“Hai cominciato tu!”, grida un bambino. “No, sei stato tu a cominciare!”, grida in risposta l’altro. E continuano a suonarsele.
Nei conflitti bellici l’atteggiamento è lo stesso. Identico. Ogni Governo, in maniera uguale e contraria, dice che a cominciare è stato l’altro.
Tuttavia, questo non è ancora il peggio. Il peggio, in quanto contribuisce alla ratifica definitiva dell’idea della ‘necessità’ della guerra e addirittura alla sua estensione[1] ,si realizza quando la stessa postura dei contendenti viene assunta dalle terze parti che, come tifoserie, si schierano con uno di loro attribuendo all’altro la responsabilità di avere, appunto, “iniziato”.
Tale atteggiamento si trasmette (sia pure solo tendenzialmente) dai Governi ai media e dai media alla gente comune, che, per qualsiasi fronte parteggi, lo fa con la pretesa di stare – per ricordare una frase usata e abusata – “dalla parte giusta della Storia”, dalla parte della Giustizia, e dunque degli oppressi che, nello schema dicotomico all’interno del quale siamo stati abituati a pensare, sono “i buoni”, di cui talvolta finiamo per giustificare non solo il ricorso alla forza violenta per legittima difesa ma perfino il ricorso alla violenza di qualsiasi tipo (quella terroristica compresa), perché, si dice appunto, la responsabilità è di quello che “ha iniziato”, e non dell’altro: aut-aut, o con l’una o con l’altra parte.
In nome del giusto rifiuto sia dell’indifferenza sia dell’equidistanza, si sceglie una parte, quella che si ritiene oppressa, o più oppressa, o oppressa (d)“all’inizio”.
In realtà, lo schieramento delle terze parti (Governi o società civili, non importa) tradisce e impedisce il ruolo positivo, in direzione di una trasformazione positiva del conflitto perché lo polarizza, lo estende e radicalizza, anziché contribuire alla sua multilateralizzazione (nell’antica Grecia Tucidide e Plutarco lo sapevano già benissimo).
In Storia (nella storiografia, intendo) – ma anche nella poesia epica – le cose non vanno diversamente: da Erodoto (e da Omero) ad oggi, la domanda con cui inizia lo storico (e il poeta epico) è sempre la stessa: “chi ha cominciato?”. E questo anche se capita poi che lo storiografo e il poeta antichi mostrino che le cose sono più complesse. Facciamo un esempio. Nella mitica guerra di Troia, chi aveva veramente cominciato?
Noi stiamo di solito dalla parte dei greci e riteniamo che abbiano cominciato i troiani, perché Paride ha rapito la greca Elena, moglie di Menelao, e soltanto dopo, quest’ultimo, con l’esercito raccolto dal fratello Agamennone, attacca la città di Troia per riprendersela. Eppure, nel racconto omerico: 1. Paride ha rapito Elena, sì, ma con il consenso di lei perché Afrodite, la dea dell’amore, le ha momentaneamente ottenebrato la mente(insomma è stata consenziente per un colpo di testa, diremmo in termini odierni); 2. per il rapimento di una singola donna (che proprio rapimento, come si è visto, non è), i greci organizzano addirittura un esercito e attaccano la città di Troia e vogliono lo sterminio della sua intera popolazione, il suo genocidio. A rigore, la “guerra” in senso stretto l’hanno cominciata i greci che però l’hanno fatta per salvaguardare il Diritto; mentre il troiano aveva effettuato solo un “rapimento”, che comunque – dimentichiamo – aveva l’avallo della rapita stessa ed era dovuto all’iniziativa della dea!
Dunque, la risposta alla domanda “chi ha cominciato?” è problematica. Ma, soprattutto, serve a qualcosa stabilirlo come giudici terzi che si pretendono detentori della Giustizia?
Per passare alla storia attuale, Putin ha fisicamente oltrepassato i confini dell’Ucraina e l’ha attaccata. La sua versione, da comprendere (che è cosa ben diversa dal giustificare), di ciò che risulta in ogni caso un’invasione, è che tale intervento ha lo scopo di proteggere la Russia dall’espansione della Nato in cui Zelensky vuole entrare (il famoso “abbaiare” della Nato di cui parlò Papa Bergoglio) e la sua cronologia inizia dal 2014 e dal mancato rispetto degli accordi di Minsk (2014-15), mentre l’altro fronte, con cui i nostri Governi si sono schierati, inizia dal 24 febbraio 2022.
