sabato 30 aprile 2011

Nel museo di Reims

Nel museo di Reims di Daniele del Giudice, Einaudi, 2010, Torino


Solo 54 pagine.
 Intense. Preziose. Che narrano la storia di un incontro.
Che avviene al museo di Reims: tra Barnaba, un giovane uomo che sta perdendo la vista, e Anne, una donna di cui Barnaba riesce a malapena a intravedere gli occhi e il viso. Ma ne sente la voce, tenera e pacata, e ne avverte l’odore, profumato e sconosciuto.
Li unisce l’amore per la pittura: l’interesse speciale per il quadro La morte di Marat.
Ma li unisce anche la mancanza di qualcosa: per Barnaba la mancanza incipiente della luce, per Anne un’assenza diversa: “Un dolore così invisibile dietro le forme accese e leggere della sua voce” (p.52). Poiché Barnaba non riesce non vede che forme sfocate, Anne comincia a descrivergli i quadri del museo.
Barnaba intuisce che talvolta lei descrive qualcosa che nel quadro non c’è, qualcosa che va oltre il quadro. Perché forse, una volta, lei aveva inserito in un quadro un bambino con l’aquilone, che nel quadro forse non c’era… Ma “Gli sembrava che nel dolore di Anna, al di là delle bugie e anzi proprio per quelle ci fosse un punto di verità, ed era di quel punto di verità, adesso, che più di tutto aveva nostalgia (….) Lo incuriosiva la storia, i fili infiniti che dalla storia si dipartono lasciando immaginare il prima e il dopo, tutto quello che nel quadro non c’è” (pag.35).

E allora la lettrice è rapita dalla strana, impalpabile relazione tra un uomo e una donna, diversamente vedenti. Perché: “Ci sono persone che stanno tutte sul bordo dei loro occhi (p.23).” Perché: “Il dolore non è poi così importante, ma se non lo si trascura può aprire qualche porta (p.53)” Perché, alla fine: “La voce di Anne aveva un colore caldo e brillante, lucido di tenerezza (p.54)”.

(Last but not least: il libro mi è stato regalato per il mio compleanno dall’amico/collega dalle tante consonanti. Mi è prezioso anche per questo.)

venerdì 29 aprile 2011

Se i padri 'giocano' troppo...

        Alcuni anni fa, il mio era un sereno quartiere di periferia: c’era la scuola, la posta, il salumiere, persino una cartoleria. Ora, oltre alle rughe spuntate sul volto degli abitanti invecchiati, c’è qualcosa di nuovo: un enorme Punto scommesse, all’angolo della strada. Che ha causato un vero cambiamento: automobili posteggiate a casaccio, stratosferico aumento di immondizia e cartacce. 
     E, soprattutto, la presenza, a tutte le ore del giorno, di un bivacco di uomini. Alcuni tristi o annoiati, altri arroganti e prepotenti, qualcuno disperato. Insieme a loro, anche tanti ragazzi che giocano la bolletta e sorridono, sperando nella fortuna. Ignari del fatto che la fortuna arride soprattutto ai padroni dei Punti scommesse …
     Ma la cosa più triste sono i bambini: che respirano un’aria malsana, col padre che guarda per ore partite di cui a loro non importa un bel niente. Mentre, fuori, un pallone e l’aria buona li aspettano. Invano.

Maria D’Asaro, “Centonove”, 29-4-2011

giovedì 28 aprile 2011

Diario di un alpino in Russia: Mai tardi

Voglio dirvi qualcosa dei libri che leggo. Magari un commento breve, senza pretese. Solo per il “prio” di comunicare il sapore che le pagine lette mi hanno lasciato in bocca.

Comincio con: Mai tardi, Diario di un alpino in Russia (Einaudi, 2001, Torino) di Nuto Revelli

E’ un libro avuto in prestito. Che ho letto anche per poterlo confrontare con “Il sergente della neve” di Mario Rigoni Stern. Si tratta della pubblicazione del diario di un ufficiale italiano, Nuto Revelli per l’appunto, inizialmente militarista e fascista convinto, che cambia idea sulla guerra e sull’adesione al fascismo proprio durante la terribile disfatta dell’esercito italiano in Russia, nell’inverno 1943.
A mio sommesso avviso, il libro non regge il confronto con il testo di Rigoni Stern, un capolavoro, al confronto. Ma ha, senz’altro, un altissimo valore di documento storico.
Ecco alcuni brani:

“Si direbbe un battaglione di orfani, abbandonati a se stessi, allo sbaraglio. Il comandante (…) è un povero vecchietto sciupato e rassegnato, sperduto in questo mondo che non è il suo. Seduto su una cassetta di munizioni, curvo, le braccia penzoloni, è il ritratto dell’uomo vinto. Ogni tanto gli dicono che un suo fante è morto, che un suo fante è ferito: allora si commuove, ma né la disperazione né la rabbia lo scuotono. (p.36)

“Mi svegliano alle 4. E’ appena chiaro. Esco per riconoscere il terreno della sparatoria, per recuperare la mia mantella. Vedo qualcosa di steso: di corsa raggiungo il morto. L’impressione è macabra. E’ supino, guarda il cielo. Lungo un fianco, il fucile. Sul ventre, a sinistra, un buco di dieci centimetri di diametro, e fuori un grosso fagotto, l’intestino e un sacchetto di cartilagine bianca: la bocca spalancata, i denti in fuori, gli occhi semiaperti. Le braccia lungo il corpo, le mani con le dita contratte. E’ un biondino sui diciott’anni. Una bomba a mano l’ha colpito in pieno”. (p.46)

