E così era finito anche quest’anno scolastico.
Forse l’ultimo, per nostra signora. Un anno bellissimo, perché i suoi meravigliosi alunni erano stati tutti e 24 meritatamente promossi, ed erano cresciuti nel vasto mare della conoscenza e della maturazione personale.
Ma, nello stesso tempo, un anno difficile, in una scuola dove si faticava a trovare un senso condiviso nello stile relazionale e nei progetti didattici, una scuola piena soprattutto di circolari burocratiche, di grafici e cifre altisonanti da inserire nel RAV e nel PTOF.
Anche quest’anno, come referente alla dispersione scolastica, nostra signora si era comunque occupata di ragazzi sperduti. Tra i tanti, uno era M., un ragazzo già bocciato in terza elementare – Non era venuto a scuola perché la famiglia viveva in un container, avevano detto candidamente le colleghe della primaria – e poi bloccato per tre anni in prima media, perché, ad avviso di alcuni docenti, non aveva bisogni educativi speciali. M., ormai quasi sedici anni, sembrava confinato a vita nel limbo dell’insuccesso scolastico.
A novembre, la madre di M., mani rosse e spellate per la troppa candeggina utilizzata a pulire le case degli altri, con le lacrime agli occhi aveva chiesto aiuto per quel povero figlio, il maggiore di tre maschi: “Professoressa, lo aiuti a prendere la licenza media. Poi andrà a fare il muratore con suo padre …” Così fu trovata un’associazione di volontariato che accolse il ragazzo, fu concessa l’istruzione familiare e l’alunno a giugno conseguì da candidato esterno la licenza media.
E poi c’era S., un tredicenne di una seconda media un po’ turbolenta dove, come referente alla dispersione, nostra signora supportava una collega nella gestione della classe. S. – lui sì, per fortuna - già dall’anno scorso era considerato alunno con BES (bisogni educativi speciali); addirittura – secondo qualche docente – ci sarebbe stato anche un lieve ritardo mentale non riconosciuto dall’ASP.
La referente alla dispersione, con gentile pazienza, in classe si sedeva accanto al tredicenne, un omone di un metro e ottanta, per guidarlo nella comprensione di alcuni esercizi. Aveva così scoperto che S. giocava a calcio, già da piccolino. Ed era bravissimo a parare, con quelle mani grandi grandi. E che quindi, tre volte a settimana, si allenava a calcetto. “Da che ora a che ora?”. Lo sguardo smarrito del ragazzo diceva che era capace di leggere solo un orologio digitale.
“Hai voglia di imparare a leggere l’ora anche in un orologio con le lancette?” “Sì, se non è troppo difficile …” “Non c’è niente di troppo difficile: ci sono solo cose che ancora non si sono capite.”
E così, d’accordo con l’insegnante della classe, ci si reca in una stanzetta vicina e, con l’ausilio di un orologio a muro, S. impara a leggere l’ora: quadrante, lancetta lunga, lancetta corta, ore, minuti … E lo impara anche in inglese. I suoi occhi hanno un guizzo di gioia.
What time is it? It’s time you believe in yourself …
Maria D’Asaro
Storie che conosco benissimo... sembrano cose piccole, ma sono grandi risultati, perché in realtà permettono di comprendere che tutti, con i propri modi e le proprie specificità, possono imparare e riuscire. Per me, la scuola vera è solo quello che succede in classe. Se non ci fosse tutto il resto (scartoffie, burocrazie, graduatorie ecc ecc) sarebbe tutto molto più leggero e tutti potrebbero dedicarsi anima e corpo ai ragazzi.
RispondiElimina@Veronica: "la scuola vera è solo quello che succede in classe". Proprio così, cara collega. Buona estate.
EliminaStorie di scuola autentica. Davvero è l'ultimo anno?
RispondiElimina@Rossana: Sì, ultimo anno. Ho cominciato a lavorare a vent'anni (ho cominciato come bancaria e mi sono laureata studiando di notte e il sabato e la domenica. Poi ho vinto un concorso a cattedra e ho lasciato il lavoro in banca per insegnare). Buona estate. Saluti cordiali.
EliminaCara Maria, la scuola dovrebbe essere popolata solo di " nostre Signore ": anime sensibili, delicate, empatiche e preparate in grado di accogliere e prendersi cura delle fragili esistenze che hanno innanzitutto bisogno di qualcuno che creda in loro.
RispondiElimina@adrinviaggio: Cara collega, sorella nel cuore e nell'animo, tenterò - magari in altri modi - di continuare a prendermi cura delle fragili esistenze che mi capiterà di incontrare per strada ... Un abbraccio.
EliminaDice un proverbio: "Un buon insegnante è come una candela, si consuma per illuminare la strada per gli altri." I tuoi ragazzi non hanno camminato alla cieca e so che continuerai a tenere la fiammella accesa.
RispondiElimina@Santa: mamma mia, che cose belle che scrivi ... Mi fai commuovere. Un abbraccio affettuoso.
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