Ecco gli ottimi scritti di due giornalisti che stimo. Uno è l’illuminato Michele Serra, che non ha bisogno di presentazioni. Il secondo è Francesco Palazzo, mio amico e concittadino, che collabora con il settimanale “Centonove” e con la “Repubblica” – Palermo.
Non si cambia un paese se non cambia il
suo popolo...
Io questo Franco Fiorito lo conosco. E lo
conoscete anche voi. Lo abbiamo visto dietro il bancone di un bar. Alla guida
di un autobus. Alla cassa di una pescheria. In coda all’ufficio postale. È un
normotipo popolare italiano. Franco Fiorito, “er federale de Anagni”, è uno di
noi.
La parola “casta” è perlomeno fuorviante. Lascia intendere che esista un ceto parassitario alieno alla brava gente che lavora, quasi una cricca di invasori. Purtroppo non è così. Tra casta e popolo c’è osmosi, e un continuo, costante passaggio di consegne. Fiorito non nasce ricco e non nasce potente. Fiorito è un prodotto della democrazia. Molti italiani che oggi sbraitano contro la casta, ove ne facessero parte, sarebbero identici a Franco Fiorito, per il semplice fatto che sono identici a Franco Fiorito anche adesso. Non si cambia un paese se non cambia il suo popolo, non migliora un paese se non migliorano le persone, la loro cultura, le loro ambizioni. Il mito della “democrazia diretta” non mi cattura perché non tiene conto di un micidiale dettaglio: se a decidere direttamente chi dovrà rappresentarli sono i Franco Fiorito, eleggeranno in eterno Franco Fiorito.
Michele Serra, L'amaca, La Repubblica del 20/09/2012)
Don Puglisi e l'auto bruciata
Il diciannovesimo anniversario della morte
di don Puglisi si può raccontare parlando della beatificazione che sarà
celebrata a Palermo il 25 maggio 2013. Oppure lo si può leggere attraverso un
episodio accaduto nella notte tra il 12 e il 13 settembre. Cioè nei giorni in
cui nel quartiere e in città, con diverse manifestazioni, si ricordava quanto
avvenne quella sera del 15 settembre 1993. C'era (e c'è) una macchina
completamente bruciata dentro un parcheggio privato. A venti metri del busto in
marmo raffigurante Puglisi, posto al centro della piazza con la corona di
alloro ancora fresca. A non più di quaranta metri, che sono ancora meno dei
cento passi famosi, dalla chiesa di S. Gaetano. Dove don Pino visse gli ultimi
suoi tre anni di sacerdozio e di vita. Il mezzo appartiene ad un giovane
commerciante, un artigiano orafo, che si è esposto a viso aperto nella
battaglia antiracket. Forse cortocircuito, ma che le auto brucino per questo
motivo è davvero molto improbabile, forse un attentato ben camuffato. In ogni
caso, visto la persona a cui è capitata la disavventura e il rione in cui
avviene il fatto, un fatto inquietante.
Che richiederebbe, proprio nel quartiere
che fu di Puglisi, qualche gesto deciso e concreto di solidarietà. Invece si è
soltanto registrato un gelido silenzio. Si può dare una chiave di lettura,
partendo da questa circostanza, su come arriva, nel luogo della sua profezia,
l'eredità di Puglisi alla beatificazione? Si può provare. Anche perché
l'indifferenza di oggi fa a pugni con le parole chiare e nette che don Pino
pronuncio in un'omelia domenicale dell'estate del 93. Qualche mese prima che un
proiettile alla testa lo fermasse per sempre schiantandolo su un marciapiede
sotto casa. Rosso in viso e con le grandi orecchie infiammate dalla rabbia,
dall'altare commentava molto duramente, facendo arrivare aperta solidarietà
alle vittime e invitando i fedeli ad andarli a trovare, l'incendio notturno
delle porte di tre componenti del Comitato Intercondominiale Hazon. Con il
quale lui lavorava da tempo nel territorio per portare diritti e servizi senza
chiedere una lira di finanziamenti pubblici, anzi rimettendoci di tasca sua.
Ancora non si sapeva, lo diranno i
processi, i pentimenti successivi e le sentenze, ma erano stati gli scagnozzi
della famiglia mafiosa locale a compiere l'operazione. Come si permettevano
quegli inermi cittadini, non legati a qualche potente della politica, ed un
parroco con i gomiti dei maglioni mal rattoppati, a chiedere che a Brancaccio
si potesse vivere dignitosamente? Puglisi non attese gli esiti delle indagini.
Da persona nata e cresciuta in quei luoghi, seppe subito in che direzione
guardare e cosa dire pubblicamente per non lasciare da sole le vittime
dell'attentato incendiario. Da quel grido di accusa di allora e dal silenzio
odierno si sono fatti passi in avanti o indietro? Se non vogliamo vestirci
dell'antimafia retorica delle ricorrenze, un abito che a molti piace indossare,
bisogna ammettere che si è tornati parecchio indietro. E non soltanto per
l'episodio citato.
Nel rione è tornata, più forte dei tempi
di Puglisi e che lui volle combattere con tutte le sue forze sino alla fine,
una cappa micidiale di indifferenza e paura. Che si mescola con i piccoli gesti
della criminalità spicciola, comprese attività di abusivismo selvaggio e
predatorio o spaccio di sostanze stupefacenti, che avvengono alla luce del
sole, e le grandi manovre della mafia, sempre presente. Basta farsi una
passeggiata nei luoghi che furono di don Pino, e prima di lui di un altro
coraggioso parroco, Rosario Giuè, di cui poco si parla nelle ricostruzioni
storiche, per rendersi conto della distanza che intercorre tra la
beatificazione di maggio e la realtà che connota uno dei posti da cui dipende
la salvezza o la dannazione di Palermo. E forse dell'intera Sicilia.
Francesco Palazzo, Centonove del 21 9 2012 - Pag. 46