“Dio che orrore! E’ il macello del 16 gennaio, Noi eravamo ancora in linea; qui, i carri armati russi schiacciavano una colonna in marcia. Ungheresi, tedeschi, italiani, una poltiglia di carne ossa, vestiti. Non basta farsi forza; gli occhi restano larghi, sbarrati, raccolgono, si riempiono” (136)

“I tedeschi predominano, la fanno da padroni; le loro urla sono sigle disumane, dure, metalliche… sentii di non poter più combattere con i tedeschi, ma di poter combattere contro i tedeschi. Era un sentimento intimo, di cui quasi mi vergognavo (…)” 138

“La neve si fa sabbiosa, pesante. E’ la neve peggiore, quella che stanca di più. Procedo a denti stretti, sbando dalla stanchezza (…) Vado avanti per forza d’inerzia, a gambe larghe per non cadere; i piedi avvolti nei malloppi di coperte sono incollati alla neve ed il busto pende in avanti. Rivivo episodi dell’infanzia, lontanissimi, dimenticati, rivedo i miei, la mia Annetta. (…) Sto congelando. Rivedo le gambe dei congelati, dei miei alpini feriti che viaggiano in slitta: da principio hanno il colore rosa, il colore delle bambole di cellulosa, poi diventano sempre più scure fino alla cancrena. Devo camminare. Con sforzo sovrumano, devo camminare se non voglio perdere le gambe. “(p.159)

Ecco, a mio parere, il difetto letterario del testo: troppo esplicito, troppo manifesto, troppo urlato, troppo retorico. Nella scrittura, dice il mio maestro Raimond Carver, si procede per sottrazione. Per ellissi, Per allusioni. Non si deve dire tutto. Come invece fa, quasi sempre, il buon Benvenuto Revelli. Ad esempio nell’ultimo stralcio, ripreso dalle pagine finali del testo:

“Ormai abbiamo dato tutto di noi stessi, i migliori sono morti combattendo, molti li abbiamo abbandonati nel freddo a 40°, per salvare il salvabile. Teoria bestiale, quella di salvare il salvabile (…) Poi, tenteremo di dimenticare per sempre tutto, tutto, tutto, fuorché una cosa: di odiare i tedeschi. Basta con la Russia: poveri alpini, quanti morti! Quel tragico mattino del 26 gennaio eravate macchie ferme sulla neve gelata dai 40 sotto zero, e non andavate più avanti perché eravate fermi per sempre, morti, punti fermi disposti a scacchiera come in formazione spiegata, una formazione di attacco statica, che all’attacco non poteva più andare. Vi abbandonammo insepolti. E gli slittoni dei porci tedeschi e le colonne in fuga vi martoriarono. (…) Poveri morti alpini!” (p.191/192)

lunedì 25 aprile 2011

Annunciazioni

       Quando ebbe la sua prima Annunciazione, era ancora bambina: l’Angelo del Cammino le impose di abbandonare il quieto borgo montano per la grande città: con urli di sirene, mille volti sconosciuti e nessun confine sicuro.
     L’Angelo della Strada apparve di nuovo quando lei aveva vent’anni: - Lascia tutto, Maria: gli amici, la coltre dei libri, la tua veste intrecciata di studi e di sogni. – E lei, giovane donna dagli occhi spalancati, si trovò in un grande Edificio, con donne dalle labbra e dalle unghia curate. E con tanti uomini rozzi, che snocciolavano le antiche storielle di una oscena litania e piangevano sul latte versato della mancata promozione.
     Poi la visitò un Angelo che amava fischiare e spiegava le ali sulle arie della Regina della Notte. Le insegnò melodie suggestive. E un nuovo respiro.
Comparve ben presto un altro Messaggero, che le impose di scegliere tra la partita doppia e un mare di bambini sperduti. Da cercare col lanternino, anche molto lontano da casa.

    Fu poi la volta dell’Angelo della Vita, con il dono di una bimba biondissima e di un maschietto speciale. Ma il suo ventre non si era saziato di germogliare. Così ebbe l’ardire di bussare lei stessa, perché quelle Ali la coprissero ancora. E il suo ombelico a stella diede alla luce il bimbo più buono del mondo.
    Però, nel frattempo, l’Angelo della Morte era venuto a chiamare il suo adorato papà. E poi la sua mamma. Ma quando tornò a visitarla per portare con sé anche la sua sorellina, lei cercò di respingerlo. Lui la prese comunque, con impietosa violenza.
    Per tornare di nuovo, all’improvviso. E strapparle anche l’uomo dagli occhi buoni, che spargeva fragranze odorose: di muschio, di legno fiorito, di bosco bagnato.

E poi, un giorno d’estate, un Nunzio crudele le annunciò che persino il nido prezioso non era che vana chimera. Impossibile sfuggire a quell’Angelo dallo sguardo crudele: la guardava con ghigno beffardo e la stringeva con forza.
      Rimasta ormai sola, con gli occhi bagnati, pulì il suo vestito. Ricucì, con un rammendo alla buona, i brandelli dispersi del suo cuore ferito.
    Una notte, inattesa, la visita di un Angelo strano, senza un volto preciso. E le ali nascoste. Con una carezza di voce. E un caldo sorriso.
     Allora, fu lei ad aprire la porta.

SFERRUZZA



Sferruzza,
Piccola donna:
Dipana un gomitolo.
Intreccia fili d’amore.
Infiniti.


sabato 23 aprile 2011

DEVI

Devi
Una volta
Morire del tutto
Per rinascere vivo davvero
Domani

(Insieme, una canzone e un video di Loreena McKennitt. Buona Pasqua, Buona Rinascita a tutte/i)


venerdì 22 aprile 2011

FORZA, TERRA!


