"Il pensiero della pace è ciò che congiunge i due estremi della vita di Maria Zambrano. (…) In una società dall’ordine musicale come lei la intende, dove la democrazia non può esaurirsi certo in una stanca liturgia elettorale ma riguarda la quotidianità in cui ciascuno/a contribuisce attivamente alla sua realizzazione, la pace non può essere pensata come semplice equivalenza dello stato di non-guerra. Perché ciò equivale a un equilibrio precario, fragile, basato principalmente sulla paura.
E una pace del genere, priva cioè di una propria ‘sostanza morale’, può rappresentare solo una tregua. Una pace che aspiri a essere duratura non può neanche tendere alla fine di ogni lotta o al quieto vivere.
La pace, al contrario, è ‘inquieta’, non ammette l’immobilità, ma deve ridefinirsi di fronte a ogni nuova situazione e circostanza. Non può avere un’unica strategia che non guarda in faccia nessuno, ma ha bisogni di accordi continui, e di un coraggio ben più saldo di quello esaltato e furioso con cui ci si getta in guerra.
Pace non significa società pacificata, come in quell’immagine della pace eterna promessa alla fine della vita. La pace sta dalla parte della vivacità. Dell’agonismo e del gioco, dell’inquietudine che impedisce il conformismo o ancor peggio la complicità verso un ordine dato solo nella misura in cui ci si adatta alla propria convenienza. La pace non è la fine di tutti i nostri affanni, ma è la vita di un incessante interrogare che ci spinge oltre, in cerca di relazioni rette dalla libertà e dalla giustizia e non dalla paura e dal dominio. La pace, dice in sintesi Maria Zambrano «è un modo di vivere, di abitare il pianeta, di essere umani».
Per questo è «un’intima rivoluzione» che non mira ad occupare il potere per sé stessi, ma muove ciascuno/a a superare una soglia, quella che separa la «storia sacrificale», fatta di idoli e di vittime, per entrare in un processo di umanizzazione della storia. Un processo che non ha bisogno di armi, di parole d’ordine o «ornate di maiuscole» (per usare un’espressione di Simone Weil), ma di parole che fanno riflettere e insegnano a pensare, parole terrestri e alate.
Similmente per Hannah Arendt la guerra si produce nell’impotenza della politica, che è per lei il luogo dell’agire politico dove l’atto e la parola non si separano. Sul mito del progresso tecnologico, sempre più invasivo, e del suo rapporto con la violenza, dovrebbero poi far riflettere le sue analisi Sulla violenza, scritto del 1968, dove ragiona su quella che definisce «l’impotenza della potenza». Il riferimento è all’America che, nella sua potenza tecnologica e militare sempre più dispiegata (…), nasconde un’impotenza pericolosa di un fare politico in cui non ha più dimora il pensiero tra l’impeto e l’atto, e che nega per ciò stesso la sfera pubblica in cui si incontrano e si confrontano l’azione e la parola.
Per questo, a maggior ragione, quando vaghiamo come persi in un labirinto di specchi, privi di orizzonte, in un mondo in cui gli eventi sembrano caderci addosso ineluttabili, il pensiero deve servire da guida’ affinchè in quel labirinto e in quel buio non ci smarriamo, aprendoci un varco lì dove non sembra esserci alcun passaggio, alcuna via d’uscita.
Proprio allora, come ci invita a fare Maria Zambrano, «occorre cambiare atteggiamento: invece di essere divorati in un processo metafisico di distruzione, levarsi a pensare. Non subire la metafisica, ma farla»."
Rosella Prezzo, Guerre che ho (solo) visto Moretti &Vitali, Bergamo 2025, pagg. 91,92
Ne discuteremo con l'autrice domenica prossima, a Una marina di libri
Molto interessante!
RispondiElimina@Cavaliere: grazie. Buona settimana.
EliminaPost molto interessante,grazie.OLga
RispondiElimina@Olga: grazie per l'attenzione. Buona notte.
Elimina