L'autrice di questo blog, Maria D'Asaro, vive in un'isola ed è affascinata dal mare: mari da sognare, mari da scoprire, mari da solcare...
lunedì 31 agosto 2015
sabato 29 agosto 2015
Libero, di nome e di fatto
Il 29 agosto 1991 avevo 33 anni: ero indaffarata con due figli molto piccoli e addolorata per papà che stava male e sarebbe morto un mese dopo.
L’assassinio brutale di Libero Grassi, l'imprenditore siciliano - proprietario a Palermo di una piccola fabbrica di camicie - che si era rifiutato pubblicamente di pagare “il pizzo”, fu un colpo al cuore e rappresentò per me l’ennesima conferma di vivere in una terra brutale, dove la mafia aveva il controllo non solo del territorio, ma anche della vita degli uomini liberi che si opponevano ai suoi comandi.
L’assassinio brutale di Libero Grassi, l'imprenditore siciliano - proprietario a Palermo di una piccola fabbrica di camicie - che si era rifiutato pubblicamente di pagare “il pizzo”, fu un colpo al cuore e rappresentò per me l’ennesima conferma di vivere in una terra brutale, dove la mafia aveva il controllo non solo del territorio, ma anche della vita degli uomini liberi che si opponevano ai suoi comandi.
Condivido l’articolo dell’amico Umberto Santino pubblicato oggi dal quotidiano "La Repubblica", cronaca di Palermo, con il titolo "L'eroe borghese senza borghesia".
(Umberto Santino e sua moglie Anna Puglisi sono gli animatori del "Centro Impastato" di Palermo, testa pensante e cuore pulsante del movimento antimafia. E’ stato anche merito di Umberto e Anna se si è scoperta la verità sui mandanti dell’assassinio di Peppino Impastato).
"Ricordare Libero Grassi a 24 anni dal suo assassinio non significa soltanto replicare un rito che per fortuna e' tra i piu' sobri e antiretorici, ma anche, o soprattutto, rivivere una storia per molti versi emblematica e riflettere su quello che e' accaduto in questi anni.
Non sara' inutile rammentare che, al di la' delle dichiarazioni di solidarieta' di rappresentanti delle istituzioni, Libero Grassi fu isolato dagli altri imprenditori e anche dalla cosiddetta societa' civile. L'unica iniziativa di sostegno si svolse nell'aula consiliare il 4 maggio del 1991. Eravamo soltanto in trenta, e fu facile profezia quella di chi scrive: "Stiamo attenti a non fare di Libero Grassi un eroe aspirante martire". E' stato definito "un eroe borghese senza borghesia" e il comportamento degli altri imprenditori e delle organizzazioni che li rappresentavano fu una vergogna incancellabile. Ma loro rappresentavano la regola, Libero era l'eccezione. Pagare il pizzo era una tradizione familiare, come lo era convivere con la mafia e Libero rompeva quella tradizione, denunciava quella convivenza e l'isolamento era prevedibile e scontato. Lo era meno il comportamento dei rappresentanti dell'associazionismo antimafia del tempo, ma su questo terreno giocavano un ruolo decisivo le appartenenze, i clan e le tifoserie. E Grassi non ne faceva parte. (…)
Libero Grassi e' stato ucciso dalla mafia ma pure da una societa' che non si riconosceva nella sua liberta', come progetto e pratica di liberazione, prima ancora che nel suo coraggio.
