venerdì 24 giugno 2016

Filosofare in carcere

      In Filosofare in carcere (Diogene Multimedia, Bologna, 2016, €5) Augusto Cavadi ci racconta un’esperienza di filosofia in pratica nel carcere dell’Ucciardone di Palermo, esperienza resa possibile da un’idea di filosofia che, destrutturando lo schema usuale up e down vigente tra insegnante e alunno, viene intesa come dialogo e scambio paritetico tra un filosofo e uno o più interlocutori disposti a con-filosofare su tematiche di rilevanza esistenziale. Dunque una filosofia (…) come ricerca in comune di risposte a domande condivise. E così i filosofi Augusto Cavadi e Antonietta Spinosa, attraverso l’ASVOPE – Associazione di volontariato penitenziario – da gennaio a marzo 2015 hanno discusso con un gruppo di detenuti dell’amore, dell’amicizia, della fedeltà, della libertà, del codice mafioso. Ecco cosa ci dice a proposito il prof.Cavadi:

Augusto, il tuo racconto dell’esperienza di filosofia ‘pratica’ in un carcere di Palermo è piuttosto breve. Supponi che possa essere utile, per il lettore interessato,  qualche informazione di contesto?
Augusto Cavadi: Innanzitutto direi che, per capire gli interventi dei detenuti, sarebbe istruttivo conoscere un po’ la mentalità ‘media’ dei siciliani. La maggior parte dei partecipanti agli incontri è, infatti, nata e cresciuta nell’isola. Alcuni anni fa ho provato a tratteggiare il modo di pensare, alquanto contraddittorio, di noi siciliani nel libretto I siciliani spiegati ai turisti. Al di là di tutto, un detenuto ha comunque espresso così il senso degli incontri tra detenuti e filosofi volontari: l’arte di scambiarsi i pensieri sul senso della vita.
Purtroppo chi dice Sicilia non può non pensare, per associazione d’idee, alla mafia. Specie se – come nel caso dei detenuti dell’Ucciardone - si tratta di un’area sociale relativa alla criminalità …
A.: La cultura siciliana non è, ovviamente, tout court una cultura mafiosa: tuttavia non è neppure estranea alla formazione, al suo interno, tra altre visioni del mondo, di una mentalità mafiosa (che, secondo un’espressione del compianto magistrato Giovanni Falcone, è quasi un “precipitato” degli elementi peggiori della cultura siciliana). Per capire la differenza, pur con alcune preoccupanti affinità, fra il modo di intendere la vita del siciliano ‘medio’, da una parte, e del mafioso che aderisce formalmente a Cosa nostra, dall’altra, ho pubblicato due scritti: uno, molto breve e accessibile, La mafia spiegata ai turisti e un altro più impegnativo, Il Dio dei mafiosi.  Nonché un “pizzino della legalità” semiserio Come fare di mio figlio un uomo d’onore, che i detenuti hanno avuto la possibilità di leggere nel corso dei nostri incontri.
Ma ci spieghi come il carcere - un ambiente così particolare, ai margini della società -  può essere adatto all’esercizio della filosofia? 
A. : Innanzitutto premetterei che la proposta di sperimentare delle sessioni di filosofia-in-pratica con alcuni detenuti dell’Ucciardone mi è pervenuta da Franco Chinnici, presidente dell’Asvope, l’associazione di volontariato penitenziario che opera da molti anni a Palermo. Franco e gli amici dell’associazione intendono il volontariato non come mera “beneficenza”, ma come strategia di promozione umana (dei detenuti) e di stimolo critico nei confronti delle istituzioni (carcerarie): insomma lo intendono, e lo praticano, nella prospettiva di cittadinanza adulta su cui mi trovo totalmente d’accordo, in armonia con le riflessioni di vari studiosi e operatori. Senza questa premessa non si capisce il clima di fiducia, di rispetto e ascolto reciproco, in cui si è potuto realizzare l’esperimento.
E’ importante sottolineare che fare volontariato non è elargire beneficenza ma promuovere umanità, specie in un contesto carcerario. Ma, insisto, perché proprio attraverso la filosofia?
A.: Mi rendo conto che, in un Paese di tradizione storicistica come il nostro, chi sente pronunziare “filosofia” pensa subito alla “storia delle filosofie” elaborate dai Greci a oggi. Ma la filosofia per me è anche, anzi soprattutto, uso critico della ragione: in questo senso originario, radicale, forse potremmo dire socratico, ogni uomo e ogni donna ha il diritto/dovere di praticarla. Dunque il politico come il cittadino elettore; l’imprenditore come l’operaio; il magistrato come il detenuto … E’ quanto intendo mostrare con la mia attività di filosofo in pratica, finalizzata a dialogare e a confrontarmi innanzitutto con chi filosofo di professione non è, ma è alla ricerca di un senso nella sua vita individuale e negli accadimenti sociali e politici. Che succede quando a un gruppo di persone – con modestissimi livelli d’istruzione, storie di vita travagliate, scarsa educazione al confronto democratico – si propone di pensare con la propria testa e di parlare liberamente di ciò che vanno pensando? Come ha sottolineato nel libretto Maria Antonietta Spinosa, che ha condiviso con me gli incontri con i detenuti “filosofare assieme ai detenuti è valso il dono reciproco di attivare la rilettura critica della propria esperienza, muovendo dalla condizione più paradigmatica per il pensare: (…) le situazioni-limite, la situazione del limite.” In Filosofare in carcere - che ha l’onore di aprire una nuova collana della coraggiosa casa editrice bolognese Diogene Multimedia - ho voluto raccontare un esperimento di questo genere. Non è stato il primo (Giuseppe Ferraro ci ha preceduto in Italia) e, spero, non sarà neppure l’ultimo. Perché proprio la povertà estrema del carcere può aprire paradossalmente la possibilità di intuire per la prima volta il valore delle relazioni umane e di ripartire dalla propria fragilità come prospettiva per esplorare con coraggio se stessi e il mondo.                                                                                         
                                                                   Maria D’Asaro: "Centonove" n.25 del 23.6.2016, pag.34


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