giovedì 29 aprile 2021

110 volte bravo...

Luciano Mariscalco

 

Laurea magistrale in Ingegneria Informatica, 

Politecnico di Milano

martedì 27 aprile 2021

Salvi

H.Matisse: Pesci rossi (1912)
      Nostra signora lo aveva intuito: dalle serrande stranamente abbassate, dall’assenza dei figli e delle amate nipotine, dal troppo silenzio. I vicini di casa non stavano bene. 
    Provava una stretta al cuore: poteva fare qualcosa? Era tentata di offrirsi in aiuto, ma poi si era frenata: avrebbe provocato solo imbarazzo e disagio. Ora, non le restava che guardare i segnali di quella casa adesso così triste e muta: c’erano signori che ritiravano l’immondizia e qualcuno, figlio o genero, che portava viveri, sostegno e conforto, oltre l’uscio. 
    Finché, una mattina, una serranda fu alzata prima e più del solito: sui fili della biancheria danzarono lieti tanti panni colorati. Si udì la voce di un figlio: si indovinarono buone notizie, frammiste a echi di parole distese. Finalmente fu visto di nuovo il vicino, oltre il portone.  
    Nostra signora era lieta. E guarda quelle serrande ormai deste accogliere il sole tiepido della nuova primavera.



Maria D'Asaro

domenica 25 aprile 2021

Sophie Scholl e la sua “Rosa bianca” contro il nazismo

      Palermo – Per i ‘Millennials’ e ancor di più per la Generazione Z, i ragazzi nati tra la fine degli anni ’90 e i primi 12 del nuovo millennio, la ricorrenza del 25 aprile potrebbe essere quasi insignificante: c’è il rischio che il giorno della liberazione dalle dittature naziste e fasciste e della fine della seconda guerra mondiale sia festeggiato ormai solo dagli studiosi di Storia e dai pochi sopravvissuti di quel triste periodo.
    Ѐ necessario perciò che la Scuola, e chiunque abbia un ruolo formativo e/o informativo, ricordi soprattutto ai più giovani come può essere violenta, inumana e feroce una dittatura. 
     Il tributo della memoria va a uno dei pochissimi gruppi di opposizione interna al nazismo: quello della ‘Rosa Bianca’, composto solo da cinque studenti poco più che ventenni: Hans Scholl e la sorella Sophie, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf, protagonisti di azioni di resistenza tra il giugno 1942 e il febbraio 1943, a Monaco di Baviera, dove frequentavano l’Università. A loro si unì in seguito anche un professore, Kurt Huber. Il gruppo traeva forza e ispirazione dai principi cristiani (dei cinque studenti uno era ortodosso, gli altri protestanti o cattolici) e si opponeva alla dittatura nazista in nome dei principi cristiani di giustizia e di tolleranza che avrebbero dovuto ispirare un’Europa federale.
       L’opposizione della ‘Rosa bianca’ si concretizzò nella distribuzione in luoghi pubblici di volantini – in tutto sei gli opuscoli diffusi - con lo scopo di risvegliare la coscienza dei tedeschi e incitarli a una resistenza nonviolenta contro il regime nazista. Ecco alcune parole del primo opuscolo: «Fate resistenza passiva, resistenza ovunque vi troviate; impedite che quest’atea macchina da guerra continui a funzionare, prima che le città diventino un cumulo di macerie…». La propaganda clandestina contro il regime di Hitler fu scoperta il 18 febbraio 1943: mentre spargeva dalle scale dell'atrio dell'università alcuni volantini sugli studenti sottostanti, Sophie Scholl venne individuata da un bidello, che la consegnò assieme al fratello alla polizia. Gli altri membri del gruppo vennero subito fermati e sottoposti a interrogatorio dalla Gestapo. Gli Scholl, sperando invano di proteggere i compagni, si assunsero la piena responsabilità degli scritti. I funzionari che li interrogarono rimasero stupiti per il coraggio e la determinazione dei due giovani. La Gestapo torturò Sophie Scholl per quattro giorni, dal 18 al 21 febbraio 1943. Hans e Sophie, insieme a Christoph Probst furono i primi a essere processati, il 22 febbraio. Nel corso di un breve dibattimento, furono giudicati colpevoli e ghigliottinati il giorno stesso. Gli altri membri del gruppo, processati il 19 aprile 1943, furono anch'essi dichiarati colpevoli e decapitati nei mesi successivi.
     Unica donna del gruppo, chi era Sophie? Che cosa fece di lei una martire della resistenza al nazismo? Sophie, nata il 9 maggio 1921, era la quarta di sei fratelli. Visse un’infanzia serena e spensierata. Venne educata ai principi della chiesa luterana, poiché la madre Magdalena, era stata diaconessa, insieme a quelli cattolici, perché suo padre - Robert Scholl, sindaco di Forchtenberg, la città natale di Sophie - era un liberale cattolico. 
     La sua formazione personale e religiosa la portò a rifiutare il credo hitleriano e, con gli amici ed il fratello maggiore Hans, si avvicinò sempre più all'insegnamento evangelico, traendone spunto e alimento per una ferma opposizione alle idee e alla prassi del nazismo. Molto legata ad Hans, con lui e gli altri giovani universitari diede vita al gruppo della “Rosa bianca”, che preparò e distribuì centinaia di copie di volantini in modi diversi: spedendoli a indirizzi scelti casualmente, lasciandoli alle fermate dei mezzi pubblici o nelle cabine telefoniche. Il loro tentativo voleva indurre chi leggeva ad obbedire ad una legge morale superiore e a rifiutare il militarismo nazista. 
     Quando fu arrestata diede prova di una forza d’animo straordinaria. Andò al patibolo con una gamba rotta e con le tracce delle pesanti percosse e torture subite in carcere. Non aveva neppure compiuto 22 anni. Le sue ultime parole furono: «Come possiamo aspettarci che la giustizia prevalga quando non c'è quasi nessuno disposto a dare sé stesso individualmente per una giusta causa? È una giornata di sole così bella, e devo andare, ma che importa la mia morte, se attraverso di noi migliaia di persone sono risvegliate e suscitate all'azione?».
    Vogliamo ricordare Sophie, con alcune sue frasi: “Una morte orrenda è preferibile ad un orrore senza fine.” “Combatti per ciò in cui credi anche se stai lottando da solo/a.” E, infine, con questo suo bellissimo auspicio: che ciascuno possa avere “Uno spirito forte, un cuore tenero”.

