Le orecchie e il potere: aspetti socio antropologici dell’ascolto nel
mondo antico e nel mondo contemporaneo (a
cura di Andrea Cozzo) Carocci editore, Roma, 2010
Chi
pensa che un libro curato da docenti universitari (e non) legati al
Dipartimento di Studi greci, latini e musicali dell’Università di Palermo debba
essere necessariamente noioso, si sbaglia di grosso. Lo dimostra il testo Le
orecchie e il potere,
un’agile e interessante raccolta di saggi tematici che trattano le dinamiche
sottese all’ascolto, offrendo un confronto serrato e avvincente tra le dinamiche
che accadevano ieri nel mondo greco e romano, e quelle che avvengono nella
società di oggi.
Il
testo, come ci autorizza a fare Daniel Pennac, può essere letto anche a saltare:
un lettore con orecchio musicale può essere incuriosito dal saggio di Roberto
Pomelli che tratta del poco esplorato nesso tra ascolto musicale e comunità
politica, ipotizzando addirittura un’educazione all’ascolto musicale che sia
anche palestra di cittadinanza responsabile; altri potranno trovare illuminanti
le riflessioni di Maurizio Civiletti, che avanza alcune incisive considerazioni
sulle dinamiche dell’ascolto in guerra, partendo dalle Storie di Tucidide. Comunque lo si legga, il volume offre riflessioni ben calibrate ed espresse in modo
chiaro e godibile anche per lettori non addetti ai lavori.
Il
tema trattato è presentato con preziosa chiarezza dal curatore del volume, Andrea
Cozzo, autore, oltre che della disamina su Ascolto
e politica nella Grecia antica e oggi,
anche della lucida introduzione, dove Andrea Cozzo ci ricorda che “se nelle democrazie contemporanee il
diritto di parlare, di esprimersi, di protestare non si nega più a nessuno (…)
tuttavia questo diritto non garantisce più nulla (…): perché la democrazia
esista bisogna che sia assicurato non solo il potere di parlare, ma anche quello
di essere ascoltati”.
Infatti
sebbene, come ha ribadito Danilo Dolci, comunicare sia “un rapporto tra due o
più persone in cui ognuno impara ad ascoltare ed esprimersi” (…) oggi “fissati
nel ruolo dell’ascolto sono sempre e soltanto i molti, i senza-potere, i
cittadini comuni (…). Se la parola è finalmente appannaggio di tutti, l’ascolto
è rimasto un dovere della massa, quindi è sull’ascolto, e non più sulla parola,
che può essere misurata correttamente la democrazia” .
Andrea
Cozzo non manca di sottolineare che, nonostante la comunicazione orizzontale sia
favorita da Internet, il potere continua e rafforza la sua trasmissione
unidirezionale tramite radio e televisione. Con una significativa differenza,
rispetto alla Grecia antica: mentre allora “l’ascolto del kérux (l’araldo al
servizio del potere ufficiale) avveniva in contesto pubblico, cioè
collettivamente, quello odierno televisivo è esercitato privatamente, il che
può avere come conseguenza un’accettazione più passiva e obbediente”.
Conclude
il suo saggio, condividendo l’analisi secondo cui “la democrazia moderna,
concepita e praticata come diritto di parola, è in realtà un regime
logocentrico e logocratico, in cui pochi detengono il monopolio della parola
pubblica mentre ai più non resta che ascoltare; d’altra parte, quand’anche
questi ultimi si trovino a parlare, non esiste, sancito da qualche articolo
costituzionale, alcun dovere di ascolto da parte delle istituzioni” .
Ecco
che allora Giuseppe Burgio, in un serrato confronto tra la pòlis greca e la
situazione politica attuale, afferma la necessità di ampliare il concetto di
parrhesìa (il diritto di parlare) in direzione di una presa politica
dell’ascolto: infatti, argomenta Burgio,
“gli attuali ambigui processi di governance
planetaria offrono un orizzonte obbligato al dispiegamento di una
partecipazione politica che deve ancora trovare forme inedite di autogoverno”.
E conclude affermando che il problema politico della nostra società è quello di
sperimentare nuove forme di cittadinanza fondate sul diritto alla parola, ma
anche e soprattutto su un esercizio effettivo della cittadinanza “che passa
dalla rivendicazione di diritti, alla realizzazione della possibilità del loro
esercizio reale.”
Maria D’Asaro (pubblicata su "Centonove" il 10.2.2012)
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