carenze nella relativa struttura di umanità: la personalità concretista, la narcisista, quella reificata, la sociopatica ed infine l’apatico/depressiva. Lo studioso indica anche alcune cause strutturali dell’infelicità umana, sottolineando che, nelle varie epoche storiche, “le condizioni materiali della vita sono state caratterizzate dalla scarsità relativa delle risorse, cosa che ha condotto gli uomini principalmente alla ricerca dell’accumulazione privata per garantirsi la sicurezza. Ciò ha attivato, sin dalle origini (…), modalità produttive privatistiche e modalità distributive mercificate (…) difficilmente reversibili ed ecologicamente distruttive”.
Come si può notare, punto forte del saggio è quindi la documentata e appassionata “pars destruens”: più avanti l’autore argomenta ancora che la felicità non è un evento, non è l’attimo di godimento, né il passare da un’esperienza all’altra. Nelle pagine finali, viene poi ribadito che “due sono le condizioni che ne ostacolano la realizzazione, una strutturale ed una contingente. La prima è costituita da un eccessivo timore della morte; la seconda dalle attuali modalità sociali (…). Mentre alla causa strutturale è possibile trovare rimedio grazie ad adeguate modalità di pensiero e di vita, alla causa contingente è assai più difficile trovare rimedio poiché lo si può fare compiutamente solo riuscendo a mutare le modalità di funzionamento del mondo". Come se non bastasse, Grecchi aggiunge che “l’infelicità è la condizione originaria di ogni uomo sia per motivi esistenziali che ontologici”.
Nonostante la doccia fredda, l’autore sottolinea che “la parola felicità fa riferimento al rapporto di fecondità/allattamento, e dunque al rapporto del bambino con la madre, che è sempre un rapporto di festa”; e che “la stessa radice (…) è presente anche nella parola “beato”; mentre “La lingua greca indicava invece tale concetto col termine eudaimonia, cioè con quella condizione di massimo appagamento derivante dall’aver avuto in sorte un buon demone come guida della vita. I due termini hanno un tratto in comune: in entrambi, infatti, la felicità viene pensata all’interno di un rapporto affettivo di dipendenza: dalla madre per i latini, dal demone per i greci”.
Grecchi ci consegna alla fine una luce di speranza e un inveramento rispetto a quanto affermato in premessa da Mario Vegetti: “La felicità consiste in un superamento dell’angoscia nei riguardi della finitudine dell’esistenza umana e dei limiti imposti dal mondo in cui si vive (…) Essa consta dell’armonico equilibrio e del pieno dispiegamento delle tre componenti dell’anima umana, quella razionale, quella morale e quella simbolica, e cioè in un processo di acquisizione di verità, di valori e di senso”. E, in conclusione, in piena consonanza con Platone e Aristotele che affermavano la stretta connessione tra la felicità dell’individuo e quella collettiva della polis, lo studioso ci consegna un’idea pratica di felicità che comprende e fonde armonicamente filosofia, eros, agape e filìa: “La strada verso la felicità comporta dunque un impegno altruistico e solidale, perché non si può essere felici da soli in un contesto di dolore e di sofferenza”. “Finché non sentiremo ogni uomo come fratello, infatti, non saremo in grado di assaporare realmente la condizione sublime della felicità” (…); “gli uomini si sentono felici (…) solo quando sono accolti ed amati da una o più persone, e sentono al contempo naturale comportarsi nella medesima maniera nei loro confronti”
Maria D’Asaro (“Centonove”, n.19 del 16.5.2014)
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