J.Vermeer: Donna che scrive una lettera (1670) |
[…] Allora quando scrivevo quello che io chiamavo un romanzo, era un'epoca molto felice per me. Non era mai successo niente di grave nella mia vita, ignoravo e la malattia e il tradimento e la solitudine e la morte. Niente era mai crollato nella mia vita, se non delle cose futili, niente m'era stato strappato che fosse caro al mio cuore. […].
Allora ero felice in un modo pieno e tranquillo, senza paura e senz'ansia, e con una totale fiducia nella stabilità e nella consistenza della felicità nel mondo. Quando siamo felici, noi ci sentiamo più freddi, più lucidi e distaccati dalla nostra realtà. […]Riusciamo facilmente a fare dei personaggi, molti personaggi, fondamentalmente dissimili da noi e riusciamo a fare delle storie solidamente costruite e come prosciugate in una luce chiara e fredda. Quello che ci manca allora, quando siamo felici di quella particolare felicità senza lagrime, senz'ansia e senza paura, quello che ci manca allora è un rapporto intimo e tenero coi nostri personaggi, con i luoghi e le cose che raccontiamo. Quello che ci manca è la carità. […]
La nostra personale felicità o infelicità, la nostra condizione terrestre, ha una grande importanza nei confronti di quello che scriviamo. Ho detto prima che uno nel momento che scrive è miracolosamente spinto a ignorare le circostanze presenti della sua propria vita. Certo è così. Ma l'essere felici o infelici ci porta a scrivere in un modo o in un altro. Quando siamo felici la nostra fantasia ha più forza; quando siamo infelici, agisce allora più vivacemente la nostra memoria. La sofferenza rende la fantasia debole e pigra; essa si muove, ma svogliatamente e con languore, con i deboli moti dei malati, con la stanchezza e la cautela delle membra dolenti e febbricitanti; ci è difficile distogliere lo sguardo dalla nostra vita e dalla nostra anima, dalla sete e dall'inquietudine che ci pervade.
Nelle cose che scriviamo affiorano allora di continuo ricordi del nostro passato, la nostra propria voce risuona di continuo e non riusciamo ad imporle silenzio. Fra noi e i personaggi che allora inventiamo, che la nostra fantasia illanguidita riesce tuttavia a inventare, nasce un rapporto particolare, tenero e come materno, un rapporto caldo e umido di lagrime, d'un'intimità carnale e soffocante. Abbiamo radici profonde e dolenti in ogni essere e in ogni cosa del mondo, del mondo fattosi pieno di echi e di sussulti e di ombre, a cui ci lega una devota e appassionata pietà. Il nostro rischio è allora di naufragare in un buio lago d'acqua morta e stagnante, e trascinarvi con noi le creature del nostro pensiero, lasciarle perire con noi nel gorgo tiepido e buio, tra topi morti e fiori putrefatti.
C'è un pericolo nel dolore così come c'è un pericolo nella felicità, riguardo alle cose che scriviamo. Perché la bellezza poetica è un insieme di crudeltà, di superbia, d'ironia, di tenerezza carnale, di fantasia e di memoria, di chiarezza e d'oscurità e se non riusciamo a ottenere tutto questo insieme, il nostro risultato è povero, precario e scarsamente vitale.
Natalia e Leone Ginzburg |
E, badate, non è che uno possa sperare di consolarsi della sua tristezza scrivendo. Uno non può illudersi di farsi accarezzare e cullare dal suo proprio mestiere. Ci sono state nella mia vita delle interminabili domeniche desolate e deserte, in cui desideravo ardentemente scrivere qualche cosa per consolarmi della solitudine e della noia, per essere blandita e cullata da frasi e parole. Ma non c'è stato verso che mi riuscisse di scrivere un rigo. Il mio mestiere allora m'ha sempre respinta, non ha voluto saperne di me. Perché questo mestiere non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia. Questo mestiere è un padrone [...]. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lagrime e stringere i denti e asciugare il sangue delle nostre ferite e servirlo. Servirlo quando lui lo chiede. Allora anche ci aiuta a stare in piedi, a tenere i piedi ben fermi sulla terra, ci aiuta a vincere la follia e il delirio, la disperazione e la febbre. Ma vuol essere lui a comandare e si rifiuta sempre di darci retta quando abbiamo bisogno di lui.
M'è accaduto di conoscere bene il dolore dopo quel tempo che stavo nel sud, un dolore vero, irrimediabile e immedicabile, che ha spezzato tutta la mia vita e quando ho provato a rimetterla insieme in qualche modo, ho visto che io e la mia vita eravamo diventati qualcosa d'irriconoscibile rispetto a prima. D'immutato restava il mio mestiere […]
Così m'è successo a volte di pensare che non sono stata poi tanto disgraziata nella mia vita, e sono ingiusta quando accuso il destino e gli nego ogni benevolenza verso di me, perché m'ha dato tre figli e il mio mestiere. […]
Così m'è successo a volte di pensare che non sono stata poi tanto disgraziata nella mia vita, e sono ingiusta quando accuso il destino e gli nego ogni benevolenza verso di me, perché m'ha dato tre figli e il mio mestiere. […]
Natalia Ginzburg: Il mio mestiere, dal libro “Le piccole virtù”.
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