Dal 1970, 192 nazioni celebrano il 22 aprile l’Earth Day, il Giorno della Terra, per ricordare l’urgente necessità di salvaguardare le risorse naturali della nostro pianeta. Che non sono infinite. E che i sette miliardi di suoi inquilini dovrebbero utilizzare con intelligente parsimonia. Invece, ahimè, nel 2010 già a metà settembre abbiamo consumato le risorse che dovevano bastarci sino al 31 dicembre. Purtroppo, da circa vent’anni, il consumo delle risorse che la Terra può darci in un anno avviene con sempre maggiore anticipo. E’ come se una famiglia spendesse il suo stipendio dieci giorni prima del ventisette.
Sono sicura che ognuno di noi può fare qualcosa per far tornare in pareggio i conti energetici della nostra padrona di casa. Anche noi Palermitani dovremmo tifare: Forza Terra!, oltre che Forza Palermo. E fare la ola per il pianeta: magari coibentando la casa, montando i pannelli solari sul tetto, camminando a piedi...
Maria D’Asaro      (pubblicato su “Centonove” il 22-4-2011)

giovedì 21 aprile 2011

101 STORIE: QUANDO, A ESSERE SPERDUTO, E' QUALCHE DOCENTE: IL BURNOUT


Fare l’insegnante è uno dei mestieri più difficili del mondo. E uno dei più dolorosi. Perché bisogna essere sempre preparati e aggiornati. E avere forza, pazienza, passione e tenacia. Avere autostima. E fiducia in se stessi. E tanto amore per gli altri. Scrive Hanna Arendt: “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumerne la responsabilità”.
Non è facile che un insegnante riesca a tenere unite insieme dentro di sé tutte queste qualità. Può capitare che sia ricco di passione, ma manchi di autostima. Può essere bravo didatticamente, ma poco paziente. Può essere disponibile e pieno di attenzione per i suoi alunni, ma fragile e poco tenace. E poi ci sono i mille problemi di affrontare: un numero esorbitante di alunni per classe, pochissime risorse a disposizione, la solitudine amara di fare un lavoro difficilissimo e poco apprezzato.
Paradossalmente, i docenti (e gli psicopedagogisti!) più in gamba sono soggetti più degli altri a uno stress notevole che può renderli vittima di quella che gli specialisti chiamano “la sindrome da corto circuito” o da "burnout" (che in inglese significa proprio "bruciarsi").
Tale sindrome è stata descritta inizialmente verso il 1970 da H. Freudenberger e da C. Maslach, che descrissero le prime osservazioni su tale fenomeno all’interno di un reparto di igiene mentale, dove avevano notato su alcuni operatori dei sintomi caratteristici di questo problema.
La traduzione italiana della parola “burnout”, che comunemente avviene con il termine “bruciato” (o anche “scoppiato” o “andato in cortocircuito”), permette di descrivere parte delle sensazioni vissute da chi sperimenta lo stato di questa sintomatologia.
Che è riscontrata proprio in quelle tipologie di professioni educative, ad esempio gli insegnanti, che generano un contatto, spesso con un coinvolgimento emotivo profondo, con i disagi degli utenti con cui lavorano e di cui guidano la crescita personale. Ma possono esserne colpite tutte le persone legate alla gestione quotidiana dei problemi delle persone in difficoltà: poliziotti, carabinieri, medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, vigili del fuoco…. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata.
Secondo i risultati delle indagini di alcuni studiosi, la chiave della genesi del burnout è da rintracciarsi in questo contatto frequente con le emozioni dolorose degli altri, una condizione che stressa emotivamente a causa della medesima natura umana e della capacità di sperimentare l’empatia, non sempre gestita in modo da saper mantenere un giusto distacco emozionale.
Secondo gli specialisti, il disagio da burnout comprende tre vissuti che rappresentano le dimensioni fondamentali del problema:
La prima caratteristica è quella dell’esaurimento emotivo che è vissuto come un inaridimento interiore e come la sensazione di non avere più qualcosa da dare ai propri utenti e che viene esperito spesso come impotenza, tensione, impazienza, nervosismo o anche depressione e demotivazione rispetto a tutte le attività quotidiane precedentemente soddisfacenti.
La seconda caratteristica è chiamata depersonalizzazione e corrisponde a una tendenza a reagire in modo freddo o persino cinico-aggressivo nei confronti delle persone che sono destinatarie della propria attività lavorativa.
 La terza particolarità del burnout è la presenza di una ridotta realizzazione lavorativa che determina una sfiducia nelle proprie capacità e competenze. Molti casi gravi di burnout possono determinare una pesante sensazione di inutilità personale.
Paradossalmente sono le persone più idealiste a essere più a rischio di burnout: infatti quando una persona sceglie un lavoro iniziando con una eccessiva esaltazione e un entusiasmo idealistico, con la convinzione di poter cambiare gli altri o se stessi in modo radicale, si pone in una condizione potenziale di vulnerabilità maggiore a tale sindrome.
Eh si. Credo che tutti gli insegnanti e gli psicopedagogisti siamo a grave rischio burnout. Me compresa, giorno dopo giorno…
Non mi resta che aggrapparmi alla mia litania di pensieri, per evitare soprattutto il delirio di onnipotenza: mi ripeto che non posso cambiare il mondo, che non posso trovare il lavoro al padre disoccupato che piange senza ritegno nella mia stanzetta, che non ho la bacchetta magica per risolvere i disperati problemi familiari di tanti miei alunni, che non posso evitare che alcuni siano bocciati o non vengano a scuola, nonostante, a volte, io stia a scuola dieci ore di seguito….
E, come suggeriscono gli specialisti, tendo a diminuire la componente onirico-idealista rispetto al lavoro, cerco di evidenziare gli aspetti positivi della mia professione, ridimensiono le mie aspettative. Cerco di apprezzare ogni sfumatura di miglioramento. Mi confronto con i miei colleghi più attenti e sensibili per non sentirmi sola e condividere lo stress. Coltivo interessi al di fuori dal lavoro.

