“A cosa può servire nel mondo attuale un’indagine sul
problema dello straniero nella Grecia antica?” Non c’è il
rischio di “fare storia fine a se stessa
o informazione erudita, evasione?” Nell’introduzione
a Stranieri,
Figure dell’Altro nella Grecia antica (Di Girolamo editore, Trapani,
2014, € 12), è l’autore stesso, Andrea
Cozzo, a interrogarsi sui possibili rischi che una ricerca specialistica su
tali argomenti può comportare. Cozzo supera brillantemente la prova e ci offre un
saggio serio e rigoroso, sostanziato da una straordinaria ricchezza quanti-qualitativa
di fonti storiche; saggio che ci permette di comprendere come i problemi
che agitano oggi la contemporaneità – l’immigrazione crescente, l’atteggiamento
verso gli stranieri, le cause che ‘producono’ profughi, il rapporto tra
cittadinanza e jus sanguinis - siano
stati vissuti e ‘agiti’ con altrettanto pathos e con la stessa intensità nel
mondo greco antico. Tale retrospettiva storica ci consente uno sguardo più lucido
e acuto verso gli stranieri di oggi e ci suggerisce un approccio razionale ai
problemi, invitandoci a superare pulsioni emotive ed errori grossolani, come
quelli di credere che il problema dell’immigrazione si possa risolvere erigendo
fragili e inutili barriere.
Leggendo
il saggio, che si gusta volentieri anche grazie anche a uno stile espressivo
chiaro e scorrevole, scopriamo intanto
che nel mondo omerico gli stranieri erano ospitati e accolti perché vi era la
consapevolezza che si poteva essere Altri,
stranieri, in alcuni momenti dell’esistenza; scopriamo poi che il razzismo
antico non aveva mai a che fare col colore della pelle e che il pre-giudizio
verso gli stranieri era connesso a precise condizioni storiche: infatti “il giudizio negativo verso coloro che
parlano una lingua diversa da quella greca … si sviluppa dalle guerre persiane
in poi, cioè da quando i Greci inventano (…) la loro autocoscienza”. Prendiamo atto poi di un errore di prospettiva
comune tra noi e gli Ateniesi, presso i quali “l’accoglienza dello straniero convive con la rivendicazione di non
essere mai stati, loro, stranieri da nessuna parte” per cui “l’autoctonia
e/o l’antichità sono garanti della ‘stessità’ nel tempo e nello spazio e, con
essa, dello jus sanguinis”. Leggiamo più avanti però che “Atene rinunciava al mito dell’autoctonia
ogni volta che la concessione della cittadinanza le faceva comodo: (…) per
rimediare alla penuria di uomini dopo una guerra … per far fronte a un nemico
esterno o per rilanciare l’economia della città”. Niente di nuovo sotto il
sole, quindi: l’ideologia della purezza autoctona, allora come ora, era solo la
sovrastruttura di un bisogno sociale: “Il
rifiuto della cittadinanza agli stranieri non dipendeva dalle intrinseche
differenze naturali attribuite loro: (…) il rifiuto aveva a che fare con la
scelta di una difesa dei privilegi dei cittadini e la concessione con il
tornaconto”.
Che
all’origine della cittadinanza non ci fosse una condizione naturale, ma una
scelta, lo avevano chiaro nel passato personalità del calibro di Luciano e
Aristotele: quest’ultimo “mostra l’insensatezza
di una giustificazione del diritto di cittadinanza attraverso il passato, e
colloca la pretesa dello jus sanguinis sul piano … della decisione politica”. Scopriamo
infatti che ad Atene, tra il V e il II secolo, la concessione della
cittadinanza a stranieri veniva concessa come ricompensa per benefici ricevuti
dalla città. Pericle stesso, che in
origine aveva ristretto il diritto di cittadinanza solo a coloro che avevano
entrambi i genitori cittadini, chiese poi che la legge fosse abrogata per far registrare
come cittadino ateniese un suo figlio illegittimo e consentì che, a seguito
dell’elevato numero di morti per la peste, la legge venisse sospesa o almeno applicata
in modo meno rigoroso. A questo proposito, Andrea Cozzo ribadisce che gli
imbrogli per la cittadinanza erano ad Atene un fenomeno diffuso: nel 445 a.C,
in occasione di una distribuzione gratuita di grano, quasi cinquemila individui
si erano spacciati per cittadini ateniesi!
Nell’ultimo
capitolo, Gli altri e Noi, l’autore ci
ricorda una verità semplice, ma a volte dimenticata: “Gli Altri hanno un loro vissuto emotivo che Noi possiamo conoscere
meglio quando … diventiamo Altri a nostra volta”; e ci offre infine una
retrospettiva pregna di squarci di speranza: cita Isocrate e Demostene che, nel
IV secolo a.C., avevano già chiaro il nesso tra povertà, guerre e profughi; e
documenta come, nel IV secolo d.C., molti cristiani - Gregorio di Nissa,
Basilio di Cesarea (che creò un vero e proprio centro di accoglienza) Gregorio
di Nazianzio - si prodigassero ormai in
modo convinto e ‘strutturale’ a favore di stranieri e bisognosi.
Maria
D’Asaro (“Centonove”, n.13 del 2.4.2015)
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