Maria D'Asaro, 25 aprile 2021, il Punto Quotidiano

venerdì 23 aprile 2021

Democrazia Cristiana: fu vera gloria?

         Se si ha il privilegio di ricevere da un’amica speciale il testo Democrazia cristiana. Il racconto di un partito (Sellerio, Palermo, 2019, €16) scritto dall’ex democristiano Marco Follini, lo si legge con particolare attenzione. 
     Perché l’amica - figlia di un esponente di rilievo del partito, già Presidente della Regione siciliana e più volte Ministro della Repubblica - ha impreziosito il dono con la dedica “Con affetto e nel ricordo di un passato... comune” (comune in quanto anche mio padre è stato militante democristiano, Sindaco di un paesino della Sicilia).
     Si può capire quindi che, nello scorrere le 234 pagine, la scrivente sia stata mossa da interesse autentico, con aspettative precise. Che, purtroppo, sono state in parte deluse. Intanto, perché ci si aspettava un’analisi un po' più approfondita del contesto storico in cui - dal 1943 all’inizio del 1994, quindi per più di mezzo secolo - ha operato la Democrazia Cristiana; contesto che ne ha determinato le scelte politiche e strategiche e condizionato i comportamenti individuali. E invece, da questo punto di vista, si rimane piuttosto insoddisfatti, in quanto, rispetto ad alcuni eventi storici cruciali, il saggio si limita a pizzicare superficialmente qualche corda di riflessione. 
    In particolare, su alcuni aspetti storici e fatti concreti, si avverte una certa reticenza, una sorta di peccato di omissione: ad esempio, sul ruolo ingombrante della Dc siciliana. Anche se, a parziale discolpa dell’autore, è possibile abbia giocato la sua distanza fisica dall’isola. Forse, per un non siciliano, “abitare” la Dc a Roma, seppure da responsabile del settore giovanile e poi da parlamentare, sarà stato assai diverso che vivere nello stesso partito dall’interno della Sicilia. 
       Sarà forse per questo che, nei dodici capitoli che prendono il nome dagli aggettivi con cui di volta in volta è definita la DC, non ce ne sia uno dedicato ai rapporti con la mafia? Eppure, la presenza nel partito di esponenti di rilievo come Salvo Lima e Vito Ciancimino, l’omicidio di Michele Reina nel 1979, il suicidio misterioso di Rosario Nicoletti nel 1984, l’uccisione del sindaco di Palermo, Giuseppe Insalaco, nel 1988, l’eclatante assassinio del Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella il 6 gennaio 1980, le posizioni dell’allora democristiano Leoluca Orlando, sindaco di rottura con la “primavera di Palermo”… tutto questo e altro ancora avrebbero richiesto quasi d’ufficio uno spazio, se non un intero capitolo, dal titolo “Il partito e la mafia”. 
      A proposito dei titoli dei capitoli, alcuni non sono parsi del tutto calzanti: può essere definito “impersonale” un partito con esponenti del calibro di De Gasperi, Fanfani, Andreotti, Moro? Forse sarebbe stato più pertinente titolare “Il partito plurale”.  E poi, visti i contenuti trattati, anziché “Il partito quotidiano” era forse più appropriato “Il partito dei compromessi”. Anche il decimo capitolo si sarebbe potuto battezzare diversamente, spezzando una lancia a favore della Balena bianca e definendo qui la DC “Il partito anti-populista”, anziché “Il partito impolitico”. Infatti, qui si sottolinea: “Il nostro impegno era volto contro l’eccesso, e insieme contro il difetto, della politica”: “Il merito di noi democristiani fu insomma di non esagerare con la politica e insieme di non civettare – quasi mai – con l’antipolitica”. “La nostra idea di politica non concedeva nulla alle suggestioni di una «deriva plebiscitaria”.
      Si rimane poi perplessi riguardo alla pagina cruciale della storia italiana relativa al rapimento e assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Appare incomprensibile e spiazzante il sostanziale silenzio sul ruolo della Democrazia Cristiana in quel terribile frangente. Colpisce inoltre l’uso di un verbo, a pag.75, riferito a Moro: “Quando morì…”. Il Presidente della Democrazia cristiana morì, è vero, quel tragico 9 maggio 1978. Ma non di morte naturale. Avremmo voluto leggere: “Quando fu assassinato”. Eccesso di pignoleria sull’uso delle parole?  Forse. Ma “Le parole sono pietre”.
    A questo proposito, se si effettuasse un’analisi semantico/lessicale del libro col metodo delle cosiddette ‘occorrenze linguistiche’, sarebbe interessante vedere quanti e quali sostantivi e aggettivi siano stati più utilizzati. Forse un’analisi del genere evidenzierebbe la sostanza complessiva del libro: pennellate di ‘colore’ al quadro maestoso della Balena bianca, senza un tratto deciso. Letto in quest’ottica “impressionista”, del testo si apprezzano le tonalità espressive ‘lievi’ e garbate. 
      Ѐ corretto comunque sottolineare che, qua e là, compaiono anche notazioni di spessore, interessanti e condivisibili. Eccone di seguito alcune: “La Dc aveva una singolare capacità di attrarre sotto le sue bandiere un voto, diciamo così, non democristiano. Espresso di volta in volta da un elettorato che sembrava non conoscere né la dottrina né i programmi del partito, ma che tuttavia finiva per rispecchiarsi proprio in questo profilo più basso con cui noi democristiani ci presentavamo a loro”.
E poi: “Moro aveva compreso che se il comunismo era il nemico evidente, indiscutibile […] un nemico degno di un grande partito come la Dc, la destra era invece il demone interiore, il cancro segreto […]. La Dc era nata in opposizione al fascismo e quella distanza apparteneva alla sua natura […]. Si poteva essere moderati. Conservatori proprio no. Tantomeno reazionari.” 
       Ancora, dal capitolo ‘Il partito incompiuto’, forse uno dei migliori: “Il fatto è che il primato democristiano, alla metà del secolo, fu la ghigliottina che tagliò di netto tutte le ideologie del novecento: il liberalismo, il socialismo, il fascismo, il comunismo. […] Certo, nel prendere noi il posto che ognuno di loro rivendicava per sé avevamo finito per fare nostre alcune delle loro ragioni. […] In definitiva, si può dire che la Dc sia stata un controverso tentativo di unificazione politica e civile del paese”.
       E infine: “La caduta del muro di Berlino archiviò nel 1989 il lungo dopoguerra e certificò le nostre ragioni. Ma la gran parte dei calcinacci caddero paradossalmente dalla nostra parte. I nostri meriti finirono per diventare meno attuali. […] L’indulgenza che ci aveva accompagnato per tutti quegli anni ci veniva sottratta proprio quando pensavamo di avervi più diritto.”