A Gaza, dopo il 7 ottobre 2023, Netanyahu mette in atto l’oppressione nei confronti dei palestinesi senza distinguere miliziani da civili e nei termini orrorifici che sappiamo: da parte israeliana si fa notare che il passaggio a tale dimensione è successivo a quella data – dunque, in quella grandezza, costituisce una risposta al 7 ottobre, e che in precedenza Israele ha sempre dovuto difendersi da attacchi terroristici (non sto giustificando; sto riportando il loro modo di vedere la questione); da parte palestinese, invece, si fa notare che non c’è proporzione numerica fra le vittime civili del 7 ottobre e quelle, sempre civili, successive, e che l’occupazione e l’espansione israeliana sono molto precedenti al 7 ottobre, e che questo è la conseguenza, appunto, dell’occupazione che risale al 14 maggio 1948, quando fu proclamato lo Stato di Israele.
Gli israeliani mettono in luce che in quello stesso giorno l’invasione di militari provenienti dagli Stati arabi circostanti diede inizio alla guerra arabo-israeliana (terminata con la Nakba del 1948 che rende profughi 700.000 palestinesi) e che il 13 aprile gli arabi a Gerusalemme avevano attaccato un convoglio sanitario uccidendo una quarantina di personale medico e infermieristico.
I palestinesi citano questo fatto come rappresaglia per il massacro di Deir Yassin (vicino a Gerusalemme) del 9 aprile 1948 (quando 120 ebrei sionisti attaccarono questo villaggio uccidendo un centinaio di civili, donne e bambini compresi, e cacciando i circa 500 abitanti superstiti). Tale massacro a sua volta era stato preceduto, a marzo, dall’attacco arabo all’ebraica Gerusalemme ovest…
E si può andare a ritroso ancora di più: al 24 agosto 1929 (il cosiddetto massacro di Hebron in cui vengono uccisi 66 ebrei); al 23 agosto (contesa per la piazzetta antistante al Muro occidentale dell’antico tempio di Gerusalemme, utilizzato tradizionalmente dagli ebrei ma appartenente alla Spianata delle moschee: seguono tafferugli e si diffonde la voce che gli ebrei intendono occupare tutta la Spianata); al 1921 (un gruppo di immigrati ebrei che celebra la festa dei lavoratori viene aggredito da una folla di arabi che poi estendono ulteriormente il loro attacco da Jaffa ad altri insediamenti: vengono uccisi 47 ebrei); a marzo 1920 (a Tel Hai, in Galilea, insediamento ebraico nella terra di nessuno tra la zona controllata dai francesi e quella controllata dai britannici, gli arabi ottengono di entrare per verificare che non ci siano soldati francesi ma qualcuno spara un colpo che viene fuori uno scontro con diversi morti; un mese dopo a Gerusalemme, durante una festa araba, per una falsa notizia secondo cui gli ebrei stavano occupando lì i luoghi santi dell’Islam, vengono assaltati i quartieri ebraici e organizzata una forza di difesa ebraica); al 1917 (Dichiarazione Balfour della Gran Bretagna – in cerca di sostegno internazionale e di un avamposto mediorientale vicino al canale di Suez che garantiva la rotta per l’India – in appoggio alla «istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico […] essendo chiaramente inteso che nulla dev’essere fatto a pregiudizio dei diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina»); seconda metà dell’Ottocento, quando l’antisemitismo da un lato e il sorgere dei risorgimenti nazionali dall’altro spingono gli ebrei, in diverse ondate migratorie, dispersi nel mondo al ritorno a Sion che la loro religione indicava come loro terra). (2)
Anche così, in realtà, si potrebbe ancora andare indietro; e notate che sto trascurando del tutto di parlare del ruolo delle potenze straniere occidentali, che a rigore non dovrebbe essere per nulla omesso!
Insomma, ad una narrazione cronologica ne può essere contrapposta, e se ne contrappone, un’altra. I manuali di Storia israeliani e quelli palestinesi sono strutturati analogamente: spiegano, rispettivamente, le ragioni di Israele e quelle della Palestina. È studiando su tali manuali, oltre che apprendendo dai loro familiari che le storie le hanno vissute di fatto – ma pur sempre dai loro specifici punti di vista in cui hanno percepito il ruolo di aggressore giocato dall’Altro ma non il proprio –, che i ragazzi e le ragazze dei due popoli assimilano ciò che viene loro raccontato come la vera storia del rapporto con i loro vicini (capita così, per esempio, che famiglie israeliane ignorino di stare abitando in case da cui sono stati cacciati dei palestinesi).