Scrivo in questo blog, ad esempio.

La fine è il mio inizio...

Mantiene quel che promette La fine è il mio inizio del tedesco Jo Baier: raccontare l’ultimo, inusuale, reportage di Tiziano Terzani. Quello sulla sua imminente morte personale.
Che Terzani affronta con coraggiosa semplicità e sereno distacco: - Quanti miliardi di uomini sono morti prima di me? Nascere e morire sono le azioni più naturali del mondo – dice il giornalista al figlio Folco, che chiama a sé come testimone e cronista degli ultimi suoi mesi di vita.
Ma questa superiore consapevolezza, questo sguardo pacificato su di sé e sulle cose, Terzani se lo è guadagnato sul campo: come giornalista, che ha visto e raccontato tutto quello che c’era da dire sulla Cina e sulla guerra in Vietnam; come uomo, che, a un certo punto della sua ricca esistenza, ha capito di dovere spogliarsi di un ego ingombrante, sino a divenire un Anam, un senza nome, per sentirsi solo parte integrante della meravigliosa immensità della Natura.
La fine è il mio inizio si regge tutto sui dialoghi tra Terzani/Bruno Ganz e Folco/Elio Germano e sull’ottima ambientazione nella campagna toscana dove Tiziano, ormai Anam, ha deciso di congedarsi dal mondo. Forse per risparmiare sui costi, la pellicola evita infatti il ricorso ai flashback.
Regalandoci comunque un film/verità che ci lascia assaporare una scelta saggia, affascinante e nonviolenta: prima che di morte, soprattutto di vita.

martedì 19 aprile 2011

Il Testamento di Tito

In questa settimana santa, una delle stupende interpretazioni di Fabrizio. 
Una re-interpretazione critica e personale dei 10 comandamenti. Con la consapevolezza finale che un gesto d'amore e di donazione compendia e sublima ogni comandamento, umano e divino.
Perchè "nella pietà che non cede al rancore", impariamo l'amore.
Restiamo umani, ci esorta Vittorio Arrigoni.


domenica 17 aprile 2011

L'AMACA

E' proprio così: del latrare osceno, sulla morte di Vittorio come su altro, quello che fa male, veramente male, è che "ne esce lesa la realtà delle cose", e senza realtà io non saprei come vivere, né come scrivere.
 Non virgoletto l'ultima frase, sebbene sia di Michele Serra, perchè la faccio totalmente mia.

Quel povero figlio ammazzato a Gaza da un paio di fanatici di Allah lavorava con e per la gente della Striscia. Nemmeno il movente razzista ("era un occidentale") riesce a rendere pienamente onore alla totale imbecillità degli assassini. Stupidità e ignoranza sono l´humus ideale di ogni violenza politico-religiosa.
A confermarlo è anche la sordida eco che la morte di Arrigoni ha avuto in patria presso alcune teste vuote (abbiamo anche noi i nostri salafiti) che sul sito di un importante quotidiano di destra sghignazzano perché "i comunisti si ammazzano tra di loro", più altre idiozie che una mano pietosa, si spera, provvederà presto a cancellare, come si fece con i muri lordati da scritte inneggianti alla morte di soldati italiani.
Più dell´odio, sgomenta in quei commenti l´abissale ignoranza: qualcuno scrive che "l´ha ucciso Hamas", un altro che "guadagnava un sacco di soldi", è un parlare scardinato, un latrare pregiudizi, il gongolare osceno di chi non sa niente ma trova indispensabile parlare di tutto.
Leggendo quelle righe disgustose e pensando che dietro ognuno di quegli sputi su un cadavere c´è una persona, sono stato male. Non perché ritenga che, in qualunque modo, la memoria di Arrigoni possa esserne lesa. Ma perché ne esce lesa la realtà delle cose, e senza realtà io non saprei come vivere, né come scrivere.
Michele Serra (La Repubblica, 16.4.2011)

sabato 16 aprile 2011

POVERI CRISTI



Nella chiesa di Sant’Antonino, vicino la Stazione Centrale di Palermo, all’ora della messa vespertina, gli ultimi posti sono occupati da extracomunitari: indiani, filippini, eritrei, marocchini, tunisini ….
 Ma Cristo non diceva: “Gli ultimi saranno i primi… Rovescerò i potenti dai troni, rimanderò i ricchi a mani vuote”?
Dov’è la novità della Buona Novella? In chiesa si rischia di ripetere, in modo forse inconsapevole, gli stessi schemi sociali che si consumano fuori.
Concentrati nelle loro preghiere, lo sguardo raccolto e pensoso. Spesso un po’ triste. Sarà che non conoscono bene la lingua, ma occupano sempre gli ultimi banchi.
Fa pena vederli confinati tutti in fondo. In chiesa, come nella società.
Ripensando alla bagarre del crocefisso nelle aule, credo che il problema vero sia quale collocazione dare, nella società, ai crocefissi della storia, ai poveri cristi di questa terra.
 O dobbiamo rimandare a una eventuale, ipotetica, realtà metastorica un po’ di giustizia?
Maria D’Asaro (pubblicato su “Centonove” il 15-4-2011)

Ciao, Vittorio: grazie...