Maria D’Asaro

mercoledì 21 aprile 2021

Partenze

Echi


Di allegria arcobaleno


Nel silenzio asettico


Di una stanza vuota.


Partenze.


lunedì 19 aprile 2021

Palermo chiama Italia: gemellaggio per educare alla legalità


Proposta di gemellaggio (virtuale/reale) per gli insegnanti di tutta Italia (da qui)
 


             In un racconto per adolescenti (dai 10 ai 15 anni), dal titolo Cos’è la mafia? Tre giovani in cerca di risposte (illustrazioni di Roberta Santi, edizioni Bukbuk, Trapani 2020, pp. 112, euro 12,90),  Adriana Saieva immagina che una ragazza di Palermo entri in corrispondenza via e-mail con una coetanea di Torino e che, dopo mesi di scambi, la ragazza piemontese ottenga il permesso dai genitori di recarsi nei mesi estivi in Sicilia.
      Perché non realizzare, effettivamente, dei gemellaggi fra classi palermitane e classi di altre località italiane, prevedendo che gli ospiti possano – nell’ambito del “No mafia memorial” – sperimentare varie attività di educazione alla cittadinanza consapevole, alla legalità democratica e al contrasto alla criminalità organizzata? 
 
Di questo progetto si parlerà martedì 20 aprile 2021 , dalle ore 16.30 alle ore 18.30, in una video-conferenza riservata ai docenti italiani di ogni ordine e grado di scuola.
 
 
NOTE TECNICHE:

·     Per ricevere il link di accesso  inviare una e-mail a: formazione@nomafiamemorial.org

Il libro (Cos’è la mafia? Tre giovani in cerca di risposte) è disponibile in tutte le librerie on line e nelle migliori librerie ‘fisiche’. A Palermo lo troverete senz’altro presso Spazio Cultura di Macaione (via Marchese di Villabianca), Maurizio Zacco (corso Vittorio Emanuele II) e Pasquale Arcoleo (via papa Sergio all’Arenella, di fronte alla scuola “Luigi Rizzo”).

