Il testo nasce dalle riflessioni maturate a Palermo da un gruppo di uomini che si incontrano - dal 2015 ad oggi - per confrontarsi sul tema della violenza sulle donne, sulla scia del gruppo “Uomini in cammino”, coordinato a Pinerolo da Beppe Pavan, e del movimento italiano “Maschile plurale”.
Cavadi sgombra subito la questione da un equivoco,
spesso alimentato dai media, che etichettano come ‘emergenza’ i casi di
femminicidio; e avanza un parallelismo con la violenza mafiosa, affermando che “Come
la mafia quando non spara non è meno insidiosa di quando uccide platealmente,
così la violenza maschile non è meno perniciosa quando non esplode in casi
eclatanti”. Allora: “Il contrasto alla violenza maschile – proprio come
il contrasto al dominio mafioso – non può profilarsi con i caratteri della
‘emergenza’ occasionale: deve far parte, piuttosto, di una strategia di lungo
periodo che si basi sulle radici del fenomeno che si vuole estirpare”.
Dove ricercare tali radici? In un “ordine patriarcale oppressivo” che appare “naturale, neutrale, ovvio” che ha invece un radicamento biologico - “una struttura anatomica più solida e più avvantaggiata dal punto di vista della difesa e dell’attacco fisici”- e una collocazione storica precisa in ambito socio-economico e giuridico-culturale: per secoli l’uomo è stato proprietario e gestore dei beni materiali e la donna non ha avuto accesso al mondo del lavoro perché ad essa è stata demandata la cura esclusiva della famiglia e della prole. In Italia, sino al 1942, il Codice civile prevedeva l’autorizzazione del marito perché la moglie potesse sottoscrivere un contratto di lavoro, mentre bisognerà aspettare la riforma del diritto di famiglia del 1975 perché sia definitivamente superata la “potestà maritale” che, tra le tante limitazioni, escludeva le donne dalla tutela legale dei figli e dalla possibilità di ricevere beni in eredità.
In questo contesto, sino alla metà degli anni ’90, lo stupro era considerato un reato contro la morale e non contro la persona: Addirittura, con le motivazioni espresse in alcune sentenze, qualche giudice ha avallato il pesante pregiudizio che la donna vittima di violenza “se l’era andata a cercare”. Cavadi ci ricorda poi che anche l’universo simbolico-religioso ha avuto un ruolo nel legittimare il sistema del ‘patriarcato oppressivo”: nel mondo greco il pensiero filosofico e la prassi legislativa prevedevano una completa subordinazione della donna alla figura maschile; mentre oggi nelle tre religioni prevalenti (ebraismo, cristianesimo, islamismo) “siamo all’interno di un’idea del Divino antropomorfica e sessista da cui non è per nulla facile liberarsi.” “Dio, per quanto non abbia sesso, ha però da migliaia di anni un genere: il genere maschile. […] Come non pensare allora che questa millenaria identificazione culturale di Dio con la maschilità non abbia conseguenze nella società umana?”. Citando una teologa, Cavadi sottolinea che “sino a quando Dio viene concepito sempre e solo come Maschio, il maschio (non necessariamente credente, confessante, praticante) avvertirà la tentazione di concepirsi come dio”. L’autore passa poi in rassegna le obiezioni più frequenti a tale analisi: tra esse, quelle che lo scenario maschilista e patriarcale sia ormai anacronistico, e che la violenza sia un dato antropologico ineliminabile, per cui “ammesso che gli uomini che esercitano violenza sulle donne siano più numerosi delle donne che la esercitano sugli uomini, essi feriscono e uccidono non in quanto maschi, ma in quanto violenti”. A queste obiezioni, si controbatte che, se è vero che “la violenza che si consuma ogni ora sul pianeta non è solo quella ai danni delle donne in quanto tali […] nel caso della violenza maschile contro le femmine […]ci troviamo probabilmente alla radice di tutte le manifestazioni, alla madre di tutte le violenze.” Viene infatti evidenziato che il modello virilistico, militaristico, bellicistico, l’uomo “che non deve chiedere mai” “è la prima radice e il primo paradigma di ogni violenza, di ogni oppressione”. Si registra infatti in tutte le epoche “una concatenazione fra l’esercizio della violenza da parte degli uomini, le attività belliche e i tratti tradizionali della maschilità”.