     Vittorio Arrigoni, giornalista e testimone nonviolento dell'oppressione del popolo palestinese nella striscia di Gaza, è stato ucciso, ieri, in Palestina, Forse da fondamentalisti islamici.
Vittorio aveva anche un blog. Il cui titolo, splendido, è: "Restiamo umani".
 Restiamo umani, ci dice, Vittorio: nonostante la guerra, le ingiustizie, le torture, la violenza. Restiamo umani: la compassione, la voglia di giustizia, il riconoscere nell'altro il mio stesso volto, i miei stessi bisogni essenziali...solo questo può salvarci dalla barbarie.
Grazie, Vittorio. 
    Scusa se ti abbiamo lasciato solo: io, sino ad ieri, non sapevo che esistevi. Ti prometto però di custodire il tuo ricordo sino a che avrò vita.
 E di continuare, per quanto ne sia miseramente capace, la tua azione nonviolenta.
(Ho scelto di non inserire l'ultimo video: quello in cui possiamo vedere Vittorio con il volto tumefatto dalle torture, novello Cristo di una, terribilmente attuale, settimana di Passione. Voglio ricordarlo così: col suo sorriso serio, con la sua voglia di vivere e di lottare)

martedì 12 aprile 2011

DANZA


Danza

nel buio
sulle note festose
di una canzone speciale.
Amata.

domenica 10 aprile 2011

Nostra signora delle creature diverse


      Nostra signora, per alcune creature aveva un riguardo speciale: per gli analfabeti, per chi chiedeva un soldino al semaforo, per i bimbi sperduti, per le vecchiette svanite, per i ragazzi che amavano altri ragazzi, persino per i cagnolini abbandonati ….
    E per i nonnini un po’ curvi. Che aspettavano l’autobus, alle nove di sera. Quando lei, signora di belle speranze, due figli in meno e un po’ di arroganza in più, tornava da Bagheria, dove insegnava agli alunni diversi della scuola di sera.
  E, d’inverno, con la sua 127 blu, solcava la vecchia statale: Ficarazzi, via Messina Marine, poi corso dei Mille. Dove c’era il nonnino: un vecchietto piccolo piccolo, con un cappotto grigio topo, una gobba evidente. E gli occhi più buoni che lei avesse mai visto. A volte, se il cielo prometteva la pioggia, la mano destra del vecchietto reggeva un ombrello. Lei lo guardava, dalla sua calda automobile. La tentazione di raccattarlo era ogni sera più forte. Una sera non resistette: era gennaio, pioveva, l’aria era più fredda del solito.
      Nostra signora accosta la macchina alla fermata dell’autobus, abbassa il finestrino, e dice con la voce più quieta del mondo: - Vuole un passaggio? Io vado verso la Stazione centrale… - Gli occhi buoni la guardano, per niente stupiti: - Troppo buona, signù… Casa mia, però è verso via Dante… - Non è lontano: salga, l’accompagno: c’è freddo, stasera. -
     In macchina, il signore le parla di una moglie andata via troppo presto, di una nipote che “gli lava la biancheria”, di un’altra che gli cucina un piatto di pasta. - Ma la sera, io vado a dormire nel mio letto, finchè u Signuri mi dà la grazia di camminare…-
     La signora lo lascia sull’uscio di casa. La sua stretta di mano affettuosa, il sorriso caldo dei suoi occhi, le regalano un po’ di luce anche adesso.
      Methody è sempre lì, al semaforo di via Buonriposo. Una volta nostra signora gli aveva chiesto come stava. E lui le aveva risposto che no, questa domanda lei non doveva farla. “Come si può stare, quando uno chiede soldi per mangiare al semaforo… Non mi chiedere niente, per favore, bella signora…”
      Lei non si era offesa e aveva cominciato a pensare. E a svestirsi. Della sua tranquilla posizione sociale, del suo stipendio che arrivava puntuale, alla fine del mese. Non doveva essere facile, chiedere l’elemosina, a quel semaforo … Aveva imparato: non faceva domande. Elargiva sorrisi. Magari anche una banconota, quando poteva.
     Le era poi capitato di salire degli scalini: sbrecciati, scivolosi, un po’ unti. Di portare una pesante valigia, per quelle scale. Di sentire canzoni napoletane, vedere bambini che stavano a casa, anche in giorni di scuola, di parlare con donne dal trucco pesante e dalle vestaglie sgualcite.
      Aveva cominciato a capire, sulla sua pelle, come fosse diversa e uguale la vita, su quelle scale. Arrancando con pacchi di spesa a buon prezzo, senza ascensore. Come ci si sentisse, a sopportare gli sguardi altezzosi dei garantiti. Di quelli che il Capodanno vanno almeno in un piccolo villaggio francese, perché c’è la neve ed è così intimo. Di quelli che hanno sempre l’invito a un evento importante.
     Infine, accanto a un uomo dai lunghi capelli, aveva intercettato l’umore di straordinaria durezza degli sguardi maschili verso di lui: diffidenti e sprezzanti. Gli stessi sguardi si erano posati poi verso di lei: con un retrogusto, neppure troppo celato, di sguaiata ironia.
      Chissà che non avesse ragione Jim Morrison: ancora oggi, forse solo Gesù aveva il diritto di avere lunghi capelli e non essere guardato come un drogato, un diverso, uno poco affidabile. Ma, di sicuro, ai suoi tempi anche Cristo era un disadatto. Non per niente era finito in croce, ammazzato dalla gente perbene.
      E nostra signora cominciava lentamente a capire. Ma non più con la testa. Non solo. Perché quegli sguardi l’avevano profondamente toccata. Capiva col cuore. Soffriva nella sua pelle. Pensava con la sua carne. Ma poi sorrideva, nell’anima.
Perché lei, tanto vicina a un mondo di ceri e preghiere, solo ora capiva le parole dell’Uomo dai lunghi capelli: Se non diventerete come bambini, non entrerete in Paradiso. Pubblicani e prostitute vi precederanno nel Regno dei Cieli… .
      Nostra signora, finalmente, sentiva davvero il respiro delle creature speciali. E continuava a dare loro la mano. E il cuore. Con un diverso sorriso.