In questi anni le cose sono mutate? Certo, e' nato un associazionismo antiracket, ma piu' su una spinta proveniente dal basso, grazie all'azione di Addiopizzo e Liberofuturo, che per iniziativa delle organizzazioni di categoria. Anche queste si sono in qualche modo adeguate al "nuovo corso", ma avvenimenti recenti dimostrano che per certuni l'antimafia piu' che una scelta di campo, radicale e conseguente, e' un'opzione formale e opportunistica. Non penso che un personaggio che passava per paladino dell'antiracket e si e' trasformato in estorsore e neppure che altri campioni delle cronache giudiziarie di questi ultimi mesi, anch'essi figuranti nelle vetrine dell'antimafia, siano classificabili come protagonisti di disavventure personali. Un'antimafia che ha dato loro spazio e assicurato glorie e opportunita' dovrebbe in primo luogo interrogarsi su se stessa, non contentarsi di considerarli delle mele marce. C'e' un problema di consenso, per usare le parole di Libero Grassi, anche all'interno dell'antimafia e della societa' civile, in cui si riproducono dinamiche del contesto sociale nel suo complesso. A cominciare dai leaderismi, dalle primogeniture, dai settarismi, dalle prassi quotidiane, dalla ricerca e acquisizione di fondi pubblici, ottenuti con il pieno rispetto delle pratiche personalistiche e clientelari che caratterizzano la spesa pubblica regionale, e non solo.
Di tutto questo bisognerebbe discutere, se vogliamo riferirci a Libero Grassi com'era da vivo, e non trasformato in una delle tante icone sugli altarini di un'antimafia retorica che ospita nel suo seno opportunisti e cialtroni."
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venerdì 28 agosto 2015
Dagli al comunista …
Mons.Galantino e papa Francesco |
Dare del comunista a chi la pensa diversamente è prassi diffusa di molti politici italiani. Sino a ieri campione di questa pratica era Berlusconi; oggi la palma spetta al leader leghista Matteo Salvini. Che, qualche settimana fa, ha definito mons. Galantino, attuale segretario della C.E.I., “un comunista nascosto sotto la tonaca, che straparla e fa politica a nome della Chiesa”; questo perché mons. Galantino aveva affermato che, sugli immigrati, alcuni politici "come piazzisti da quattro soldi, pur di prendere voti, dicono cose insulse". La concezione della religione cattolica di Salvini è davvero inadeguata perché trascura l’essenza della religione cattolica: l’amore “incarnato” di Cristo, che ha condiviso sino in fondo la sofferenza dell’umanità. Un cristiano autentico, a maggior ragione se vescovo, anche a costo di essere etichettato comunista perchè rompiscatole scomodo, non può disinteressarsi di migliaia di immigrati che soffrono o addirittura muoiono in mare per sfuggire a guerre e persecuzioni.
Maria D’Asaro: “Centonove” n. 15 del 27.8.2015domenica 23 agosto 2015
Quando l'economia uccide, bisogna cambiare
Sono abbastanza vecchia per ricordare alcuni slogan: Lavorare meno per lavorare tutti - La vera politica è decidere come fare la spesa – Quando l’economia uccide bisogna cambiare. Sentire che una signora di 49 anni, Paola Clemente, muore in Puglia forse perché troppo provata dal caldo e dal lavoro massacrante in campagna (si alzava alle due di notte e guadagnava circa 27 euro al giorno) mi fa stare male. Giuro che sarei disposta a spendere molto di più per la frutta, per una bottiglia di sugo, pur di non mangiare le conserve di pomodoro insanguinate dalla fatica mortale degli stagionali sfruttati di cui parla Serra.
Consumatori solidali di tutta l’Italia, uniamoci!
Anche queste considerazioni di Michele Serra (su “La Repubblica” di oggi) avrei voluto scriverle io:
"La morte (per fatica e per caldo) di qualcuno di loro ci porta, occasionalmente, a “scoprire” che in Italia lavorano nei campi, per un salario offensivo, circa quattrocentomila stagionali, in buona parte stranieri, reclutati e taglieggiati dai cosiddetti caporali. Definirla economia sommersa è abbastanza ipocrita, poiché emerge con la prepotenza delle abitudini consolidate e del malaffare incallito.
Facile, in materia, fare del moralismo, più difficile intervenire data l’entità del fenomeno, la disperazione (degli sfruttati) e la tracotante impunità (degli sfruttatori).