domenica 18 aprile 2021

Data journalism: ecco la nuova frontiera dell’informazione

      Palermo – Un cronista, per fare bene il suo mestiere, deve districarsi anche tra i numeri, la statistica e i metodi della ricerca sociale. Lo aveva capito già nel 1969 Philip Meyer, il giornalista statunitense che, proprio per questo, andò a studiare ad Harvard sociologia, statistica e i metodi della ricerca psicosociologica. 
      A conclusione degli studi, Meyer scrisse un saggio di successo: Precision Journalism; nel libro, che già contemplava l'utilizzo dei computer e delle analisi dei dati, l’autore sosteneva appunto che il giornalista del futuro, per fornire ai lettori un buon servizio, non potrà limitarsi a una ‘buona narrazione’ della notizia, ma dovrà possedere anche la competenza necessaria per raccogliere e analizzare i dati relativi all’avvenimento di cui si occupa.
     A consacrare negli USA la diffusione e il riconoscimento del ‘giornalismo di precisione’ furono due inchieste, premiate con il Premio Pulitzer nel 1989 e nel 1993. La prima, "Il colore dei soldi", opera di Bill Dedman, dimostrò che ad Atlanta, capitale della Georgia, gli istituti di credito preferivano concedere prestiti ai poveri indigenti bianchi, più che ai neri dei quartieri della ‘middle-class’ o anche più ricchi, evidenziando la pregiudiziale razziale delle banche.
    La seconda, "What Went Wrong" (“Cosa è andato storto”), fu effettuata da Stephen Doig per il Miami Herald, e si occupò dei danni causati dall'uragano “Andrew”, abbattutosi su Miami nel 1992. Doig riuscì a dimostrare che, più della forza dell'uragano - che gli aveva portato via metà del tetto della sua casa, nonostante fosse abbastanza nuova - a distruggere le abitazioni cittadine era stata la corruzione nell'edilizia. L’inchiesta di Doig venne effettuata mettendo in connessione quattro serie di dati: i rapporti di 50.000 accertamenti sui danni provocati dall'uragano; il ruolo delle imposte patrimoniali del 1992, con informazioni dettagliate sulle caratteristiche delle abitazioni; il catasto della contea, con dati sul tipo di costruzione e sui materiali usati per ciascun edificio; infine, i dati della contea riguardanti le aree edificabili, con le licenze edilizie e le ispezioni negli anni precedenti. Un diagramma riassuntivo includeva anche la velocità del vento, evidenziando che nelle aree con venti più lievi, da 130 a 200 km all'ora, le case costruite dopo il 1979, le più nuove, avevano una probabilità tre volte maggiore di rimanere inagibili rispetto a quelle costruite prima. Doig dimostrò così che la corruzione che si era creata nell'edilizia urbana, che aveva modificato i regolamenti edilizi, aveva consentito di costruire case meno sicure, più fragili sotto la forza di un uragano. 
   L’inchiesta di Doig è diventata la dimostrazione evidente del ruolo di servizio pubblico di un certo tipo di giornalismo.
   Oggi al termine  ‘giornalismo di precisione’ si preferisce quello di ‘data journalism’ o giornalismo dei dati, che indica inchieste e articoli realizzati servendosi degli strumenti della matematica, della statistica, delle scienze sociali e comportamentali, nonché dell’utilizzo dei fogli di calcolo, del confronto di vari documenti, della rappresentazione grafica e dell’interpretazione dei dati, della realizzazione di sondaggi. 
   Tale approccio non può prescindere dal libero accesso alle banche dati di enti e pubbliche amministrazioni. Negli ultimi anni, è in corso una vera e propria battaglia civile per  l’accesso ai ‘dati aperti’, noti ormai come ‘open data’: termine che indica il flusso di dati accessibili a tutti, con l’unica restrizione dell’obbligo di citare la fonte o di mantenere la banca dati sempre aperta.
   I dati – lo si è visto chiaramente nel corso dell’attuale pandemia – sono parte fondamentale dell’informazione. Anche in Italia, con la normativa FOIA (Freedom of Information Act), introdotta con D.l. 97/2016, dopo la riforma della pubblica amministrazione sancita dalla legge n.124 del 7.8.2015, l’ordinamento giuridico riconosce come diritto fondamentale la libertà di accedere alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni. Il principio guida è la tutela dell’interesse conoscitivo di tutti i soggetti della società civile. In assenza di ostacoli riconducibili ai limiti di legge, le amministrazioni devono garantire il diritto di tutti di accedere alle informazioni della pubblica amministrazione: giornalisti, imprese, cittadini possono richiedere dati e documenti, per svolgere un ruolo di controllo. La norma dovrebbe anche favorire una maggiore trasparenza nel rapporto tra le istituzioni e la società civile, incoraggiando un dibattito pubblico su temi di interesse collettivo. 
    L’accesso civico generalizzato ai dati è però ancora parziale. Ѐ attiva da tempo nel nostro Paese la campagna #datiBeneComune con lo scopo di favorire e supportare la trasparenza come prassi diffusa, specie nell’amministrazione pubblica, e gli ‘open data’ come principale strumento per attuarla.
     In Sicilia in particolare - anche a seguito delle recenti indagini giudiziarie sulla falsificazione dei dati sui contagi Covid-19, che hanno portato all’arresto di tre funzionari della Regione Siciliana e all’apertura di un’indagine a carico dell’Assessore alla Salute, poi dimessosi - la comunità ‘Open Data Sicilia’ ha scritto un appello affinché i dati relativi all’emergenza pandemica siano resi disponibili subito e a tutti. Eccone un passaggio, con la significativa conclusione: “Open Data Sicilia chiede che venga reso noto l’intero processo di pubblicazione dei dati sanitari COVID-19, ovvero l’insieme dei meccanismi e protocolli utilizzati all’interno del proprio modello organizzativo per tutti gli aspetti legati alla raccolta, produzione, trattamento, aggiornamento e rilascio dei dati online. La trasparenza del ciclo di vita del dato, condizione che consente a cittadine/i di misurare e valutare l’attività amministrativa (…), è il presupposto essenziale di una democrazia moderna”.

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 18.4.21

sabato 17 aprile 2021

Le emozioni, compagne di viaggio...

V.Kandinsskij: Primo acquerello astratto (1910)
     Ѐ solo riconoscendo le vostre emozioni che potrete essere consapevoli, in quanto organismo biologico, sia delle cose che dovete affrontare nel vostro ambiente, sia delle particolari possibilità che ora vi si offrono.
      Solo riconoscendo il vostro desiderio nei confronti di qualcuno o qualcosa – quindi dopo aver dato una valutazione dell’intensità dell’impulso che vi spinge verso di essi nonostante la difficoltà e la lunghezza della strada che dovete percorrere – sarete in grado di orientarvi verso l’azione più adatta allo scopo.
    Ed è soltanto attraverso l’accettazione e il riconoscimento del vostro dolore – della vostra disperazione, della consapevolezza di non avere nessuno a cui rivolgervi quando vi trovate ad affrontare la perdita di qualcuno o di qualcosa che ha contato molto per voi – che riuscirete a piangervi e a separarvi da quanto vi è stato caro.
Ancora, solo riconoscendo e accettando la vostra ira, rendendovi conto della posizione aggressiva assunta dal vostro corpo nei confronti di quanto ha su di voi un effetto frustrante, potrete sfruttare la vostra energia in maniera così efficace da superare tutti gli ostacoli che incontrerete sulla vostra strada.

Perls, Hefferline,Goodman: Teoria e pratica della Terapia della Gestalt 
(Vitalità e accrescimento della personalià umana) Astrolabio, Roma, 1997, pagg.372

giovedì 15 aprile 2021

Ciao, Vittorio. Restiamo umani.

