Berthe Morisot: Ragazza che scrive (1891) |
Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere. Quando mi metto a scrivere, mi sento straordinariamente a mio agio e mi muovo in un elemento che mi par di conoscere straordinariamente bene: adopero degli strumenti che mi sono noti e familiari e li sento ben fermi nelle mie mani.
Se faccio qualunque altra cosa, se studio una lingua straniera, se mi provo a imparare la storia o la geografia o la stenografia o se mi provo a parlare in pubblico o a lavorare a maglia o a viaggiare, soffro e mi chiedo di continuo come gli altri facciano queste stesse cose, mi pare sempre che ci debba essere un modo giusto di fare queste stesse cose che è noto agli altri e sconosciuto a me. […]
Questo è il mio mestiere, e io lo farò fino alla morte. Sono molto contenta di questo mestiere e non lo cambierei per niente al mondo. […]
Quando uno scrive un racconto, deve buttarci dentro tutto il meglio che possiede e che ha visto, tutto il meglio che ha raccolto nella sua vita. E i particolari si consumano, si logorano a portarseli intorno senza servirsene per molto tempo. Non soltanto i particolari ma tutto, tutte le trovate e le idee. In quell'epoca che scrivevo i miei racconti brevi, con il gusto dei personaggi ben trovati e dei particolari minuziosi, in quell'epoca ho visto una volta passare per strada un carretto con sopra uno specchio, un grande specchio dalla cornice dorata. Vi era riflesso il cielo verde della sera, e io mi son fermata a guardarlo mentre passava, con una grande felicità e il senso che avveniva qualcosa d'importante. Mi sentivo molto felice anche prima di vedere lo specchio, e a un tratto m'era sembrato che passasse l'immagine della mia felicità stessa, lo specchio verde e splendente nella sua cornice dorata. […]
E poi mi sono nati dei figli e io sul principio quando erano molto piccoli non riuscivo a capire come si facesse a scrivere avendo dei figli. Non capivo come avrei fatto a separarmi da loro per inseguire un tale in un racconto. M'ero messa a disprezzare il mio mestiere. Ne avevo una disperata nostalgia ogni tanto, mi sentivo in esilio, ma mi sforzavo di disprezzarlo e deriderlo per occuparmi solo dei bambini. Credevo di dover fare così. Mi occupavo della crema di riso e della crema d'orzo e se c'era sole o se non c'era sole e se c'era vento o se non c'era vento per portare i bambini a passeggio. I bambini mi parevano una cosa troppo importante perché ci si potesse perdere dietro a delle stupide storie, stupidi personaggi imbalsamati.
Ma avevo una feroce nostalgia e qualche volta di notte mi veniva quasi da piangere a ricordare com'era bello il mio mestiere. Pensavo che l'avrei ritrovato un giorno o l'altro, ma non sapevo quando: pensavo che avrei dovuto aspettare che i miei figli diventassero uomini e andassero via da me. Perché quello che avevo allora per i miei figli era un sentimento che non avevo ancora imparato a dominare. Ma poi ho imparato a poco a poco. Non ci ho messo neppure tanto tempo. Preparavo ancora il sugo di pomodoro e il semolino, ma pensavo intanto a delle cose da scrivere.
Ma avevo una feroce nostalgia e qualche volta di notte mi veniva quasi da piangere a ricordare com'era bello il mio mestiere. Pensavo che l'avrei ritrovato un giorno o l'altro, ma non sapevo quando: pensavo che avrei dovuto aspettare che i miei figli diventassero uomini e andassero via da me. Perché quello che avevo allora per i miei figli era un sentimento che non avevo ancora imparato a dominare. Ma poi ho imparato a poco a poco. Non ci ho messo neppure tanto tempo. Preparavo ancora il sugo di pomodoro e il semolino, ma pensavo intanto a delle cose da scrivere.
Stavamo allora in un paese molto bello, nel sud.
Ricordavo le strade della mia città e le colline, e quelle strade e quelle colline si univano alle strade e alle colline e ai campi del paese dove stavamo adesso, e ne nasceva una natura nuova, qualcosa che io di nuovo potevo amare.
Avevo nostalgia della mia città, e l'amavo molto nel ricordo, l'amavo e ne capivo il senso come forse non m'era mai accaduto quando ci abitavo, e amavo anche il paese dove stavamo adesso, un paese polveroso e bianco nel sole del sud, larghi prati d'erba ispida e arsa si stendevano sotto le mie finestre, e mi soffiava forte in cuore il ricordo dei viali della mia città, dei platani e delle alte case, e tutto questo prendeva a bruciare lietamente dentro di me, e avevo molta molta voglia di scrivere. Ho scritto un racconto lungo, il più lungo che avessi mai scritto.
Ricominciavo a scrivere come uno che non ha scritto mai, perché era già tanto tempo che non scrivevo, e le parole erano come lavate e fresche, tutto era di nuovo come intatto e pieno di sapore e di odore. Scrivevo nel pomeriggio, quando i miei bambini erano a spasso con una ragazza del paese, scrivevo con avidità e con gioia, ed era un bellissimo autunno e mi sentivo ogni giorno così felice. […]
Ricominciavo a scrivere come uno che non ha scritto mai, perché era già tanto tempo che non scrivevo, e le parole erano come lavate e fresche, tutto era di nuovo come intatto e pieno di sapore e di odore. Scrivevo nel pomeriggio, quando i miei bambini erano a spasso con una ragazza del paese, scrivevo con avidità e con gioia, ed era un bellissimo autunno e mi sentivo ogni giorno così felice. […]
Natalia Ginzburg: Il mio mestiere, dal libro “Le piccole virtù”.
Stupenda la chiusa di questo brano. In particolare: "le parole lavate e fresche"; "scrivevo con avidità e con gioia"
RispondiEliminaE poi bella l'idea del "mestiere" come desiderio, come vocazione scoperta e assaporata nello stare a proprio agio, nel sentire la padronanza data dall'aver trovato il "modo giusto di fare" determinate cose.
Un caro saluto.
@Rossana: confesso di essere innamorata di Natalia Ginzburg, del suo mondo interiore e del suo modo di esprimersi. Ricambio cari saluti.
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