venerdì 8 aprile 2011

FIGLI DI UN DIO MINORE


Il primo è in piedi accanto all’autista: trema vistosamente, il volto ha un’età indefinibile. Ha strani capelli neri, un po’ lunghi e un po’ ricci, un grosso anello all’anulare destro e un bracciale d’oro massiccio al polso. In mano ha un sacchetto.
Poi c’è un signore, a cui manca un venerdì di sicuro, che ride in modo sguaiato e fissa ostinatamente tutte le donne che incontra, dicendo: “Hai begli occhiali … Che stai mangiando? Buon appetito! Dove vai?”
Ce n’è un altro, comodamente seduto, con una sorta di bombetta in testa, ben intrecciata al collo una sciarpa bianca, chiusa da una vistosa spilla dorata. L’uomo poggia entrambe le mani su uno strano bastone. E continua a fissarmi, con uno sguardo insieme ironico e penetrante.
A Palermo, i figli di un dio minore – o maggiore, chissà – non hanno l’automobile. La domenica, vanno in giro per la città: tutti insieme, sull’autobus 243.
Maria D’Asaro ("Centonove": 8-4-2011)

giovedì 7 aprile 2011

Ciao, Trilly



Cara Trilly,

                     te ne sei andata qualche giorno fa. Spiccando un volo troppo alto. Troppo alto anche per te, che, secondo il luogo comune, avresti dovuto avere almeno sette o nove vite.
                   Chissà: forse era troppo grande e irrefrenabile il desiderio di sperimentare cosa c’era al di là dal muro, al di là della porta di casa …
                 Chissà: forse cercavi ancora una voce, una carezza, una presenza, dolorosamente assente da tempo. Ma presente ancora, sicuramente, nel tuo sguardo.
Ci manchi, cara Trilly.
Manchi ai due ragazzi stupendi che hanno speso un pezzettino della loro vita con te. Manchi al loro papà, il mio amico dalle tante consonanti.
Manchi anche a me, gattina rossa dagli occhi speciali.

“Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, muoiono quelli; c’è un soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. Chissa’ se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e quello della bestia scenda in basso nella terra?”Bibbia: Libro di Qohèlet (3,19-21)

“Dio non esiste se non esiste l’immortalità: infatti, se esistesse e tutto quanto gli fosse indifferente, e si mostrasse insensibile anche soltanto verso il più piccolo degli esseri sensibili, allora anche a noi, che pensiamo e sentiamo nonostante la nostra debolezza, sarebbe indifferente Dio.
O tutto ritorna, le meduse e i gabbiani, le nuvole e gli arsenali, il sole e il mare, oppure tutto è nulla. E’ solo per poi ritornare che tutto ciò che esiste deve trapassare in quel baluginio di luce la cui forma è lo spirito, un essere senza rappresentazione, che soltanto intuiamo (…) tutto è un fenomeno in transizione, una cifra magica della trasformazione di tutta la vita nella sfera del divino.
Nulla perisce davvero nell’ora della morte. (…) Per questo gli antichi dicevano “Chi è morto si trasforma in Dio.”
Possiamo aggiungere: non moriamo mai da soli. Nel momento della nostra morte discendiamo insieme nella barca del sole.”  E.Drewermann: Sulla immortalità degli animali. (pag.60)

mercoledì 6 aprile 2011

10 (+ 1) motivi per leggere “101 Storie di mafia”


Si possono elencare svariate ragioni che rendono utile, anzi necessaria, nonché gradevolissima, la lettura dell’ultimo libro di Augusto Cavadi: 101 Storie di mafia che non ti hanno mai raccontato, Newton Compton Editori, Roma, 2001 (€9.90). Potrei persino trovarne 101, di queste ragioni. Ma tenterò di essere convincente con un semplice decalogo.

1. Questo libro va letto perché ci ricorda che il problema più grosso della Sicilia è la mafia. Ce lo ricorda in un momento storico in cui è forte, di nuovo, il rischio di credere invece che la vera piaga della nostra isola sia il traffico, come proclamato dallo zio di Johnny Stecchino. Il testo, attraverso 101 storie legate dal filo rosso della variegata e poliedrica esperienza personale dell’autore, ci offre un panorama a 360° del fenomeno mafioso in Sicilia. Incasellando rigorosamente, con una capacità di analisi e un’onestà intellettuale adamantina, uomini e avvenimenti nel loro puntuale contesto storico-sociale.

2. Il libro va conosciuto perché è, a mio avviso, una sorta di classico sulla mafia. In fondo cosa è un classico, se non un testo che tratta contenuti universali, riuscendo a far breccia nel cuore di tutti: uomini, donne, ragazzini, di tutte le condizioni sociali e culturali? Con questo testo, con il suo linguaggio piano e scorrevole, ma mai affrettato e banale, Augusto Cavadi, – così come con l’ottimo saggio "Il Dio dei mafiosi" - si dimostra uno scrittore, nazional-popolare, di classici storico-sociologici. Questo è un libro per tutti: può leggerlo lo studente di primo anno di una qualsiasi scuola superiore, il docente universitario, il fruttivendolo attento che ha solo la terza media, il poliziotto, anche l’affiliato a Cosa nostra. Tutti troveranno uno spunto, un interesse, un aneddoto, un punto di vista da prendere in considerazione.

3. Le 101 storie (le prime 32 delineano il sistema di potere mafioso, dalla 33 in poi raccontano storie e cronache del potere mafioso) sono densissime e ricche di umanità, ma scritte come un romanzo: in modo avvincente, piano, scorrevole, intrigante.

