Le statistiche parlano chiaro: da natale a capodanno la convivenza continua stretta implacabile tra familiari fa scoppiare liti, e talora persino tragedie, che nel corso dell’anno risultano meno frequenti e meno dirompenti. A conferma della tesi puntualmente ribadita da mia nonna Giovanna ogni fine d’anno: “Le feste non dovrebbero arrivare mai”.
Perché questo disastro annunziato? Evidentemente cova, fra la retorica cattolico-borghese della sacralità della famiglia e l’effettività delle relazioni umane, una contraddizione permanente che piccole mutazioni della routine abituale bastano a far esplodere.
Le vie di scampo possibili sono dunque due: o si cancellano dal calendario ricorrenze così micidiali per la salute psico-fisica o si prova a rivedere il modo di concepirle e di viverle. Le ragioni per cui non mi convincerebbe la prima soluzione sono state diffuse via internet da un gruppo di associazioni cristiane italiane: “la festività del natale è sorta come ricorrenza religiosa; poi, nel tempo, senza perdere per i credenti il significato originario, è divenuta la festa degli affetti e delle relazioni sicché è ormai una festa di tutti e tutte, credenti e non credenti. Ricorda la comparsa nel mondo di una grandissima buona notizia: l’eguaglianza di tutti gli esseri umani. Questa idea dell’eguaglianza, che per i credenti deriva dall’essere tutti e tutte figli e figlie di Dio e che comunque si radica nella stessa natura umana, è stata assunta nei secoli e fatta propria da correnti di pensiero e da movimenti politici; su di essa sono andati fondandosi i diritti a tutela di ogni persona via via conquistati con la lotta di tanti popoli”. Dunque: non c’è bisogno di abolire il natale, se mai gli si può affiancare col tempo qualche altra ricorrenza altrettanto significativa (come la conclusione del ramadan).
Ma è proprio dalle righe di questa lettera aperta, indirizzata alle immigrate e agli immigrati che vivono e lavorano nel nostro paese, che può trarre spunti di revisione critica chi propende per la seconda soluzione. Essa ci dice infatti che il fascino autentico del natale consiste nella sua dimensione universale, al di là delle barriere etniche, linguistiche e religiose: se questo messaggio di apertura planetaria viene tradito, se si fa dell’inerme bambino medio-orientale di Betlemme una bandiera identitaria contro gli stranieri (tentazione prevalente nel Settentrione) o un pretesto per la chiusura familistica nel privato (tentazione prevalente nel Meridione), il natale non è più natale. Si capovolge nel contrario della sua essenza.
I primi cristiani hanno quasi da zero inventato un nome per indicare l’amore annunziato da Gesù di Nazareth, tanto diverso dalla solidarietà nazionalistica fra Ebrei e dall’amicizia elitaria e paritaria dei Greci: agape . Con questo vocabolo intesero una attenzione gratuita e benevolente nei confronti di chi è talmente misero da non essere neppure in grado di accogliere la cura e di renderne grazie: nei confronti dei “poveri di spirito” (che nel suo ultimo libro Erri De Luca propone di tradurre, più letteralmente, “l’abbattuto di vento”). Intesero una preoccupazione estremamente concreta verso il benessere altrui (a cominciare da quanti sono calpestati dalle ingiustizie sociali e umiliati dalle avversità naturali): qualcosa di ben diverso, dunque, da quella logica del dare in vista di una ricompensa (sociale o ultraterrena) a cui si è ridotta la pelosa e selettiva ‘carità‘ dei giorni festivi.
Di questa auto-donazione feriale, che nelle sue modalità più alte può diventare servizio professionale e impegno politico, nessuna chiesa e nessuna civiltà possiede il monopolio: come si legge nel vangelo, essa risplende - laicamente - non fra chi dice “Signore, Signore!”, ma nella storia effettiva delle donne e degli uomini che ritengono insopportabile un mondo in cui le minoranze privilegiate godono, senza rimorsi, i frutti di rapine antiche e di meccanismi di sfruttamento attuali.
Se a livello personale, familiare e civico riuscissimo a invertire la tendenza dominante, il natale potrebbe diventare la festa del risarcimento dei deboli (un segnale promettente in questa direzione il moltiplicarsi, come dono reciproco, di adozioni a distanza e di altri contributi economici a favore di cause socialmente rilevanti). E indurre anche nonna Giovanna a mutare opinione.
Augusto Cavadi, La Repubblica-Palermo, 2.1.2010