Ma vale la pena considerare con quale facilità e frequenza scenari ottocenteschi, di sfruttamento disumano, trovino ampio spazio in un’epoca che ama dedicare quasi ogni sforzo di analisi alla società immateriale, alle nuove tecnologie, all’economia in rete, e si imbambola al computer convinta che il lavoro materiale non sia più necessario, non più strutturale; ma può farlo solamente perché la povera gente ancora crepa nei campi con la schiena piegata, e spesso anche nelle fabbriche. Il lavoro materiale è quello che ci dà da mangiare, da abitare, da viaggiare. Avere smesso di considerarlo centrale è stato un errore politico e un abbaglio culturale. Noi fighetti che passiamo la giornata al computer siamo sfamati, letteralmente, dai braccianti dei quali ci occupiamo solo quando schiattano sotto il sole."
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venerdì 21 agosto 2015
Khaled Asaad e il razzismo cinico di noi europei ...
Queste parole di Michele Serra (su “La Repubblica” di oggi) avrei voluto scriverle io, tali e quali.
"Se il direttore del Louvre o di Pompei o del Prado venisse sgozzato in pubblico e il suo cadavere decapitato appeso a una colonna, con l’accusa di avere difeso il Louvre, Pompei, il Prado e l’arte in essi contenuta, noi saremmo così pieni di orrore e di rabbia che per giorni l’apertura dei telegiornali, e le prime pagine dei giornali, non parlerebbero d’altro. E nei Parlamenti, infocati dall’emergenza, sarebbe quello l’argomento che tiene banco. Non è stato così per la morte atroce del professor Khaled Asaad, direttore del sito siriano di Palmira (uno dei più importanti beni archeologici al mondo), assassinato dall’organizzazione genocida che si fa chiamare Stato Islamico.
È ufficiale: noi europei siamo razzisti. Non sappiamo riconoscere “crimini contro l’umanità” se non rivolti contro noi stessi, non sappiamo riconoscere “umanità” se non in noi stessi, e vera cultura se non a casa nostra. Khaled Asaad è un martire della cultura e un eroe planetario, il suo volto e il suo nome dovrebbero campeggiare in ogni piazza civile del mondo. Anche Sarajevo fu città martire nella quasi indifferenza di governi e Stati maggiori europei. Ed era sotto il nostro naso. Figuriamoci Palmira, che è in fondo al deserto, figuriamoci il professore arabo morto perché difendeva, tra le altre cose, anche le vestigia della civiltà classica. Che sarebbe la nostra, almeno così ci dicevano a scuola."
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mercoledì 19 agosto 2015
Anche papa Francesco è comunista?
Ecco il testo integrale del discorso pronunciato oggi da papa Francesco, nel corso dell’udienza generale del mercoledì nella sala Paolo VI. Diranno anche a lui che è un comunista?
(le sottolineature sono mie)
"Dopo aver riflettuto sul valore della festa nella vita della famiglia, oggi ci soffermiamo sull’elemento complementare, che è quello del lavoro. Entrambi fanno parte del disegno creatore di Dio, la festa e il lavoro.Il lavoro, si dice comunemente, è necessario per mantenere la famiglia, per crescere i figli, per assicurare ai propri cari una vita dignitosa. Di una persona seria, onesta, la cosa più bella che si possa dire è: “E’ un lavoratore”, è proprio uno che lavora, è uno che nella comunità non vive alle spalle degli altri. Ci sono tanti argentini oggi, ho visto, e dirò come diciamo noi: «No vive de arriba». E in effetti il lavoro, nelle sue mille forme, a partire da quello casalingo, ha cura anche del bene comune. E dove si impara questo stile di vita laborioso? Prima di tutto si impara in famiglia. La famiglia educa al lavoro con l’esempio dei genitori: il papà e la mamma che lavorano per il bene della famiglia e della società.
Nel Vangelo, la Santa Famiglia di Nazaret appare come una famiglia di lavoratori, e Gesù stesso viene chiamato «figlio del falegname» (Mt 13,55) o addirittura «il falegname» (Mc 6,3). E san Paolo non mancherà di ammonire i cristiani: «Chi non vuole lavorare, neppure mangi» (2 Ts 3,10). - È una bella ricetta per dimagrire questa, non lavori, non mangi! - L’Apostolo si riferisce esplicitamente al falso spiritualismo di alcuni che, di fatto, vivono alle spalle dei loro fratelli e sorelle «senza far nulla» (2 Ts 3,11). L’impegno del lavoro e la vita dello spirito, nella concezione cristiana, non sono affatto in contrasto tra loro. E’ importante capire bene questo! Preghiera e lavoro possono e devono stare insieme in armonia, come insegna san Benedetto. La mancanza di lavoro danneggia anche lo spirito, come la mancanza di preghiera danneggia anche l’attività pratica.
