Non sono nata psicopedagogista. Sono stata, innanzitutto, una “normale” insegnante di Lettere alle scuole medie. Ma ho anche insegnato ai corsi serali per lavoratori: a Bagheria e a Palermo, a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Esperienza esaltante e complessa, essere la prof. di panettieri, fruttivendoli, disoccupati, casalinghe. Persone costrette a tornare a scuola da adulti per ottenere quella licenza media che non erano stati capaci di conseguire da ragazzini: perché la famiglia li aveva mandati a lavorare troppo presto, perché i professori non li avevano aiutati abbastanza, perché “professorè, ero troppo tosto, e proprio di scuola non ne volevo”, perchè un padre o un fidanzato geloso le aveva costrette a stare a casa, quando, come la Maria di De Andrè “la loro verginità si tingeva di rosso”.
La scommessa, per noi docenti, era fornire a quegli uomini e a quelle donne le competenze di base perché sapessero scrivere una domanda di lavoro e un curriculum vitae, perché conoscessero un minimo di scienze, matematica, storia e geografia per essere ammessi agli esami; ma l’obiettivo più grande era prenderli per mano e condurli nel sentiero, tutto in salita, che portava alla consapevolezza umana e civile dell’essere cittadini adulti, consapevoli di giocare un ruolo attivo in una città e in uno stato, qui e ora.
Quasi tutti, col passare delle settimane, cominciavano ad abbandonare la diffidenza verso i professori e la paura di non farcela. E accadevano cose strane e bellissime: si leggeva e commentava la Costituzione italiana con chi era avvezzo a leggere la “Gazzetta dello Sport” o tutt’al più, sfogliava distrattamente il quotidiano locale insieme alla più allettante “Cronaca vera”… Dopo la lettura dei primi articoli, eliminato l’ostacolo delle parole difficili, ci si appassionava insieme a quella strana e inusuale lettura. Dalla lettura della Costituzione, si parlava poi di sfruttamento o intimidazioni, di elementari diritti violati, di raccomandazioni, di voti comprati per fame e bisogno. Di chi, al di là della legge, comandava veramente, in Comune, nel proprio quartiere… I più onesti e coraggiosi elencavano ingiustizie e vessazioni note o subite, altri si limitavano ad annuire in silenzio, stringendosi alle spalle. Ma alla fine qualcuno affermava con tristezza: “Lei dice cose belle, professoressa, ma tanto in Sicilia non cambierà mai niente…”
Quasi tutti, col passare delle settimane, cominciavano ad abbandonare la diffidenza verso i professori e la paura di non farcela. E accadevano cose strane e bellissime: si leggeva e commentava la Costituzione italiana con chi era avvezzo a leggere la “Gazzetta dello Sport” o tutt’al più, sfogliava distrattamente il quotidiano locale insieme alla più allettante “Cronaca vera”… Dopo la lettura dei primi articoli, eliminato l’ostacolo delle parole difficili, ci si appassionava insieme a quella strana e inusuale lettura. Dalla lettura della Costituzione, si parlava poi di sfruttamento o intimidazioni, di elementari diritti violati, di raccomandazioni, di voti comprati per fame e bisogno. Di chi, al di là della legge, comandava veramente, in Comune, nel proprio quartiere… I più onesti e coraggiosi elencavano ingiustizie e vessazioni note o subite, altri si limitavano ad annuire in silenzio, stringendosi alle spalle. Ma alla fine qualcuno affermava con tristezza: “Lei dice cose belle, professoressa, ma tanto in Sicilia non cambierà mai niente…”
A Bagheria, alla fine degli anni ‘80, a frequentare la scuola serale c’era anche F.: solo la terza elementare al suo attivo e una vita randagia su una barca che era insieme casa e lavoro. Non aveva una famiglia vera e propria su cui contare: i suoi erano separati, la madre se n’era andata, costruendosi un’altra famiglia. Si entusiasmava solo per il mare e la pesca. A un’esperta che venne a parlarci di inquinamento marino, ribatté che “le schifezze sono sulla terra e non nel mare”, quasi a voler preservare con ostinazione la sua azzurra e ovattata realtà sottomarina da ogni possibile contaminazione terrestre.
Una volta, dopo una lezione che gli era sembrata forse troppo difficile, F. aveva detto di “volersi ritirare”. L’avevamo convinto a non mollare. Dopo Natale, ci era sembrato più sereno e a suo agio; accanto a lui c’era sempre qualche compagna più brava che gli dava una mano. Alla collega di Lettere aveva confidato che il suo sogno era di riadattare un vecchio rustico in campagna dal quale potere vedere il mare riaprendo gli occhi al mattino.
Da metà febbraio, a scuola non venne più. “Che fine ha fatto F.?” – chiedevamo ogni giorno facendo l’appello. Il primo marzo lo hanno trovato. In un pozzo, immerso nella calce. Con un proiettile in testa.
Ci siamo chiesti mille volte che cosa avremmo potuto fare per lui. In che modo, a scuola, avremmo potuto aiutarlo. Una volta, sempre alla docente di Italiano, aveva detto di essere amico di Mario Prestifilippo, uno dei presunti killers del generale Dalla Chiesa. La collega non ha avuto il tempo di chiedergli qualcosa in più su quella frase, smozzicata e inquietante.
Ci è rimasto il dolore e la rabbia per la sua orribile morte: per questo nostro ragazzo fragile rubato alla vita, al suo sogno di normalità, testimoniato dal ritorno a scuola. Sapevamo che nessuno avrebbe chiesto per lui “verità e giustizia”. E un’esile consolazione: che le serate passate alla scuola serale siano stati tra i pochi momenti sereni e di accoglienza affettuosa che F. abbia avuto, nei suoi unici ventitre anni di vita. Poi solo un mazzo di fiori, al terzo banco a sinistra, a ricordo dei suoi occhi splendidi azzurri.
Da metà febbraio, a scuola non venne più. “Che fine ha fatto F.?” – chiedevamo ogni giorno facendo l’appello. Il primo marzo lo hanno trovato. In un pozzo, immerso nella calce. Con un proiettile in testa.
Ci siamo chiesti mille volte che cosa avremmo potuto fare per lui. In che modo, a scuola, avremmo potuto aiutarlo. Una volta, sempre alla docente di Italiano, aveva detto di essere amico di Mario Prestifilippo, uno dei presunti killers del generale Dalla Chiesa. La collega non ha avuto il tempo di chiedergli qualcosa in più su quella frase, smozzicata e inquietante.
Ci è rimasto il dolore e la rabbia per la sua orribile morte: per questo nostro ragazzo fragile rubato alla vita, al suo sogno di normalità, testimoniato dal ritorno a scuola. Sapevamo che nessuno avrebbe chiesto per lui “verità e giustizia”. E un’esile consolazione: che le serate passate alla scuola serale siano stati tra i pochi momenti sereni e di accoglienza affettuosa che F. abbia avuto, nei suoi unici ventitre anni di vita. Poi solo un mazzo di fiori, al terzo banco a sinistra, a ricordo dei suoi occhi splendidi azzurri.
[1] La storia di F. è già stata magistralmente raccontata dalla collega Mari D’Agostino, ora docente all’Università degli Studi di Palermo, nello scritto (da cui riprendo il titolo): “Due occhi azzurri incredibilmente puliti” pubblicato nel n.100 della rivista palermitana “Segno”, dicembre 1988.
non penso che un pos cosi vada commentato...Grazie per averlo condiviso in rete per arricchire un pò di più la nostra mente.
RispondiEliminaFà riflettere.