      “Un bel giorno, diversi anni fa, riuscì ad entrare un italiano nella striscia di Gaza. Appena lo si guardava non si poteva non provare fiducia, speranza.
    Non era un attivista qualunque, non era l’eroe, non era il sensibile in fase di ricerca e basta. Era l’attivista forte, sensibile, tenace, coraggioso, che non temeva Israele, ma anzi faceva paura ad Israele. In pochi anni quest’attivista, insieme al Free Gaza Movement, alla Freedom Flotilla, hanno reso nota la situazione del popolo palestinese molto più di quanto si fosse fatto in anni e anni di chiacchiera (…).
    Era la costanza, il carisma, la concretezza, il modo di porsi, la dote innata alla comunicazione, all’arrivare a spaccare qualsiasi muro. Se ci fosse un grafico in grado di dimostrare la crescita del livello di speranza palestinese in quegli anni, negli anni in cui quell’uomo decise di rimanere insieme a pochi internazionali in condizioni disumane in questa striscia di terra e farne la sua casa, il grafico mostrerebbe un picco che uscirebbe fuori dai contorni.  Nonostante la distruzione di Piombo fuso, nonostante le ferite a morte nei cuori, nonostante la disperazione, ci si desiderava con un desiderio assurdo di confrontarsi con le iniziative, i pensieri, i sogni di quest’uomo che trascinava un popolo intero, che liberava dalla rassegnazione.
     Non esistevano più nemici esterni come Israele, ed interni come Hamas e Fatah che potessero impedire ai giovani palestinesi di sognare. L’Utopia era approdata a Gaza, l’Utopia aveva contagiato ogni cuore e non dimorava nelle anime solo come un sogno di qualche ora…
    Quell’Utopia era così forte da convincerci che i sogni che avevamo dentro fossero il mondo reale. E che ciò che era fuori, i soldati, il razzismo, i diritti violati, fossero un’alterazione della realtà che con la nostra determinazione potevano essere vinti.”

Faiza Jasmine, Palestina, aprile 2012

   “Nel punto più estremo del porto di Gaza City i pescatori hanno affisso una bandiera con Handala, il fumetto simbolo della causa palestinese, che tiene per mano Vittorio: - Qui sono e qui faccio quello che ho sempre sognato – mi aveva confidato sotto il cielo di Gaza. Utopia che diventa realtà. Battersi per i diritti dei palestinesi rischiando ogni giorno, come loro, la vita. Nei campi con i contadini, in mare con i pescatori, nelle ambulanze sotto le bombe.  Perché Vittorio aveva deciso di vivere come un palestinese, non abbandonando Gaza nemmeno durante “Piombo fuso” e forse, chissà, per tutta la vita”.
Anna Maria Selini, regista di Vik Utopia. L’omicidio di Vittorio Arrigoni

Vittorio Arrigoni detto Vik (Besana in Brianza, 4/2/1975 – Gaza, 15/4/2011) è stato un attivista, giornalista e scrittore italiano. Sostenitore della soluzione binazionale come strumento di risoluzione del conflitto israeliano-palestinese, nonché pacifista, si era trasferito nella Striscia di Gaza per agire contro quella che definiva pulizia etnica dello Stato di Israele nei confronti della popolazione araba palestinese. La sera del 14/4/ 2011 venne rapito da un gruppo terrorista, dichiaratosi afferente all'area jihādista salafita, all'uscita dalla palestra di Gaza nella quale era solito recarsi. Il giorno dopo il corpo senza vita di Arrigoni fu rinvenuto dalle Brigate Ezzedin al-Qassam nel corso di un blitz in un'abitazione di Gaza; secondo le forze di sicurezza di Hamas, la morte sarebbe avvenuta nella notte tra il 14 e il 15 aprile per strangolamento.

Sua madre ne ha scritto una stupenda biografia:
Egidia Beretta Arrigoni, Il viaggio di Vittorio, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2012

martedì 13 aprile 2021

Mi emoziono... dunque sono

V. Kandinskij: Giallo,rosso,blu (1925)
    L’emozione è un processo continuo, nel senso che ogni momento della vita di un individuo è fatto in certa misura di sentimenti di piacere e di dispiacere. 
    Tuttavia, dal momento che nell’uomo moderno questa continuità dell’esperienza emotiva viene regolarmente eliminata dall’area della consapevolezza, l’emozione viene a sua volta generalmente considerata come una sorta di turbamento periodico (…). Noi temiamo questo tipo di manifestazioni che definiamo ‘irrazionali’, per cui tendiamo a stare in guardia nei loro confronti. E ogni qualvolta che è in nostro potere, evitiamo di creare delle situazioni nelle quali potremmo reagire in maniera così emotiva.
    Quasi tutti coloro che compiono studi sul comportamento, anche se si dichiarano d’accordo nell’affermare che il termine ‘emozione’ dovrebbe essere utilizzato per indicare solo una serie di manifestazioni particolarmente esplosive, sono d’altra parte perfettamente a conoscenza di certuni fenomeni estremamente simili anche se meno violenti. Questi ultimi vengono generalmente indicati come ‘sentimenti’. (…) Noi riteniamo che questo tipo di pratica riesca solo a scindere in due una cosa che, al contrario, è sostanzialmente unitaria e continua.
    A determinare la posizione di una particolare esperienza emotiva nel complesso di questa continuità è la misura in cui l’interesse dell’individuo a sperimentare la ‘gestalt’ organismo/ambiente è emerso dallo sfondo per entrare nella figura.
    L’emozione, in quanto esperienza valutativa diretta del campo organismo/ambiente, non si serve della mediazione dei pensieri o dei giudizi verbali, ed è quindi di natura immediata. In questo senso, essa è fondamentale per regolare qualsiasi tipo di azione, giacché non solo è alla base della consapevolezza di quali siano le cose importanti, ma anche perché carica di energia l’azione opportuna, o – se tale azione non è possibile - stimola e dirige la sua ricerca.
    Nella sua forma primitiva e non differenziata, l’emozione è semplicemente l’eccitazione, cioè l’intensificarsi dell’attività metabolica e l’aumentare dello scambio di energia, che rappresentano la risposta dell’organismo al verificarsi di situazioni nuove o stimolanti.
     Nel neonato, questa risposta è massiccia e non indirizzata. In seguito, man mano che il bambino giunge ad una graduale differenziazione delle parti di cui si compone il suo mondo (…) diventa a poco a poco capace di differenziare questa prima eccitazione globale dalle varie eccitazioni relative alle diverse situazioni. Queste ultime vengono in seguito definite come emozioni specifiche.
    Le emozioni in se stesse non sono vaghe né confuse: esse sono, al contrario, altrettanto differenziate sia riguardo alla struttura che alla funzione, quanto lo è l’individuo che le sperimenta. Se le emozioni di una persona sono rozze e confuse, altrettanto rozza e confusa è la persona stessa. Il che indica che le emozioni in sé non sono qualcosa di cui ci si deve sbarazzare sulla base di false imputazioni, secondo le quali esse costituirebbero un ostacolo per un chiaro svolgimento del pensiero e dell’azione.
    Al contrario, esse sono di fondamentale importanza, in primo luogo perché regolano l’energia nel campo organismo/ambiente, e secondariamente per il fatto che in quanto mezzi unici di esperienza non possono essere sostituiti; le emozioni sono il mezzo attraverso cui noi diventiamo consapevoli dei nostri interessi, cioè, in ultima analisi, di cosa siamo e di cosa sia il mondo.”