Lavorare – ripeto, in mille forme – è proprio della persona umana. Esprime la sua dignità di essere creata a immagine di Dio. Perciò si dice che il lavoro è sacro. E perciò la gestione dell’occupazione è una grande responsabilità umana e sociale, che non può essere lasciata nelle mani di pochi o scaricata su un “mercato” divinizzato. Causare una perdita di posti di lavoro significa causare un grave danno sociale. Io mi rattristo quando vedo che c’è gente senza lavoro, che non trova lavoro e non ha la dignità di portare il pane a casa. E mi rallegro tanto quando vedo che i governanti fanno tanti sforzi per trovare posti di lavoro e per cercare che tutti abbiano un lavoro. Il lavoro è sacro, il lavoro dà dignità a una famiglia. Dobbiamo pregare perché non manchi il lavoro in una famiglia.Dunque, anche il lavoro, come la festa, fa parte del disegno di Dio Creatore. Nel libro della Genesi, il tema della terra come casa-giardino, affidata alla cura e al lavoro dell’uomo (2,8.15), è anticipato con un passaggio molto toccante: «Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare» (2,4b-6a). Non è romanticismo, è rivelazione di Dio; e noi abbiamo la responsabilità di comprenderla e assimilarla fino in fondo.
L'Angelus - J.F.Millet |
L’Enciclica Laudato si’, che propone un’ecologia integrale, contiene anche questo messaggio: la bellezza della terra e la dignità del lavoro sono fatte per essere congiunte. Vanno insieme tutte e due: la terra diviene bella quando è lavorata dall’uomo. Quando il lavoro si distacca dall’alleanza di Dio con l’uomo e la donna, quando si separa dalle loro qualità spirituali, quando è in ostaggio della logica del solo profitto e disprezza gli affetti della vita, l’avvilimento dell’anima contamina tutto: anche l’aria, l’acqua, l’erba, il cibo... La vita civile si corrompe e l’habitat si guasta. E le conseguenze colpiscono soprattutto i più poveri e le famiglie più povere. La moderna organizzazione del lavoro mostra talvolta una pericolosa tendenza a considerare la famiglia un ingombro, un peso, una passività, per la produttività del lavoro. Ma domandiamoci: quale produttività? E per chi? La cosiddetta “città intelligente” è indubbiamente ricca di servizi e di organizzazione; però, ad esempio, è spesso ostile ai bambini e agli anziani.
A volte chi progetta è interessato alla gestione di forza-lavoro individuale, da assemblare e utilizzare o scartare secondo la convenienza economica. La famiglia è un grande banco di prova. Quando l’organizzazione del lavoro la tiene in ostaggio, o addirittura ne ostacola il cammino, allora siamo sicuri che la società umana ha incominciato a lavorare contro se stessa!
Le famiglie cristiane ricevono da questa congiuntura una grande sfida e una grande missione. Esse portano in campo i fondamentali della creazione di Dio: l’identità e il legame dell’uomo e della donna, la generazione dei figli, il lavoro che rende domestica la terra e abitabile il mondo. La perdita di questi fondamentali è una faccenda molto seria, e nella casa comune ci sono già fin troppe crepe! Il compito non è facile. A volte può sembrare alle associazioni delle famiglie di essere come Davide di fronte a Golia… ma sappiamo come è andata a finire quella sfida! Ci vogliono fede e scaltrezza. Dio ci conceda di accogliere con gioia e speranza la sua chiamata, in questo momento difficile della nostra storia, la chiamata al lavoro per dare dignità a se stessi e alla propria famiglia".
lunedì 17 agosto 2015
C'era una volta il glorioso TG3 ...
