Parole di terra di Pierre Rabhi (trad. di M. P. Corpaci e P. Lemoussu, Pentàgora, Savona, 2014, €12; per acquisto rivolgersi a: ordini@pentagora.it/019.811800) è un libro particolare, un appello accorato a considerare con uno sguardo diverso la terra, intesa come suolo terrestre e linfa vitale su cui crescono alberi e piante, come fonte e madre/materia di nutrimento per tutti gli esseri viventi. Il mutamento di prospettiva a cui siamo chiamati ci viene sollecitato da un agricoltore, il franco-algerino Pierre Rabhi, esponente della teoria della decrescita e fondatore dell’agroecologia, il movimento che da decenni ha unito la pratica agricola all’etica, e ha proposto e sperimentato soluzioni naturali per rigenerare la terra isterilita dal dissesto ecologico provocato dall’uso massiccio di fertilizzanti industriali e di pesticidi. “Parole di terra – scrive l’autore nella premessa – vuole essere un piccolo contributo alla fondamentale causa della sopravvivenza alimentare degli esseri umani (…) un pretesto per tornare a meditare sulla fertilità della terra e sul patto nuovo e vitale che dobbiamo stabilire con lei”. Nella nota finale del testo, scritta per la prima edizione del 1994 dal violinista statunitense Yehudi Menuhin, ci viene ricordato che “la riconciliazione con la nostra madre terra è persino più urgente della riconciliazione tra gli uomini, poiché la nostra vita dipende dalla nostra terra. Nessuna vita sopravvive su di una terra morta”.
Risulta assai efficace l’espediente narrativo utilizzato dall’autore: il racconto della coraggiosa e paziente redenzione operata sulla terra degli antenati africani da Tyemorò, contadino creato dall’immaginazione dello scrittore/agricoltore, redenzione che poi si estende anche sul tessuto sociale dell’ipotetico villaggio. Sebbene, come sottolinea Pierre Rabhi nella premessa, né l’etnia Batifon né il suo territorio possono essere individuati su una carta geografica africana, le vicende che coinvolgono quest’immaginaria tribù africana hanno una valenza universale. Il racconto si snoda attraverso le considerazioni di Tyemorò, che ci ricorda i punti deboli della civiltà occidentale: il culto del denaro e dell’arricchimento a tutti i costi, il progresso tecnologico assurto a nuova divinità. E così i Bianchi, di cui comunque Tyemorò riconosce pregi e virtù, “Hanno costruito molte creature metalliche che uccidono le persone e le hanno sparse su tutta la terra. Hanno disperso fumi nefasti nel cielo e veleni assassini nelle acque. La terra, che il Creatore ci ha donato per nutrirci come madre, è stata violentata da gente avida” (…) Invece di cercare il loro posto in un mondo così bello e così ricco di colori, profumi, suoni, forme, sapori … gli uomini hanno voluto appropriarsene per asservirlo”.
Pierre Rabhi |
Pierre Rabhi alias Tyemorò trova la radice di questo squilibrio mortale nell’offuscamento dei cuori, nell’incapacità della civiltà occidentale di uno sguardo di compassione verso gli esseri viventi, animali e vegetali: “Gli animali soffrono a causa delle azioni degli esseri umani. Sono rinchiusi a migliaia per darci la loro carne, il loro latte, le loro uova, il pellame dei loro aborti. A volte vengono sezionati vivi … per capire l’ordine dei loro corpi o provare su di loro nuovi rimedi.” E ancora: “Gli uomini hanno a tal punto perduto la visione del sacro, che l’animale non gli appare più come una creatura viva e sensibile. Per loro, non è altro che carne.”Tyemorò/Rabhi ha poi parole ispirate verso gli alberi, nostri fratelli maggiori: “ Innalzandosi verso il cielo, gli alberi lo legano alla terra … come tutte le creature gli alberi inspirano ed espirano … questo movimento incessante assicura la prosperità della terra … Quando spariscono gli alberi, distrutti dagli uomini, dal fuoco o dalla siccità, tutti questi vantaggi se ne vanno con loro. La morte degli alberi è un grido di dolore che la madre terra lancia agli esseri umani”. Il libro ha il pregio, pur nella chiarezza di accenti, di non avere toni iconoclasti: denuncia, con dovizia di prove, i danni della cosiddetta “Rivoluzione verde” che ha condannato alla siccità e alla desertificazione tanti paesi africani, ma riconosce che non bisogna respingere in blocco il sapere occidentale, perché “In ogni azione umana il buono e il falso, il giusto e l’ingiusto si mescolano. Sta a noi distinguere … ciò che è utile e ciò che è dannoso.” Rabhi ci invita allora a stabilire una relazione nuova con la terra e con tutti gli esseri, un rapporto basato sul rispetto, sulla sobrietà, sulla condivisione; ci invita a ritrovare il nostro posto nella creazione, a ricostruire gli anelli spezzati, a riparare i guasti causati da sconsiderate azioni predatorie. E soprattutto a promuovere, con la pazienza del colibrì – Colibris è il nome dell’ultimo movimento da lui fondato - modelli di società fondati sull’umanesimo ecologico e sulla “sobrietà felice”.
Maria D’Asaro (“Centonove” n.40 del 24.10.2014)