I manuali occidentali, i nostri, pur forse con un maggiore sforzo di imparzialità, rispondono allo stesso schema di ricerca della verità unica. Tuttavia, alcuni libri, (3) a mio parere esemplari, mostrando l’una accanto all’altra la narrazione di ciascun popolo, permettono la consapevolezza della parzialità di ciascuna di esse. Soprattutto, essi superano lo schema dicotomico della ricerca della verità unica e imparziale, ognuna con il suo punto di inizio che, inevitabilmente, omette il ruolo di un evento, importante per un popolo che ne sottolinea per esempio l’ordine di grandezza quantitativa, trascurabile per l’altro che invece fa emergere il suo carattere di reazione ad una precedente ingiustizia subìta (l’inizio è dovuto all’altro).
Eppure, la fissazione di un inizio dipende, come abbiamo visto, dalla temporalità che si prende in considerazione e nessuno può prenderla in considerazione tutta perché, altrimenti, si dovrebbe presentare ogni dettaglio e ripartire ogni volta da Adamo ed Eva, per così dire… L’inizio fissato dipende dalle “punteggiature” che si fanno, direbbe Watzlawick.
Nonostante siamo abituati a pensare ancora positivisticamente (“chi ricerca onestamente trova la verità”), neanche gli studiosi specialisti possono fare altro che interpretare le fonti e impostare la ricerca sulla base dei loro presupposti.
A configurare la ricerca, come suggerisce Johan Galtung, sono Desideri (consapevoli o no), Dati e Teoria: in Storia, come in tutti gli ambiti disciplinari, l’oggetto storiografico viene costruito (ovviamente non in modo arbitrario ma in modo o in modi socialmente determinati) e i risultati variano anche sulla base della costruzione fatta (basti ricordare il cambio, sia pure parziale, di oggetto storiografico, cioè la storia sociale anziché quella esclusivamente politico-militare, dell’École des Annales la cui ‘invenzione’ ha un senso chiaro: quello di mostrare il ruolo dei popoli nella Storia al di là delle guerre, dove essi sono semplicemente le pedine destinate a uccidere o a essere uccise per volontà dei loro Governi). Figuriamoci allora quando a parlare non siano studiosi, ma persone che al massimo hanno letto qualche articolo e tre o quattro libri e, appunto a seconda di quali abbiano letto, pensano per questo di avere le idee chiarissime sull’andamento vero delle cose e su chi abbia torto e chi ragione!
Si tratta allora di uno stesso paradigma culturale, di uno stesso modo di pensare. È l’unico possibile? E, innanzitutto: a cosa serve? Meglio ancora, per costruire la pace ci serve? Ed è il paradigma, adottato dai belligeranti, che hanno il compito di adottare anche le terze parti (dunque, ‘Noi’, compresi noi che siamo qui)? qual è, per dirla nei termini di Galtung il desiderio sottostante a tale impostazione?
Il desiderio sembra essere quello di giustizia e di verità, anzi di verità al servizio della giustizia: una verità stabilita da una parte terza imparziale (il giudice) – che, ci si dimentica spesso di dire, abbia ascoltato tutte le parti (come fa per esempio la Corte Penale Internazionale), in modo che sostanzialmente, per dirla in modo a rigore non del tutto corretto, si possa punire l’iniziatore – ma non viene certo stabilita da una delle parti o da chi aderisce ad una di esse (anche se ovviamente, in un circolo vizioso, l’adesione viene data sulla base della pretesa di conoscere la verità imparzialmente). Forse questa impostazione (che non prevede un dialogo o prevede un dialogo tra sordi) (4), che ci fa sentire costretti a stare interamente con una parte o con l’altra costituisce essa stessa una forma di violenza culturale?