C’era una volta il glorioso TG3, diretto da Sandro Curzi, che – alla fine degli anni ’80 - sfidava sul terreno della qualità e persino degli ascolti il TG1 e il TG2, i TG di regime legati alla DC e al Partito Socialista.
Il TG che mandava in onda i coraggiosi servizi di denunzia di Fulvio Grimaldi con il bassotto (poi copiato dalla Petix di Striscia la notizia).
Il TG che, con la voce roca del corrispondente da New York Lucio Manisco, osava affermare, neanche troppo tra le righe, che la Guerra del Golfo era una porcata.
II TG che con Ilaria Alpi faceva un giornalismo d’inchiesta così serio e incisivo che la giornalista, nel marzo 1994, veniva uccisa a Mogadiscio con il cineoperatore Miran Hrovatin, quasi sicuramente per le sue indagini su un traffico d’armi.
Il TG che, fino a qualche anno fa, annoverava tra i suoi inviati l’eccezionale Lucia Goracci.
Ora è una pena ascoltare il TG3, che naviga a vista senza una precisa linea editoriale.
Un giorno smaccatamente renziano e l’indomani pure, ma con sviolinate anche ai centristi. Un TG3 appiattito sulla cronaca, urlata e senza costrutto; un TG3 - vedi l’edizione di sabato 8 agosto 2015 delle ore 14,20 – che inanella sviste e svarioni: afferma che è gravissima una donna ferita a Cefalù da un cinghiale, mentre il TG regionale della Sicilia aveva dichiarato, per voce del primario ospedaliero, che la donna aveva ferite superficiali e sarebbe stata dimessa in giornata; e poi, su un assai poco felice servizio sulle scuole a norma - infelice perché inattuale vista la data "vacanziera" e per la superficialità complessiva dei dati - il giornalista confondeva il collaudo statico con un assai poco probabile collaudo statistico …
Che delusione, direttrice Berlinguer … Chissà se ce la farà il TG3 a riprendere la rotta del buon giornalismo, solcando i mari dell’indipendenza e della qualità della notizia
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sabato 15 agosto 2015
Il Ferragosto di Fatima
Tra i migranti possono celarsi anche criminali e terroristi fondamentalisti; ma la stragrande maggioranza sono persone - donne, bambini, uomini - che soffrono la fame o situazioni di ingiustizia, di persecuzioni, di guerra e che fuggono cercando una vita decente. Come questa donna, che chiamerò Fatima, che: "Aveva pochi soldi e il cellulare con sè. Niente valigie, niente vestiti. Solo alcune fotografie della sua famiglia che sorrideva felice. C'era poco spazio sul barcone, non poteva portare altro. (…) Aveva scritto un sms sul cellulare che non era stato inviato. Non aveva credito per poterlo fare: - Amore mio, fra poco arriveremo in Italia. Il viaggio è stato difficile ma ce l'ho quasi fatta. Cerca di resistere e prenditi cura dei nostri figli. Presto saremo di nuovo tutti insieme, ci aspetta una nuova vita, la Vita. Ti chiamerò appena sarò arrivata. Mi mancate da morire! Ti amo! -
Fatima è morta in mare, qualche giorno prima di Ferragosto.
Fatima è morta in mare, qualche giorno prima di Ferragosto.
Non credo che questa storia sia una bufala o sia stata costruita per impietosirci.
Godiamoci il sole, le ferie, il mare, la montagna, gli amici e la bella allegria del giorno di Ferragosto. Ma ricordiamo anche le migliaia di Fatime che cercano solo una vita degna di questo nome.
Restiamo umani.
(Ringrazio il blog di Slec da cui ho preso foto e notizia)
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giovedì 13 agosto 2015
Del domani non v'è certezza ...
