Per il
saggio di Amelia Crisantino: Breve storia
della Sicilia (Di Girolamo, Trapani 2012, € 12.90), si potrebbe utilizzare
il noto detto “Il vino buono sta nelle botti piccole”. Si tratta infatti di un libro/pocket,
che racchiude contenuti densi e di grande sostanza, ugualmente fruibili sia dallo
studente di scuola superiore che dal lettore medio desideroso di approfondire
in modo serio ed efficace le linee
portanti degli avvenimenti storici siciliani, “tentando – come ci promette
l’autrice – di ritrovare qualcuno dei fili smarriti e ingarbugliati che tessono
i nostri giorni”.
Dalla
fondazione della Palermo fenicia all’avvento di Arabi e Normanni, Aragonesi e Spagnoli,
di Austriaci e Borboni, fino all’annessione al regno d’Italia e agli sbarchi a
Lampedusa, le riflessioni della Crisantino
sono un mix convincente che comprende una salda ossatura di matrice
braudeliana, accurati ritratti a tutto tondo e preziose notazioni
antropologiche, unite a note di colore che mantengono sveglia e interessata
l’attenzione dei lettori.
Tra i
fattori di lungo periodo, l’autrice afferma che nell’antichità “I chicchi
formano il filo conduttore della storia isolana” e che “assieme al grano, le
strade sono fra quegli elementi di lunga durata preziosi per comprendere la
storia della Sicilia”. Mentre, dopo il 1400: “La Sicilia è una frontiera
disarmata come può esserlo un’isola senza flotta, dove il commercio è
controllato da forestieri che hanno tutto l’interesse a mantenerla in un ruolo
coloniale (…) E il decadimento dell’area mediterranea a favore di quella
atlantica esclude poi la Sicilia dalle grandi correnti dei traffici
internazionali”. E sottolinea ancora che: “Nella società meridionale, solo i
nobili possiedono la terra e i contadini diventano protagonisti di un lungo
processo di impoverimento che nei secoli impronterà di sé tutta la società
ostacolando ogni crescita (…): infatti nelle compagne non ci sono poderi e
contadini ma latifondi, braccianti poverissimi e gabelloti, i grandi affittuari
a cui in seguito sarebbe stato molto spesso associato l’aggettivo mafioso”.
La
studiosa usa toni netti per smascherare la mistificazione dell’autonomismo
isolano, mero “velo ideologico di una lotta per il potere, condotta da un
baronato che esige obbedienza dai ceti inferiori ma ha una vocazione anarchica
nei confronti dello Stato”: equivoco storico che, dai tempi dei Normanni allo
statuto autonomista approvato con regio decreto il 15 maggio 1946, subordina lo
sviluppo civile e sociale della Sicilia alla sua pretesa di autonomia politica
da un potere centrale. Domenico
Caracciolo, già alla fine del 1700, aveva invece individuato nelle riforme
capaci di far crescere il ceto medio e nel rispetto delle regole le soluzioni
più adeguate per un autentico progresso della società siciliana. Di Caracciolo,
viceré illuminista a Palermo dal 1781 al 1786, viene ricordato il tentativo di istituire un
catasto isolano, indispensabile premessa a ogni giustizia fiscale, la
liquidazione formale del Tribunale dell’Inquisizione, l’istituzione di cattedre di astronomia,
fisica sperimentale, matematica e dell’orto botanico. Al ritratto del viceré,
l’autrice affianca quello del canonico Gian
Agostino De Cosmi, che non fu solo insigne pedagogista, ma anche strenuo sostenitore
del riformismo del Caracciolo: una sorta di cattolico di sinistra “ante
litteram”, in quanto affermava che la povertà “è un ostacolo insormontabile
alla formazione della mente e dei sentimenti” e pertanto la politica che
coltiva la povertà e l’ignoranza è malvagia e disumana.
La
narrazione degli avvenimenti è impreziosita da particolari che ne arricchiscono
la portata storica: sappiamo, ad esempio che Gerone II, tiranno di Siracusa,
era anche uomo d’affari che commissionò un enorme vascello che aveva a bordo
una palestra, una biblioteca, giardini pensili e 20 stalle per cavalli; sappiamo
che, non fossero venuti gli arabi a battezzarli così, non chiameremmo babbaluci le piccole lumache, giuggiulena il sesamo e cassata la cassata; che, nel 1231,
Federico II emanava leggi che tutelavano le donne, al punto che uno stupratore
era soggetto alla pena capitale, ed era vietato il matrimonio riparatore, bollato
come “antiqua consuetudine”, ben prima che, nel 1965, lo rifiutasse Franca Viola,
che volle scegliere lei chi sposare.
Da
segnalare infine le riflessioni sui movimenti contadini, protagonisti prima dei
Fasci Siciliani di fine ‘800 e delle lotte per la riforma agraria nel
dopoguerra; quelle sull’Autonomia regionale “edificata sotto il segno del
privilegio che corrompe le coscienze” e la trattazione approfondita dei rapporti tra mafia e politica: pagine
queste che confermano il valore del libro, tra le cui righe leggiamo, oltre che
la profonda competenza storica dell’autrice, la sua autentica passione civile. Maria
D’Asaro ("Centonove": 1 giugno 2012)
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