Beninteso, tutto ciò non impedisce che si possa riconoscere che una parte, nel suo insieme, sia più debole e più oppressa e che dunque abbia bisogno di maggior sostegno, ma di un sostegno che consista nella sua difesa non armata: banalmente, se sono i civili palestinesi a soffrire la fame, è a loro che si indirizzeranno gli aiuti alimentari; se è a loro che viene tolta terra, è per esempio con il boicottaggio dei prodotti israeliani che si cercherà di pressare gli occupanti usurpatori; l’interposizione stessa, rivolta a impedire le violenze da ambo le parti, di fatto aiuta maggiormente quella più debole, visto che era in svantaggio: ma perché l’interposizione possa riuscire non può issare la bandiera di una delle parti, anche se è quella della parte più debole (questo l’errore che attribuisco alla Global Sumud Flotilla che resta in ogni caso uno splendido esempio di azione nonviolenta che farà Storia), perché altrimenti finisce per essere, o essere percepita, come uno schieramento unilaterale inaccettabile per la parte più forte – le cui vittime, d’altronde, pur di numero minore, non possono essere ignorate – e aggiungerei che l’argomento del numero (ma anche quello, altrettanto non corretto, de “la vittima ha sempre ragione in qualsiasi cosa dica”) non può essere tirato in ballo o no a seconda che risulti a favore o contro la tesi che si intende sostenere: così, i palestinesi avrebbero ragione anche quando giustificano gli atti terroristici di Hamas perché essi sono il popolo oppresso i cui morti civili sono molto più numerosi di quelli israeliani del 7 ottobre 2023; ma Liliana Segre, pur vittima, non avrebbe ragione di negare che i palestinesi siano oggetto di genocidio, e il numero degli ebrei vittime del nazismo (6 milioni), pur essendo di gran lunga maggior di quello dei civili palestinesi, non conterebbe (so bene, poi, che il carattere genocidiario non è dato dalla numerosità).
L’empatia con chi soffre, se è tale, non può avere carattere selettivo, non può essere per i sofferenti di una parte e non anche per quelli, pur di numero minore, dell’altra. Nessun nonviolento, su ciò, mi pare che abbia dubbi; Pat Patfoort non meno che Johan Galtung (“empatia verso tutte le parti”) lo dicono esplicitamente – se fosse necessario citare ‘autorità’. In nonviolenza vale il principio noto come principio di non comparabilità delle sofferenze, cioè di non ‘raffrontabilità’, di non pesatura, delle sofferenze: l’empatia non è un bene esclusivo che, se si dà a qualcuno, si toglie a un altro e dipende dalla relazione che si è capaci di avere, non dal numero di morti presso le parti. E lo si capisce bene, per esempio, quando si piange addirittura con maggiore dolore la sola uccisione della propria madre piuttosto che quella di cento sconosciuti.
All’interno del modo di pensare binario resta dunque, in ultima istanza, anche la formula secondo cui “non c’è pace senza giustizia”. Questa suona in maniera giustamente molto bella perché è concepita come l’opposto di “non c’è pace con ingiustizia”, espressione che ben a ragione chiunque abbia a cuore la giustizia si rifiuta di accettare. In ogni caso, tuttavia, siamo sempre dentro un paradigma dicotomico.
Se usciamo da esso, l’alternativa alla posizione secondo cui “non c’è pace con ingiustizia” non è necessariamente l’altra appena detta, che però può, in un orizzonte più ampio, farne parte. Infatti è possibile una posizione espressa dalla formula “non c’è pace senza giustizia, e non c’è giustizia senza dialogo”, che mette l’accento sull’esigenza dell’ascolto reciproco tra le parti in conflitto, magari favorito da una terza parte con funzione di mediazione.
In nonviolenza, infatti, direi che la parola “verità” si declina nel senso del prioritario ascolto di entrambe le parti non tanto al fine di arrivare a stabilire chi, alla luce del Diritto vigente, abbia torto e chi abbia ragione (il che rientra ancora, appunto, nel ‘normale’ paradigma della giustizia, insomma nel paradigma giudiziario, dove “verità” è da intendere al singolare: la verità). Piuttosto, in nonviolenza, “verità” va inteso in primo luogo come un plurale (le verità), perché il fine è, innanzitutto, quello
1. di fare emergere le ragioni di ciascuno, in modo che tutti possano comprendersi,
2. di individuare i loro rispettivi bisogni, al di là delle posizioni che magari sono presentate come opposte argomentando l’uno contro l’altro,
3. di agire in vista di una trasformazione positiva del conflitto che preveda il trascendimento e l’individuazione di una soluzione soddisfacente per entrambe.
Non è dunque importante stabilire chi abbia cominciato, quanto capire per quale motivo, dal suo punto di vista, ha agito chi da un punto di vista esterno al suo, sembra aver cominciato. C’è forse una fase invisibile del conflitto che gradualmente giunge a un certo punto, nell’azione di una parte specifica, a diventare violenza esplicita e guerra? Può darsi che con l’azione che per la sua visibilità sembra l’“inizio” la parte che la compie stia esprimendo la posizione che ritiene, anche se a torto, l’unica possibile per soddisfare il suo bisogno?