“La vita è insicura, è radicata nell’insicurezza. Un giorno dovrai morire: come potrai mai essere sicuro? (…) L’idea di sicurezza porta la morte nella vita. Per paura di prendere l’influenza, non cammini sotto la pioggia. Per paura di farti male, non giochi e non fai sport. Per paura di cadere, non ti arrampichi su un albero. Per paura di morire, non scali una montagna. (…) La vita è insicura. Questo fatto, quando viene compreso in profondità, porta con sé una sorta di sicurezza; a quel punto non hai più paura! (…)
Sai benissimo di esserti innamorato di questa donna, ma questa donna si può innamorare di nuovo (…) E poiché si può innamorare, amala intensamente … il più intensamente possibile. (…) Questa è la comprensione di un sannyasin, di colui che cerca il vero: il domani non è garantito, solo questo momento è nelle mie mani: devo viverlo intensamente. Non sto dicendo che quella donna ti lascerà o deve lasciarti. In realtà, se l’ami totalmente in quest’istante, come potrà lasciarti? Il domani nascerà dall’oggi, questo momento genererà il successivo: se questo è stato un’estasi squisita, come potrà lasciarti? Dall’insicurezza nasce la sicurezza: quella donna non potrà lasciarti … non a causa della legge … ma semplicemente perché tu l’hai amata tanto. (…) A causa dell’insicurezza, tu l’hai amata totalmente: e dall’amore totale la vita è diventata sicura.”
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lunedì 10 agosto 2015
Prodi ci dice qualcosa di sinistra ...
Con un efficace “botta e risposta”, nel libro/intervista a cura di Marco Damilano Missione incompiuta (Laterza, Roma-Bari, 2015, € 12) Romano Prodi ci propone la sua analisi del nostro Paese dagli anni ‘80 ai nostri giorni. Scopriamo così un uomo politico lontano dal soporifero Mortadella presente nell’immaginario di tanti: “empirico brutale” (come lui stesso si definisce), riformista e keynesiano convinto, che ci sorprende dicendoci finalmente qualcosa di sinistra: “Lo Stato sociale era la grande invenzione del Novecento”; “l’insostenibilità del welfare è un fatto puramente ideologico, conti alla mano è più costoso il non-welfare: l’Italia con il 7-8 % del bilancio di spese sanitarie garantisce ai suoi cittadini cure migliori degli stati Uniti che spendono il 17-18%”; “Prima la differenza di salario tra un dipendente medio di un’azienda e il direttore generale era 1 a 30. Ora è di 1 a 500 e nessuno dice niente.”
Il libro è una radiografia davvero avvincente su quanto è accaduto, nell’ultimo quarto di secolo, in Italia e nel mondo: non mancano neppure le note dolenti sul mancato sostegno alla “primavera araba”. Prodi ci offre, intanto, squarci illuminanti sul controverso passaggio tra la prima e la seconda Repubblica: afferma che i metodi di Antonio Di Pietro, “pur inserendosi in una doverosa e attesa campagna di pulizia, segnarono anche l’inizio di un populismo senza freni (…); sulle inchieste si è innestata, in conseguenza di interessi particolari e di esigenze mediatiche, un’operazione di delegittimazione di tutto il sistema.” E poi: “la cesura del 1992-93 c’è stata sul piano politico, ma non nei comportamenti degli italiani. In questa frattura si è inserito Berlusconi come un mago”; perché purtroppo: “ci sono momenti storici in cui l’Italia ha bisogno di un’auto-illusione: è disposta a non guardare per nulla dentro se stessa pur di continuare a illudersi”.