Perls, Hefferline,Goodman: Teoria e pratica della Terapia della Gestalt 
(Vitalità e accrescimento della personalià umana) Astrolabio, Roma, 1997, pagg.368,369


domenica 11 aprile 2021

Jurij Gagarin, un mito nella conquista dello spazio

       Palermo – Sessant’anni fa era appena all’inizio la gara tra USA e URSS per la conquista dello spazio; gara vinta poi dagli Stati Uniti d’America che arrivarono sulla Luna il 21 luglio 1969. 
      Ma il 12 aprile del 1961 bastarono 108 minuti di volo nell’orbita terrestre a consegnare alla Storia il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin e a decretare il momentaneo trionfo del programma spaziale dell’URSS. Il volo di Gagarin, a bordo della navicella Vostok 1, ebbe inizio alle ore 9.07 di Mosca. Separatosi con successo dai razzi propulsori, il veicolo spaziale effettuò un’orbita ellittica completa attorno alla Terra alla velocità di 27.400 km/h, e raggiunse l’altezza massima di 302 km. Completata l’orbita, entrarono in azione i retrorazzi per rallentarne la corsa e consentirne il rientro; a circa 7.000 metri da terra, Gagarin venne espulso dall'abitacolo e paracadutato a terra. Il volo terminò alle 10:55, ora di Mosca, in un campo a sud della città di Engel’s. 
      Un documento ufficiale dice che Jurij Gagarin venne scelto tra una rosa ristretta di 20 candidati “per la sua perseveranza nel programma di allenamento, per le sue reazioni rapide, per la memoria fantastica, per il suo senso acuto e la profonda attenzione all’ambiente, per la sua eccellenza nella matematica superiore e nella gestione della meccanica celeste; perché sa difendere il suo punto di vista, se lo ritiene giusto, e sembra che capisca la vita meglio di molti suoi amici”. E poi il suo fisico aveva le caratteristiche richieste per il piccolo abitacolo della Vostok 1: solo m.1,57 di altezza…
     Il 14 aprile 1961, due giorni dopo il rientro dallo spazio, Gagarin venne onorato con una parata a cui parteciparono milioni di persone, parata che si concluse nella Piazza Rossa. Al Cremlino gli fu quindi conferito da Krusciov il titolo di  Eroe dell'Unione Sovietica, la maggiore onorificenza del Paese. In seguito Gagarin continuò a lavorare nella “Città delle Stelle”, a 32 km da Mosca, il luogo di addestramento dei cosmonauti, di cui divenne poi vice direttore; fu anche promosso a colonnello delle Forze aeree sovietiche.
     Gagarin, allora ventisettenne, divenne anche una celebrità internazionale, al centro dell’interesse di tutti i media di allora. Le sue ottime capacità comunicative e il suo sorriso carismatico lo resero attraente anche all’estero; così, pochi mesi il successo della Vostok 1, fu invitato da una trentina di Stati. A causa della sua fama, che esaltava il successo della potenza ‘nemica’, il presidente John Kennedy gli vietò però l’ingresso negli Stati Uniti. 
    Quella sulla Vostok 1 fu in realtà l’unica missione di Gagarin, perché gli alti funzionari sovietici vollero tenerlo fuori da altri voli, preoccupati di perdere in un incidente il loro eroe "troppo caro all'umanità per rischiare la vita in un’altra missione spaziale". Preoccupava anche l’abitudine di Jurij di assumere alcolici, fatto questo incompatibile con lo status di cosmonauta. All’inizio del 1967 fu comunque nominato cosmonauta di riserva nella missione Sojuz 1, conclusasi poi tragicamente il 24 aprile 1967 con la morte del cosmonauta Vladimir Komarov, a causa della mancata apertura dei suoi paracadute in fase di rientro.
     Tragica e, per certi versi, paradossale fu la morte dell’eroe spaziale: Jurij Gagarin infatti morì il 27 marzo 1968, a soli 34 anni, durante un volo d’addestramento, a seguito dello schianto, vicino alla città di Kiržač, del piccolo caccia MiG-15UTI che il cosmonauta pilotava insieme all'istruttore Vladimir Seryogin. La causa dell’incidente rimane ancora incerta e avvolta nel mistero, nonostante le indagini svolte dall'Aeronautica sovietica, dalle commissioni ufficiali del governo e dal Kgb. Le ipotesi prevalenti sono state due: quella di cattive informazioni meteorologiche fornite dalla stazione di terra, e quella della presenza improvvisa nella rotta del velivolo di un altro aereo non autorizzato: per evitare la collusione con quest’ultimo, il caccia MiG-15UTI avrebbe effettuato una manovra che ne avrebbe poi determinato la perdita di controllo e la caduta.
    Oggi, a quasi cinquant’anni dalla sua morte, la memoria dell’eroe dello spazio a Mosca è tenuta viva da un monumento alto 12 metri, scolpito nel titanio e appoggiato su un piedistallo di granito di 27 metri e mezzo, nella grande piazza a lui dedicata. Inoltre, nella città di Odincovo (vicino Mosca) l'artista italiano Jorit ha realizzato un suo enorme ritratto, sulla facciata di un palazzo di 20 piani.  A Jurij Gagarin è stato dedicato in Russia il centro di addestramento della “Città delle Stelle”, dove continuano a prepararsi i cosmonauti prescelti per le varie missioni spaziali. Inoltre, nella città ucraina di Chernihiv gli è stato intitolato uno stadio, mentre il trofeo della Kontinental Hockey League di hockey su ghiaccio si chiama Coppa Gagarin: Jurij fu infatti uno sportivo appassionato di basket e di hockey su ghiaccio. E il cosmonauta sovietico viene ricordato persino in Antartide, dove i monti della Terra della Regina Maud stati ribattezzati  col suo nome.
     Infine, il nome di Jurij Gagarin si trova, a buon diritto, nello spazio: col suo nome è stato chiamato l’asteroide 1772 e a lui è stato intitolato un vasto cratere lunare sulla faccia nascosta della Luna. A questo piccolo grande uomo, il tributo della memoria dagli immensi spazi siderali e dal pianeta Terra, che deve proprio a lui l’appellativo suggestivo e fortunato di “pianeta azzurro”…