Per rispondere a tali domande è necessario partire dall’individuazione dei bisogni delle parti che sottostanno alle posizioni che esse esprimono in termini bellici. È ciò che è stato fatto ad esempio nel 1978-79, quando gli accordi di Camp David riuscirono a fermare la guerra tra Egitto ed Israele grazie alla mediazione del Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, Israele, nel 1967 (guerra dei sei giorni), aveva invaso l’Egitto occupando la penisola del Sinai e l’Egitto si apprestava a riprendersela, ma gli incontri a Camp David (durati dodici giorni) fecero emergere che l’occupazione mirava non all’annessione di quel territorio ma alla possibilità di difesa nel caso di attacchi arabi: la decisione di restituire all’Egitto il Sinai lasciandolo però demilitarizzato, come zona cuscinetto, garantiva il bisogno dell’uno di riavere il proprio territorio e quello dell’altro di avere assicurata la possibilità di difendersi.
Così, si può scoprire subito che anche Putin ha bisogno di sentirsi sicuro dalla Nato e che appunto per questo non la vuole nella confinante Ucraina mentre Zelensky ha bisogno di sentirsi sicuro dal rischio di un attacco russo che voleva evitare entrando nella Nato. E tutto si sarebbe sistemato proponendo la non entrata dell’Ucraina nella Nato per rassicurare Putin, e un’intesa su cosa si sarebbe fatto in caso di intervento militare di quest’ultimo in Ucraina anche al di là degli accordi tra i membri della Nato (in questa ipotesi l’UE non avrebbe fatto fallire gli accordi, come invece ha fatto ad agosto 2025): che poi, bisogna dirlo, è il piano prospettato da Trump – ma che l’Unione Europea per prima, attestata su una logica del tifo, ha contribuito a far fallire. E per Israele-Palestina? Anni fa Johan Galtung ha formulato il progetto cosiddetto “1-2-6-20”, ma non ho il tempo neanche per accennarvi – e d’altronde non era il tema di questo mio intervento.
Intervento del prof. Andrea Cozzo, c/o Borgo Danilo Dolci – Trappeto (PA), 18.10.2025
1. In forma ‘calda’ (cioè come alleanza militare) o in forma ‘fredda’ (ovvero come supporto militare esterno).
2. Cfr. Inno nazionale composto in quell’epoca.
3. Come quello di Luigi Sandri (Città santa e lacerata. Gerusalemme per ebrei, cristiani, musulmani, Monti, Saronno 2001) e quello del Peace Research Institute in the Middle East (La storia dell’altro. Israeliani e palestinesi, Una città, Forlì 2002).
4. Esempio di non-dialogo è stato il comportamento di Enzo Iacchetti il 16 settembre 2025 (ribadito anche nei giorni seguenti) alla trasmissione Carta bianca che ha avuto parecchie decine di migliaia di like. Le parole “definisci bambini” del suo interlocutore Eyal Mizrahi, il presidente dell'associazione Amici di Israele, dopo le quali l’attore è scoppiato in un attacco di collera feroce e cieca, erano, peraltro all’interno di una frase non completata perché interrotta dalla rabbia di Iacchetti, chiarissime per chiunque non fosse vittima di chiusura ideologica e unilateralismo: intendevano fare riferimento al fatto che molti bambini palestinesi, già verso i 14 anni, vengono istruiti alle armi, conservando dunque dei bambini solo l’età e non anche lo spirito. Ma di quelle parole ha prevalso – per quanto mi è dato di sapere, senza alcuna eccezione – una strumentalizzazione: una strumentalizzazione messa in atti dai ‘buoni’.
(Le parti in neretto sono state evidenziate dalla scrivente che ha riportato lo scritto nel blog)







Purtroppo va avanti da secoli, mentre la pace resta un'utopia.
RispondiElimina@Cavaliere: l'umanità dovrebbe avere un moto nuovo di consapevole saggezza... Buona giornata.
EliminaBrava Maria! Ottimo post. La domanda da porsi oggi è: Chi vuole finirla (la guerra) per primo e smettere di fare l'assassino?. Magari, in questo caso andrebbe bene anche l'intervento di terze parti. 😉
RispondiEliminaGrazie e buona giornata.
@Pia: grazie di cuore dell'attenzione e dell'accorato commento. Buon fine settimana.
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