domenica 5 aprile 2020

Coronavirus, la fine della società ‘liquida’

            Palermo – Con la pandemia da Covid 19, l’orologio della Storia ha battuto un brutto colpo di sorpresa, ha paralizzato il mondo e ha reso spettrali tutti i luoghi simbolo delle metropoli mondiali: la Fifth Avenue a New York, il viale Unter den Linden a Berlino, la nostra splendida piazza san Pietro a Roma. Anche senza essere storici di professione, sappiamo che il 2020 passerà tristemente alla Storia. E che dopo niente sarà più come prima. 
        Illuminanti a questo proposito – pubblicate dal quotidiano “La Sicilia” del 17 marzo scorso - le riflessioni del professor Giovanni Salonia, frate cappuccino e psicoterapeuta, professore di Psicologia sociale e direttore scientifico dell’Istituto di Gestalt Therapy Kairòs. Eccone una sintesi:
            “Ad un tratto la società perde la definizione ormai pluriennale di ‘società liquida’ (che dobbiamo a Bauman) per ritrovare un Noi collettivo, che ci fa ritrovare tutti connessi dal tessuto della paura e dalla voglia di vivere. Ed ecco il ritorno degli eroi. Nei tempi normali viene chiesto agli umani di essere giusti, ma nei tempi di pericolo abbiamo bisogno di eroi. E anche questa volta ne troviamo tanti: donne e uomini che rischiano la vita per proteggere la vita degli altri. Pochi o tanti che siano i limiti della sanità, oggi dobbiamo riconoscere che l’Italia ha personale ospedaliero di eccellenza (…). 
Prof. Giovanni Salonia
               Una prima riflessione. Già nel secolo scorso alcune malattie hanno fatto crollare l’iniziale illimitata fiducia nelle scoperte della medicina. Adesso il coronavirus distrugge anche la speranza illusoria che sia sufficiente il contenimento dei conflitti internazionali ad evitare catastrofi simili a quelle di una guerra. Dalle varie ipotesi causali (…) emerge comunque una certezza: siamo sempre ‘gettati nella vita’. Non potremo mai essere noi a donarcela e non ne saremo mai i dominatori assoluti. Gettati nella vita ma anche gettati nella morte, in questo indissolubile connubio tra eros e thanatos. 
        E, ironia della sorte: questo virus uccide solo gli umani. Dopo il primo passo – accettare di essere mortali, indagare con rigore sulle cause immediate del virus e sulle eventuali insufficienze nel combatterlo –, il secondo passo che ci viene chiesto riguarda proprio il “come” vivere questo attraversamento, questi coronavirus/day. 
    Punto di partenza è ricordarsi che quando diciamo che la realtà è ‘plastica’ intendiamo affermare che la realtà non è un’entità rigida, ma prende forma dal modo in cui noi la viviamo, dal significato in cui la inscriviamo e dall’energia con la quale l’affrontiamo. Ecco perché si rende necessario non solo avere informazioni tecniche, ma anche possedere una sorta di know/how antropologico per trasformare il dato di realtà in esperienza umana.
Da qui, una seconda riflessione. Il coronavirus ci chiede di cambiare in modo radicale i nostri stili personali e relazionali.
Il compianto prof. Zygmunt Bauman
          Da una società (…) fatta di legami liquidi, nella quale il modello relazionale era paritario, il coronavirus day ci ha riportati ad una società in cui vige un modello relazionale Noi, che emerge a causa di un pericolo collettivo e quindi alla necessità di un assetto sociale verticistico. Nel coronavirus-day si ha bisogno di direttive univoche e chiare: anche i governanti devono tener conto, in modo determinante, non delle appartenenze partitiche ma del parere dei tecnici per salvare ogni uomo. E devono comunicare in modo efficace. A questo punto si inserisce un’emergenza educativa: far comprendere ai nostri giovani che ciò che abbiamo con loro vissuto e a loro insegnato (il dialogo, l’ascolto di ogni parere, l’esprimere se stessi) è adeguato ad un tempo di non-emergenza, ma diventa dannoso in tempo di pericolo, quando abbiamo invece bisogno di un capo esperto che sappia come tirarci fuori dal pericolo. Maturità in questo tempo è tornare ad essere ‘ubbidienti’. (…) Ogni emergenza ci ridà il Noi. Ma è necessario sottolineare che questo non è il Noi della reciprocità (l’andare all’altro quando si sta bene). Nel Noi creato dalla paura e dalla ricerca di sicurezze emergono barriere e non matura un vero interesse per l’altro, anzi talvolta si sviluppano appartenenze-contro (si può cantare ‘Fratelli d’Italia’ per separarsi dagli altri fratelli). 
        (…) Ancora, il coronavirus, come ogni emergenza, ci impone un riposizionamento della nostra intima gerarchia di valori. Riaffiorano con sfumature diverse o con valenze significative valori che abbiamo trascurato. Si impone quindi la necessità di ritrovare noi stessi, di tornare a noi stessi, di fermarsi in attesa che ‘arrivi l’anima’. (…) Il corpo corre, l’anima va lenta. Adesso ridiamo spazio all’anima, e cioè alle nostre emozioni, al nostro mondo interiore, alle poesie, alla musica, all’arte, a tutto ciò che ci fa abitare il nostro mondo. 
Dobbiamo abitare – suggerirebbe Paul Ricoeur – le parti di noi che abbiamo trascurato (lo straniero che a volte siamo a noi stessi). Tornare a casa e tornare a sé stessi sono eventi intimamente connessi. (…) Sarà impegnativo in alcune situazioni sentirsi costretti in spazi ridottissimi, stare tanto tempo gomito a gomito anche con persone care, rischiare di perdere il senso della libertà. Quante battute virali sottolineano lo stress a cui si può essere sottoposti non avendo una ‘uscita di sicurezza’ da casa e dai legami! 
         Forse sarà necessario chiedere aiuto. Forse potremo anche qui inventare strade in cui interiorità e incontro circolano in modo condiviso, rasserenante e arricchente. Un’attenzione speciale va data ai bambini. Riprendere a raccontare storie e favole, a giocare con loro, in modo che sperimentino (loro ma anche noi) come una conversazione o una condivisione di esperienza hanno un calore e una forza mai immaginati. 
          Infine, siamo chiamati a vincere la spinta a chiuderci tipica della paura (ci salviamo solo io e i miei) e a restare aperti ai bisogni dei più deboli: gli anziani, gli immunodepressi, chi non ha casa, chi rischia il lavoro, chi è sull’orlo del precipizio. Una società costruisce un vero Noi se si prende cura dei più deboli. (…). 
      Forse per ognuno di noi il coronavirus segna il tempo in cui scoprire la nostra chiamata a diventare ‘eroi’, artisti della nostra vita, come canta Emily Dickinson: “Non conosciamo mai la nostra altezza finché non siamo chiamati ad alzarci”.

Maria D’Asaro, 05.04.2020, il Punto Quotidiano

4 commenti:

  1. Il virus ha fatto cadere tante sicurezze di questa società, ci vuole un grande cambiamento, per costruire un mondo più giusto.
    Saluti a presto.

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  2. Credo che alcune cose, alcuni principi anche economici cambieranno con la fine della pandemia, credo che tutti noi saremo più consapevoli che la società basata sul precariato debba essere abbandonata e noi stessi dovremo essere più solidali con il prossimo. Non dovranno cambiare le nostre libertà individuali, tutte le restrizioni al momento in essere dovranno essere cancellate.

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    1. @Daniele: la penso così anche io. Saluti cordiali. E grazie sempre per l'attenzione.

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