Amara la chiave di lettura dell’ex premier dell’Ulivo sulle ragioni del suo fallimento: “L’Ulivo voleva essere un progetto di lungo periodo in cui si rimettevano nel loro giusto equilibrio i rapporti tra poteri economici e poteri politici. (…) Univa i pregi di una storia passata con il disegno di un paese futuro, con un progetto composto di riformismo, minore disuguaglianza, ricerca e innovazione”. Ma “la sua debolezza fu quella di non rafforzare l’aspetto organizzativo-partitico, per cui alla fine i vecchi partiti e le vecchie correnti ne hanno indebolito le radici." L’ex premier indica poi con chiarezza i punti deboli del sistema Italia: “Manca il sistema Paese. Continuare a pensare che meno Stato equivale a più sviluppo è una follia contraddetta dalla realtà.” E se “la grande contraddizione delle nostre democrazie è nel dilemma fra la necessità di verità e le esigenze elettorali che si nutrono di demagogia”, da noi, in più: “non solo il debito pubblico, ma soprattutto la criminalità, l’illegalità e la pressione fiscale fanno dell’Italia un paese fragile e non affidabile”. Però “Non si può pensare che vi sia una Grande Riforma che risolva tutto. (…) Se si impostano le riforme come le grandi battaglie teologiche non si risolveranno mai i problemi.” E ancora: “Non c’è un sistema migliore del bipolarismo che garantisca (…) la stabilità della legislatura e la possibile alternanza di diversi schieramenti al governo (…). Il bipolarismo è il nemico di due mali tipicamente italiani: il trasformismo e il voltagabbanismo.”
Amara la chiave di lettura dell’ex premier dell’Ulivo sulle ragioni del suo fallimento: “L’Ulivo voleva essere un progetto di lungo periodo in cui si rimettevano nel loro giusto equilibrio i rapporti tra poteri economici e poteri politici. (…) Univa i pregi di una storia passata con il disegno di un paese futuro, con un progetto composto di riformismo, minore disuguaglianza, ricerca e innovazione”. Ma “la sua debolezza fu quella di non rafforzare l’aspetto organizzativo-partitico, per cui alla fine i vecchi partiti e le vecchie correnti ne hanno indebolito le radici." L’ex premier indica poi con chiarezza i punti deboli del sistema Italia: “Manca il sistema Paese. Continuare a pensare che meno Stato equivale a più sviluppo è una follia contraddetta dalla realtà.” E se “la grande contraddizione delle nostre democrazie è nel dilemma fra la necessità di verità e le esigenze elettorali che si nutrono di demagogia”, da noi, in più: “non solo il debito pubblico, ma soprattutto la criminalità, l’illegalità e la pressione fiscale fanno dell’Italia un paese fragile e non affidabile”. Però “Non si può pensare che vi sia una Grande Riforma che risolva tutto. (…) Se si impostano le riforme come le grandi battaglie teologiche non si risolveranno mai i problemi.” E ancora: “Non c’è un sistema migliore del bipolarismo che garantisca (…) la stabilità della legislatura e la possibile alternanza di diversi schieramenti al governo (…). Il bipolarismo è il nemico di due mali tipicamente italiani: il trasformismo e il voltagabbanismo.”
Il saggio si presta anche a una godibile lettura “estiva” perché, oltre alle riflessioni dense e intriganti, ci racconta gli incontri di Prodi con alcuni uomini politici, di cui emerge “il lato B”, quello dell’umanità a tutto tondo. Ecco allora Andreotti “che faceva benissimo 10 cose per volte”; Moro “che incuteva soggezione e rispetto e parlava sottovoce pesando le parole”; l’avvocato Agnelli “uomo curiosissimo, che non stava più di due minuti sullo stesso argomento”; Bossi, che gli offrì di entrare in politica con la Lega; Helmut Kohl, con cui bastò una telefonata per fissare il rapporto tra marco e lira per entrare nell’euro; Deng Xiaoping, tifoso di Maradona; Bill Clinton “una spanna sopra tutti: per capacità, conoscenza, intelligenza politica e intuito”.
Attuale e toccante, infine, la dichiarazione d’amore per l’Europa unita, simboleggiata dal mazzo di fiori per la moglie Flavia acquistato la notte del Capodanno 2002 a Vienna con le prime banconote dell’euro. Ma “L’Unione europea è una realtà ancora incompleta. O la si perfeziona con un unità vera o si finisce male (…) Il male dell’Europa non è soltanto economico. E’ una perdita di anima, di progetto, di quel senso dello stare insieme che permette di far correre i forti assieme ai deboli.” Prodi ci esorta, allora, a ”lottare contro l’accorciamento degli orizzonti” e a progettare il domani, italiano ed europeo, con generosa e intelligente sagacia.