Maria D'Asaro, 11.4.21, il Punto Quotidiano

venerdì 9 aprile 2021

I giusti che salvano il mondo: Dietrich Bonhoeffer

      C’è poco da aggiungere a quanto scritto qui su Dietrich Bonhoeffer, pastore evangelico tedesco impiccato nel campo di concentramento di Flossenbürg all'alba del 9 aprile 1945, per la sua convinta opposizione al nazismo e la sua cospirazione contro lo stesso Hitler.
    Qui, su wikipedia, la sua storia 

    "Feldmann (2007), uno dei suoi biografi, nel suo libro Avremmo dovuto gridare, afferma che la teologia di Bonhoeffer si erge dalle tenebre e cresce nella notte. E’ il “dialogo ostinato e pieno di fede con un Dio che si nasconde mentre, in apparenza, l’unico in ascolto è il Diavolo e la morte è in agguato dietro la porta della cella” (pag. 233). (...)
     E ancora: "La cosa più paradossale è che a partire dalla sua emarginazione troviamo la nostra riconciliazione e liberazione. Su questa stessa linea, sei anni prima di essere accusato dal regime nazista, Bonhoeffer scrisse alcune righe mentre era a New York: “Poiché Dio si è fatto uomo povero, miserabile, sconosciuto e fallito, e siccome da allora in poi non ha voluto essere trovato se non nella povertà e nella croce, proprio per questo non possiamo ignorare l’uomo e il mondo, proprio per questo amiamo i nostri fratelli” (Feldmann, pag. 235). (da qui).
     Quindi, giustizia e fratellanza innanzitutto:  etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse.

mercoledì 7 aprile 2021

Zia Iole


Viva 

E allegra

La rosa d’affetto

Che ci hai donato

Zia Iole     







(qui un profilo di questa zia meravigliosa)