4. E’ un libro dove si fanno nomi e cognomi: con rispetto, ma senza sconti per nessuno. Volete sapere qualcosa di più dell’intricato rapporto tra Massimo Ciancimino e quel suo padre ingombrante che fu don Vito? Leggete la storia n.95. Volete sapere chi, negli anni ’60 aveva il coraggio di parlare di mafia a Palermo? Leggete la storia n.51. Volete sapere la storia di uno che, in Sicilia, ha avuto il coraggio di non pagare più il pizzo? Leggete la storia n.58.

5. Il testo, sebbene sia una sorta di vulgata della mafia e dell’antimafia, è molto di più di questo: ha una forte valenza antropologica, è ricchissimo di spunti di costume, è un prezioso compendio della varia umanità che ha abitato, negli ultimi decenni, sotto diversi vessilli etici ed esistenziali, la terra di Trinacria.

6. E’ un testo che non può mancare nella biblioteca personale di un insegnante: perché gli consente di arricchire la storia della mafia e dell’antimafia con contenuti, notizie, curiosità, ragionamenti che hanno di sicuro un grande impatto in una didattica che sia efficacemente antimafia.

7. Tra le 101 storie alcune sono veramente esilaranti: risate assicurate nel leggere la storia n. 7: Preparati Chinnici, quella n. 65: Evidentemente mi ha scambiato per suo marito o l’episodio n.71 Il pretore di Carini e un cornuto. Riuscire a conoscere, scandagliare e ragionare su Cosa Nostra e, magari, riderne di cuore in alcune pagine, non è certamente pregio da poco.

8. “Chi, per le ragioni più varie, non accetta né la fuga (dalla Sicilia) né l’auto-soffocamento della propria dignità, deve rassegnarsi a convivere con un certo margine di pericolo”. E l’autore sa che “ogni mattina – uscendo da casa – ha qualche probabilità in più, rispetto ai colleghi giornalisti francesi o canadesi, di non ritornare sulle sue gambe.” Perché il giornalista Augusto Cavadi è uno che si schiera. E le sue 101 storie dicono chiaramente da che parte sta. E che corre anche i suoi rischi, per le sue denunce, per i suoi scritti, per le sue parole, per le sue azioni: “alla luce del sole” contro la mafia.

9. E’ un libro che un siciliano non può non conoscere: difetterebbe la sua conoscenza della storia e dei costumi etico-antropologici dell’isola, si porterebbe gravi lacune nella messa a fuoco del fenomeno mafioso, ne sarebbe diminuita la sua coscienza di cittadino consapevole.

10. Sono 101 storie che un non-siciliano non può non conoscere: se si privasse della lettura di questo testo, anche chi vive a latitudine 44° (Viareggio) o 46° (Bolzano) sarebbe diminuito nella sua coscienza di cittadino consapevole e avrebbe gravi lacune nella messa a fuoco del fenomeno mafioso.

L’undicesimo motivo per cui questo libro è prezioso è di carattere strettamente personale. Scopritelo da soli, con il libro tra le mani.

lunedì 4 aprile 2011

PRIMAVERA

Primavera

Non bussa
Lei entra sicura:
Come il fumo, lei
Penetra in ogni fessura.
Ha labbra di donna,
E capelli di grano ….
Che paura, che voglia
Che ti prenda per mano.
Che paura, che voglia
Che ti porti lontano……
Sono parole tratte da “Il chimico”, da quel capolavoro di Fabrizio De Andrè che è “Non al denaro, non all’amore, né al cielo”.
 Il chimico è l’uomo che muore senza farsi tentare dall’amore: perché non si fa coinvolgere in un’esperienza che non è in grado di prevedere e controllare.

Come contraltare, nella dolcezza dell’Aprile che viene, questa canzone di Edoardo Bennato “Si tratta dell’amore”:



venerdì 1 aprile 2011

PANINO CON LA MILZA O CON LE PANELLE?


Un amico vegano, dagli occhi azzurri e dallo sguardo straordinariamente mite, evoca in me un’equazione azzardata: è possibile che il suo sguardo mansueto dipenda anche dalle sue scelte alimentari? E, per converso, è possibile che l’ingozzarci di sasizza e broscioloni, senza misura e senza consapevolezza, alimenti almeno un po’ la nostra arroganza palermitana?
La correlazione ardita troverebbe una conferma nel libro “Se niente importa”, dove Jonathan Foer suggerisce un legame tra scelta vegetariana e crescita della sensibilità personale e della capacità di istaurare rapporti costruttivi e nonviolenti: “Che mondo creeremmo se tre volte al giorno la nostra compassione e la nostra razionalità intervenissero mentre ci sediamo a tavola”?, scrive Foer a p.276 del libro. Sicuramente qualcuno troverà azzardata quest’ipotesi. Chissà, invece, se la scelta consapevole di un panino con le panelle, anziché di uno con la milza, non possa innescare un cambiamento positivo in questa Palermo che sembra irredimibile.
Maria D’Asaro                   (pubblicato su “Centonove” l’1-4-2011)

101 STORIE:QUANDO A SALVARLI SONO I NONNI (3): UN NONNO IN LAPONE


  
    Il suo arrivo a scuola mi fu annunciato da una telefonata della Preside di una vicina Scuola elementare: - A settembre, arriverà Valeria. Guarda che è una ragazzina …. speciale. Intanto ti dico che ha già tredici anni e mezzo. –
   Mi racconta, in due battute, la sua storia: il padre era stato ammazzato qualche anno fa, non si sa se per mafia o per banale regolamento di conti, in quella polveriera che è piazza Guadagna. La madre, qualche mese dopo, aveva abbandonato Valeria (figlia maggiore) e la figlioletta minore, per andare a vivere, non si sa bene dove e con chi, con il figlio più piccolo.
- E Valeria? – chiedo. Valeria era stata generosamente raccattata dai nonni paterni. Dopo qualche mese, c’era stato l’affidamento formale da parte del Tribunale dei Minori.
   - Valeria è una creatura dolcissima – conclude la Preside – solo che, capirai, qualche problema ce l’ha: è già stata bocciata due volte perché, di fatto, sua madre non la mandava a scuola; in matematica è debolissima; legge stentatamente. E poi ha una considerazione di sé prossima allo zero. Dice sempre che non è capace, si vergogna del suo essere più alta dei suoi compagni, del suo seno prosperoso … Ripete che lei vuole stare a casa, con i nonni. Bisogna accoglierla con grande dolcezza e controllare che venga a scuola.
   Te l’affido – conclude, con la sua concreta asciuttezza, la Preside amica.