Maria D’Asaro, “Centonove” n. 14 del 6.8.2015, pag. 30
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venerdì 7 agosto 2015
Palermo felicissima
Palermo, Palazzo Reale: Cappella Palatina |
Per decisione dell’Unesco, dal 3 luglio sono diventati patrimonio mondiale dell’umanità sette monumenti della Palermo arabo-normanna - la Cattedrale, il Palazzo Reale con la cappella Palatina, le chiese di San Giovanni degli Eremiti, di Santa Maria dell'Ammiraglio (nota come “la Martorana”) e quella di San Cataldo, il palazzo della Zisa, il ponte dell'Ammiraglio - insieme alle splendide cattedrali di Monreale e Cefalù. I siti Unesco in Italia diventano così 51; con questa settima attribuzione, la Sicilia ottiene il primato di regione con il più alto numero di siti elevati al massimo riconoscimento dell’Unesco. Alcuni hanno sottolineato perplessi che a Palermo rimangono comunque la “munnizza” e la mafia. Non hanno torto: ma tra la realtà negative e la sfida al primato della bellezza e della cultura, a noi siciliani decidere - utilizzando termini cari alla psicologia della Gestalt - cosa confinare sullo sfondo e cosa far diventare figura emergente e vincente.
Maria D’Asaro, “Centonove” n. 14 del 6.8.2015
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Palermo in 150 parole
lunedì 3 agosto 2015
Con il corpo sono qui ...
“Il momento presente è un istante di non-mente. Ogni volta che sei nel presente, non funzioni in quanto mente. Il tuo corpo è nel presente, la tua mente non lo è mai. (…) Ecco perché il corpo è così bello e la mente così orribile. Nel corso dei secoli ti è stato insegnato a sostenere la mente contro il corpo. Quella è stata la più grande calamità patita finora dall’umanità. Se vogliamo che nasca una nuova umanità, dobbiamo raddrizzare le cose: ci si deve mettere dalla parte del corpo e non della mente. Usa la mente, ma non identificarti mai con lei. La mente è un ottimo schiavo, ma un padrone pessimo. Il corpo è più saggio. Quando hai fame, hai fame qui ed ora: non puoi essere affamato nel futuro e non puoi essere affamato nel passato (…) Viceversa la tua mente corre in tutte le direzioni … Ecco perché corpo e mente non si incontrano mai. Ecco perché sei dissociato, ecco perché la schizofrenia è penetrata nell’essere stesso dell’uomo. Esci dalla mente ed entra nel corpo. Più sei nel tuo corpo, più sarai naturale. Più sei nel corpo, più vicino sarai a Dio.
(…) Devi cambiare la tua enfasi. Per esempio, leggi un libro. Naturalmente leggi le parole stampate sulla carta, non vedi la carta. La carta resta sullo sfondo. Le parole scritte con l’inchiostro nero, sono quelle la sostanza, mentre la carta bianca rimane lo sfondo, sebbene esista! Senza, quelle parole non potrebbero esistere: esistono grazie a quello sfondo, in contrasto. (…) Cambia il fuoco della tua attenzione: passa dalle figure allo sfondo. I pensieri sono le figure, la consapevolezza è lo sfondo. La mente è formata di figure e la non-mente è lo sfondo. Inizia semplicemente ad osservare gli spazi vuoti, gli intervalli. Innamorati degli intervalli! Scendi in essi profondamente (…) nascondono segreti importantissimi. In essi è nascosto il mistero. Il mistero non si trova nelle parole che scorrono nella mente; quelle parole sono banalità, impressioni esteriori. Osserva invece lo sfondo su cui scorrono, su cui si agitano come increspature: scruta in quella consapevolezza; è infinita. E’ il tuo essere. (…)
(da: Osho L’arte di ricrearsi, Arnoldo Mondadori, Milano, 2013, €9)
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Quaderno blu
domenica 2 agosto 2015
Regala
Regala
Solo foglie
Oggi, la pomelia.
Fiorirà la prossima estate?
Aspettiamo …
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Mari di poesia,
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