domenica 4 aprile 2021

La Virginia dice no al boia

     Palermo - “Occhio per occhio, dente per dente”: questa la legge del re babilonese Hammurabi nel XVIII secolo a.C. Ancora oggi Cina, Bielorussia, India, Corea del Nord, Iran, Arabia Saudita, Giappone, Stati Uniti d'America – 58 Stati in totale - si rifanno al codice di Hammurabi, comminando la pena di morte per l’omicidio e altri reati. 
    Negli USA, dove la pena capitale è ammessa a livello federale e può essere inflitta in tutto il territorio se contemplata dai Parlamenti dei singoli Stati, dal 1977 al 2003 ci sono state 843 condanne a morte: 677 con iniezione letale, 150 con sedia elettrica, 11 con camera a gas, 3 per impiccagione, 2 con fucilazione.
    Secondo il Death Penalty Information Center, sino al 24 marzo scorso erano venticinque gli Stati che applicavano la pena capitale; tre, California, Oregon e Pennsylvania, quelli dove è in vigore una moratoria; ventidue, più il District of Columbia con la capitale Washington, quelli che l’hanno cancellata. Tra questi ultimi, che passano quindi a ventitré, dal 25 marzo scorso c’è anche la Virginia, il primo tra gli Stati del sud ad averla abolita. Seconda solo al Texas che detiene il primato di imputati giustiziati, in Virginia dal 1976 sono state eseguite 114 esecuzioni. Già da dieci anni però nei suoi tribunali non sono state più comminate condanne a morte, mentre nelle carceri locali erano rimasti solo due condannati alla massima pena.
    L’abolizione della pena capitale, approvata nelle scorse settimane dalla Camera e dal Senato della Virginia, è stata firmata dal governatore democratico Ralph Northam, che in passato si era dichiarato favorevole alla pena di morte. A fargli cambiare idea la constatazione che la pena capitale colpiva soprattutto i neri, i poveri e le minoranze etniche, le categorie cioè che non hanno soldi per difendersi in tribunale: "Firmare questa legge è la cosa giusta da fare. Non c'è posto per la pena di morte nel nostro Stato, nel sud e nel Paese"- ha dichiarato ora il governatore, che ha definitivamente chiuso la ‘camera della morte’ nel penitenziario di Greensville. 
   Negli Stati Uniti, soprattutto dopo la pubblicazione nell’aprile del 2002 del Rapporto Ryan, il sostegno dell'opinione pubblica alla pena di morte è un po’ calato. Dopo il 2004, la Corte Suprema ha vietato l’applicazione della massima condanna a minorenni e ritardati mentali, mentre il Congresso ha limitato il numero di reati punibili con tale pena; di conseguenza, è diminuito anche il numero complessivo di esecuzioni e di condanne.
   Il cambiamento di rotta si deve in primo luogo agli scandali seguiti all'utilizzo dei test del DNA, che hanno provato l'esistenza di un alto numero di persone innocenti tra i condannati a morte, per molti dei quali la condanna è stata eseguita. 
   In secondo luogo, alla consapevolezza della pregiudiziale razziale legata alla pena capitale: i risultati di una ricerca indipendente condotta nel 2003 dall'Università del Maryland mostrano come gli afroamericani, che rappresentano circa il 12% dell'intera popolazione statunitense, costituiscano poi il 42% dei detenuti in attesa dell'esecuzione capitale; inoltre, mentre le vittime degli omicidi sono bianche e nere in parti quasi uguali, dal 1977 i condannati giustiziati sono stati, nell'82% dei casi, i responsabili dell'uccisione di un bianco. La presenza della discriminazione razziale nei tribunali, riscontrata in molti stati americani, proverebbe quindi la significativa correlazione tra la razza dell’imputato e la decisione finale della giuria.
     In terzo luogo, anche se non è facile a credersi, pare accertato che, conti alla mano, sia molto più costoso condannare a morte e uccidere un imputato che mantenerlo all’ergastolo.
    Infine, nonostante molti siano ancora convinti del valore deterrente della massima pena, si è visto che non c’è affatto una correlazione tra la diminuzione del tasso di criminalità e l’applicazione della pena capitale. Ma questo lo sapeva bene già nel 1764 Cesare Beccaria che, nel saggio Dei delitti e delle pene, affermava con certezza che storicamente la pena capitale non è mai stata un deterrente per impedire il crimine; per questo e per altre ragioni Beccaria deplorava gli Stati che «per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinano un pubblico assassinio».  Evidentemente negli Usa – e negli altri 57 Stati del mondo che mantengono la pena di morte – non si è riflettuto abbastanza sulle argomentazioni del giurista italiano. 
   Oggi, nella festa della Resurrezione di un Condannato a morte, avvenuta circa 2000 anni fa in Palestina dopo un processo assai discutibile, ricordiamo la lunga e controversa vicenda giudiziaria di un cittadino statunitense di origini italiane, Derek Rocco Barnabei, giustiziato proprio a Greensville  in Virginia, anche lui a 33 anni, il 14 settembre del 2000, nonostante si proclamasse disperatamente non responsabile dell’assassinio di una ragazza, Sarah. Per lui chiesero inutilmente la grazia anche il Parlamento europeo e l’allora papa Giovanni Paolo II.  Non sapremo mai se sia stato Rocco il colpevole della morte di Sarah. Rimane il dolore immenso dei familiari di Sarah, a cui si è aggiunto l’inutile strazio della madre del condannato. Il Comune di Palermo, già nel 1997, ha voluto tributare a Rocco la cittadinanza onoraria «Come simbolo della lotta alla pena di morte».

Maria D'Asaro, 04.04.21, il Punto Quotidiano

venerdì 2 aprile 2021

La cognizione del dolore

Emil Nolde: Il mare di sera
      La seconda condizione per la vera felicità è la cognizione del dolore. C’è un immenso dolore che sovrasta ogni cosa, che pervade la vita di ogni vivente, umani, animali, vegetali; forse soffre anche quella che noi chiamiamo materia inerte, anche le stelle, chissà. 
     Più si conosce la vita, più lo si avverte; più conosci una persona, più sai di cosa soffre; più conosci te stesso, più sai nominare le radici delle tue sofferenze. E’ un suono sordo e persistente, un sottofondo grave, come il basso continuo nella musica di Bach, questa musica così vera e così autenticamente felice perché è insieme armonia e cognizione del dolore.
      Ognuno di noi vive, ma allo stesso tempo ferisce. Dico ferisce (ma potrei anche dire uccide) perché proprio quegli atti che ci permettono di essere in vita, in primo luogo il nutrirsi, sono il risultato di ferite inflitte da noi, o da altri in nome nostro, all’ambiente naturale ( si pensi all’abbattimento di alberi per la coltivazione di sterminati campi di soia o di altro) e di sfruttamento e  uccisione di altre vite (si pensi agli allevamenti più o meno intensivi, ai macelli, alla pesca nelle sue varie forme).
    La vita si nutre di vita: di vita animale e di vita vegetale a livello fisico; di vita psichica a livello psichico. Anche a questo livello infatti si ferisce e si divora: quante amicizie e quanti amori sono solo spietate battute di caccia. Sembra che nessuno possa sfuggire a questa inesorabile legge. Siamo cattivi? No, anche se lo possiamo diventare; siamo però captivi nel senso latino del termine, che significa “prigionieri”. Siamo legati alla catena alimentare, fisica e psichica, la cui legge è l’aggressione, e che di conseguenza genera dolore e morte.
    Ma solo da questo dolore di alcuni nasce e si nutre la vita di altri. E’ così per ogni animale, carnivoro o erbivoro che sia: la vita è fatta di sangue; la vita è un fatto di sangue. (…) Questo è il vasto mare che ci contiene e che noi a nostra volta conteniamo dentro di noi, il mare salato dell’immenso dolore del mondo, mare rosso e mare nero. La felicità autentica non può prescindere dall'attraversarlo, ne conosce i gorghi e le correnti.

Vito Mancuso I quattro maestri, Garzanti, Milano, 2020, pag. 11,12