   Che aveva messo a fuoco benissimo la situazione della ragazzina.
   Il primo problema, infatti, fu quello di farla frequentare regolarmente. Valeria aveva paura: paura di non farcela, paura di non sapere leggere, paura di sfigurare davanti ai compagni, paura che si sapesse la sua storia. Paura di apparire troppo diversa.
   Le parlo: le dico che le saremo accanto tutti: insegnanti, compagni, psicopedagogista. Le assicuro che lei, a scuola, starà bene. Che imparerà: con i suoi tempi, col nostro aiuto.
   Intanto, Valeria non ha libri. I nonni hanno altre priorità. Glieli procuriamo, in qualche modo.
   Legge molto lentamente e stenta a capire il testo: perché il suo vocabolario è limitatissimo, perché le strutture sintattiche complesse la confondono. Comunica istintivamente in dialetto.

  L’impareggiabile docente di Lettere prende in mano la situazione. Prepara una progettazione individualizzata. I compagni sono discreti e affettuosi. Io chiamo i nonni quando le assenze mi sembrano sospette. A fine anno, Valeria viene promossa, senza se e senza ma.
   In seconda media, si continua con la stessa strategia. Intanto, ho conosciuto il nonno paterno. Un omone settantenne, con gli occhi buoni, con tanti capelli bianchi sulla testa. Insieme, di sicuro, a tanti pensieri.
La prima volta l’ho incontrato quando è venuto a ritirare il libretto delle giustificazioni.
Mi chiamano dalla portineria: - Professoressa, possiamo consegnare il libretto al nonno? Non devono venire i genitori a ritirarlo? – Dico alla collega di consegnare il documento e fare accomodare il nonno nella mia stanzetta.
   Ci guardiamo negli occhi. Il signore è imbarazzato. Lo invito a sedersi. Rifiuta garbatamente: - Professoressa, lassavu u lapuni malu misu, fori di la scola
   Non insisto. Lo ringrazio per la cura che lui e la moglie hanno per Valeria. – Deve promettermi una cosa, però: Valeria deve venire a scuola di più. Non può mancare un giorno o due a settimana. Le chiedo solo questo. Al resto penseremo noi. – Il signore mi guarda, sollevato. Annuisce. Poi, quasi per sigillare la sua promessa, poggia la mano destra sotto il cuore. Se ne va, regalandomi un mezzo inchino e un convinto sorriso.
   In effetti, le assenze di Valeria rientrano nella quota consentita. Promossa in terza media.

   In terza le cose si complicano un po’. Perché Valeria riprende ad assentarsi. Qualcuno dice che ha un fidanzatino. D’altra parte è una ragazzona di quasi diciassette anni, con grandi occhi marroni,  e capelli dello stesso colore, ondulati, lunghi e setosi. Fianchi e seno perfetti.
   Consiglio di classe di aprile. – Come va Valeria? – esordisco – Pareri contrastanti. C’è il partito dell’ottimismo, capeggiato dalla collega di Lettere, e il fronte degli scettici, di cui è portavoce l’insegnante di Inglese. Che dice: - Senti cara, in fondo l’abbiamo salvata ogni anno, di inglese non sa una parola, non capisco come dovrà fare gli esami ….-
   Già, i benedetti esami di stato. Scopriamo che sono proprio loro lo spauracchio di Valeria. L’ha confessato alla professoressa di Italiano: - Professoressa … ho paura degli esami. Non ci voglio andare. Mi vergogno. L’inglese non lo capisco…-

   E allora la rassicuriamo. Le diciamo che gli esami non sono la fine del mondo. Che, in aula, per le prove di Italiano, Matematica, Inglese ci saranno le insegnanti di classe e non volti estranei e minacciosi. Che venga a scuola, per favore.
Non gettare la spugna, proprio ora, Valeria – dico dentro di me. Telefono al nonno: - Ci aiuti. Valeria non deve mancare per nessun motivo. –
   Perché le assenze erano pericolosamente vicine al livello di guardia. Il nonno capisce. Mi promette che accompagnerà a scuola ogni mattina lui stesso, Valeria.
   Una volta li ho visti. Valeria è scesa dal lapone furtivamente: sicuramente non gradiva che i compagni la vedessero. Ma ho notato un rapido sguardo affettuoso verso suo nonno, prima di entrare a scuola.

   Valeria, nonostante qualche borbotto, è stata ammessa agli esami.
   Ha fatto un orale dignitoso – esclama raggiante l’insegnante di Lettere.
   Che, posso scriverlo in grassetto, è stata il suo angelo custode. Per tutti e tre gli anni. Se non ci fosse stata Rosalba, temo che Valeria non ce l’avrebbe fatta ad arrivare al diploma. Non ce l’avrebbe fatta ad avere la sua quota di scolarizzazione di base.
   E non ce l’avrebbe fatta senza l’arcangelo di suo nonno. Che però, anziché le ali, dal Cielo aveva ricevuto in dotazione solo uno sbrindellato lapone.