Anche con Mia madre – come già con Palombella rossa, Caro Diario, Aprile, Il Caimano - Nanni Moretti conferma la sua originalissima collocazione nel cinema italiano, quella di maestro dell’”autobiografia a sfondo sociale”. In Mia madre infatti, sullo sfondo della storia dell’Italia di oggi, quella delle fabbriche che chiudono e dei disoccupati che protestano, in primo piano emerge - come il regista stesso ci ha confermato in un'intervista - la sua vicenda autobiografica, filtrata da un palese e ben riuscito gioco di rimandi costruito con l’attribuzione di tratti “morettiani” alla protagonista Margherita, una sorta di “alter ego” al femminile. Attraverso questo felice espediente narrativo, Nanni continua a parlarci di sé e di noi, dei suoi lutti e delle nostre fragilità, con una competenza e una precisione quasi chirurgiche. Il Moretti che emerge dalla pellicola è un Moretti crepuscolare: nelle poche scene girate di giorno c'è un cielo coperto o senza colori; le altre sono poco illuminate, spesso sono scene d’interni - tante le stanze ospedaliere - ambientate quasi sempre di sera, di notte o all’alba.
In Mia madre, Margherita/Nanni si pone domande esistenziali, senza darsi risposte definitive: come saldare e mettere insieme la sfera personale e quella pubblica, la finzione e la realtà, il peso dei sogni e dell’inconscio e la consapevolezza della ragione, l’essere e il dover essere? Ma questa robusta cornice di pensiero non rende affatto il film pesante o noioso: il regista è bravo nell’incarnare gli interrogativi nella vita quotidiana di Margherita e nel conferire alla vicenda un buon ritmo narrativo. Così ci cattura e ci commuove la storia della regista di successo che sta lavorando a un film importante, mentre è alle prese con i problemi adolescenziali della figlia, con una recente separazione e soprattutto con la difficoltà di accettare la grave malattia della madre.
Potremmo affermare che Mia madre è anche o soprattutto un film sulla “mancanza”, sulle “dimissioni” volute, cercate o forzate: vorrebbe dimettersi da attore il famoso attore americano Barry Huggins (John Turturro), che nel film interpreta la parte dell’imprenditore straniero che compra una fabbrica italiana e licenzia molti operai; vorrebbe dimettersi da regista impegnata e dal suo legame sentimentale la protagonista Margherita; vuole dimettersi dal lavoro di ingegnere suo fratello Giovanni (Nanni Moretti); vuole “dimettersi dal liceo classico” Livia, la figlia della regista. Di contro, non vorrebbero perdere il lavoro, non vogliono “dimettersi” affatto gli operai della fabbrica; non vorrebbe “dimettersi” dalla relazione affettiva Vittorio, il compagno di Margherita; non vorrebbe dimettersi dalla vita la madre di Margherita.
Ma alla fine, sebbene molte dimissioni siano purtroppo dolorosamente inevitabili, il film – e qui sta la maestria del regista – ci consegna una certa inattesa dolcezza, suggerendoci che se permettiamo agli altri di farci da specchio, se comprendiamo di non potere tenere tutto sotto controllo, meno che mai le relazioni e gli affetti, se, sfuggendo alla tentazione del delirio di onnipotenza, ci consegniamo al nostro limite e alle nostre imperfezioni, saremo forse capaci di accettare lutti e inevitabili sconfitte e ci apriremo alla possibilità di una pacata, imprevista consolazione.
Maria D'Asaro
Recensione impeccabile! Uno dei più bei film di Nanni Moretti che ho visto e commentato con amiche speciali:emozioni e parentesi si affollavano e si sovrapponevano nella giostra dei sentimenti. Grazie Maruzza. Un forte abbraccio.
RispondiEliminaMi piace molto Nanni Moretti regista, è profondo e mai banale. Un po' di timore a vedere questo film visto che tocca temi ancora molto sensibili per me. Bella la tua recensione, grazie!
RispondiElimina@mdfex: il tuo commento mi commuove. Grazie! Ricambio l'abbraccio affettuoso. Alla prossima.
RispondiElimina@bibliomatilda: ti comprendo benissimo. Sono andata a vedere il film perchè ho avuto già tempo per elaborare i miei lutti ... Grazie davvero dell'apprezzamento!
Nei tratti dove Moretti diceva, proprio in un film, lo scostamento tra l’artificio della fiction e la realtà della vita gli ho detto - un po’ esausto di questo gioco di specchi - “ma allora smetti di fare il regista e vivi in presa diretta”. Eppure tutto il film dimostra come la narrazione se onesta e valorosa, come nel caso di specie, può dire la realtà più puntualmente di quanto riesca a esprimere di per sé.
RispondiElimina@Bruno Vergani: grazie del commento, davvero "sentito" e prezioso. Saluti cordiali.
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