Se questa è la diagnosi, quale la terapia?
Il gruppo “Noi uomini a Palermo contro la violenza
sulle donne” invita tutti gli uomini a essere responsabili del modello
socio-culturale di maschio che ognuno vuole incarnare, consapevoli che “mettere
in discussione l’assetto culturale e sociale prevalentemente androcentrico è un
gesto non solo di equità verso le donne, ma almeno altrettanto di cura verso
noi stessi”. L’invito è allora quello di “abbattere le corazze di cui la
maschilità è da millenni rivestita”, corazze che impediscono agli uomini di
vivere appieno la loro umanità che include capacità di cura, emozioni e
sentimenti ed empatia.
Nella post-fazione Francesco Seminara – uno dei
componenti del gruppo palermitano – indica alcuni antidoti alla violenza
maschile: la destrutturazione degli stereotipi di genere che fondano la cultura
maschilista e patriarcale; la pratica, da parte maschile, di professioni di
cura, quali quella di maestro di scuola e/o di infermiere; la riacquisizione
della parità genitoriale in caso di separazione; la scoperta della propria
dimensione sentimentale, che includa la dolcezza e la tenerezza, perché, come
affermato in un testo citato: “Il mondo è pieno di parole maschili in ogni
campo del sapere e del potere […]. Spesso questa parola maschile
[…] ha nascosto un grande silenzio sui propri sentimenti. Rompere questo
silenzio su sé stessi è una frontiera del cambiamento maschile, nel nostro
tempo”.
Ecco allora infine il convincente appello di
“Maschile Plurale”, in occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione
della violenza sulle donne: ”Quando il disprezzo per le donne,
l’ostentazione del potere e le minacce contro i gay e gli stranieri diventano
modelli di virilità […] dobbiamo reagire: come uomini prima ancora che come
cittadini. Sentiamo la responsabilità di impegnarci come uomini, contro la violenza
che attraversa la nostra società e le nostre relazioni. […] Non ci sentiamo
‘protettori’ né ‘liberatori’. Sappiamo che le donne non sono affatto deboli. La
loro libertà, la loro autonomia […] non sono una minaccia per noi uomini e
nemmeno una concessione da far loro per dovere. Sono un’opportunità per vivere
una vita più libera e ricca.”
Per camminare insieme verso orizzonti di una comune libertà e felicità.
Buongiorno Maria. personalmente non credo che la violenza sia una malattia e che di conseguenza esista una terapia per far guarire certi uomini. Penso che sia il carattere, l'indole e l'educazione ricevuta, nonché la vigliaccheria a far sì che scatti il meccanismo che porta un uomo a compiere certe azioni aberranti verso le creature più deboli. No, non credo proprio che esista una terapia perché per me non è una malattia. Grazie per il post Maria. Ti lascio con un saluto e un sorriso.
RispondiElimina@Vivi: grazie per la condivisione del tuo punto di vista. Sicuramente l'educazione ricevuta influisce tantissimo sui comportamenti umani, in positivo e - purtroppo - in negativo. Buon tutto e saluti cordiali.
EliminaUn libro molto importante ed interessante che in primis sottolinea giustamente come la violenza sulle donne può anche essere psicologica e cmq non sfociare per forza di cose nel caso da articolo di giornale, ma non per questo tale violenza non esiste anzi... un libro dalle molte sfaccettature significative sul tema e che è già importante per il fatto che sia stato un uomo a scriverlo, o meglio, come direbbe l'autore, un maschio nella nuova accezione che l'autore stesso ha forgiato per questa parola
RispondiElimina@Daniele: proprio così... Saluti cordiali.
EliminaSecondo me, c'è da curare un imbruttimento della società, le conquiste degli anni 70, sono finite nel dimenticatoio... purtroppo.
RispondiElimina@Stefanover: per certi versi - è vero - assistiamo a una sorta di involuzione sociale... Buona giornata.
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