Joaquin Sorolla: Dopo il bagno (1915) |
Era il 30 novembre 2008 quando nostra signora mise in rete il suo primo pezzo: “Il battesimo degli alberi”.
Oggi il blog compie dodici anni. Sta diventando grande, come sua madre…
Dal quotidiano “La Sicilia” (29.11.20), una sintesi dell’articolo del professore Giovanni Salonia: il pezzo evidenzia magistralmente l’importanza delle parole. Anche per nostra signora, come per il professore Salonia, le parole sono la musica dell’anima.
"Sartre aveva torto. L’inferno non sono gli altri. L’inferno è la loro mancanza. Dal trono della sua inconsapevole cattiveria (…), il virus non è riuscito a congelare uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano. Anzi lo ha enfatizzato. Senza gli altri, senza il contatto cordiale con gli altri, sentiamo freddo. O meglio, ci sentiamo freddi e ci intristiamo. (…)
Il terrore di morire da soli accomuna gli ammalati e coloro che li amano, di fronte all’incubo di quel ricovero in ospedale che scava un tunnel di separazione e di isolamento. (…)
Oggi il poeta non può cantare: “Che dici? / Se ti abbraccio forte forte, / ho qualche chance in più/di scampare alla morte? “(Marcoaldi). Oggi la madre di Ben non potrà dire a suo figlio, stringendolo a sé, che l’abbraccio è stato inventato per unire le solitudini (Grossman). “Non ti abbraccio perché ti amo”: è questa la nostra terribile realtà. Come evitare allora che questo inferno della solitudine non contagi la nostra esistenza? Come evitare che l’impossibilità di abbracciarci ci inaridisca, blocchi il consegnarsi dell’anima? E come riscaldare i nostri incontri senza abbracci?
Non ci sono altre vie. Ci sono rimaste le parole. È la loro forza, è il loro potere l’unico antidoto alla solitudine, alla mancanza, all’inverno degli affetti. Certo, le parole possono unire e separare, farci incontrare e farci disperare, accarezzare e pugnalare. A volte sembrano ubbidirci. Creano calore vicinanza, magia, placano i cuori. Altre volte sembrano allontanarci. Generano malintesi, impediscono la condivisione (quanti equivoci quotidiani nei messaggi scambiati su WhatsApp o sui socia!).
Per questo, è come se dovessimo imparare di nuovo a parlare, ricominciare a cogliere, delle parole, la potenza e il mistero. Ricordiamocelo: in principio le parole sono musica. La loro prima forma, la lallazione, è una lingua dell’incontro e non del significato. Così come pura musica è per il neonato la parola materna, sin dal grembo. La musica non conosce ostacoli, arriva dovunque, al cuore di ognuno.
Mentre non possiamo abbracciarci, impariamo allora ad ascoltare la musica delle parole, a raggiungerci sin nel profondo, scrivendo nel corpo dell’altro il nostro affetto, come se l’aria, la carta o lo schermo su cui le stampiamo fossero il corpo di quelli che amiamo. Non si tratta di imparare la retorica, di fare bei discorsi, ma di dire, sentendole, assaporandole, quelle poche parole che toccano e ci toccano.
Iniziando dal nome. Come diciamo ogni giorno il nome dell’altro che non possiamo toccare? Torniamoci su, risentiamo la musica del chiamare. Rimasi affascinato, un giorno, quando mi trovai a leggere la dedica che Erving Polster, uno dei grandi maestri della Gestalt Therapy, aveva voluto all’inizio di un suo libro: “A Miriam, Sara e Adam. Mi piace dire i loro nomi”. Erano i nomi di sua moglie e dei suoi due figli. Pensai subito a Francesco d’Assisi: i nomi di quanti ci stanno a cuore hanno il sapore del miele sulle labbra. Ricominciamo a dire i nomi così, con questa intensità, con questa gioia. (…) Diciamoci: “stasera sento gratitudine”; “adesso mi sento riscaldato”. E diciamoci il perché. Condividere cosa ci accade dentro genera legami e calore. Anche le esperienze sgradevoli si possono comunicare così, esprimendo il bisogno, il desiderio, le attese che pur se deluse dicono un sogno, una speranza. È questo il segreto: ogni parola deve emergere dal corpo di un io e avere un tu, avere un corpo a cui è intimamente rivolta. Quando si parla senza rivolgersi a un tu, le parole si moltiplicano, non ci si sente mai sazi di parlare, si ha l’esperienza terribile di parlare a vuoto. È il parlare senza direzione. (…)
Ascolta la parola dell’altro, come Vasudeva, il vecchio barcaiolo di Siddharta, ascoltava il linguaggio del fiume. Se farai spazio alla sua musica, gli restituirai la parola giusta. Guardandolo negli occhi, realmente o idealmente. Perché la parola, avida di vita e spogliata dell’alleanza di un abbraccio, di una carezza, di una mano tesa, giunga dagli occhi all’anima. Ancora una volta, mi dico, aveva ragione il mio amico poeta: “Solo parole abbiamo/ per trovarci/ e d’amore il filo / che resiste” (Alberto Melucci).
Su Facebook può bastare un cuoricino... Ma qui, nella dimora di Nostra Signora, concedimi un abbraccio verbale, in linea con la profondità spirituale di questo sostanzioso post. Auguri di cuore agli splendidi dodicenni Mari, dunque, e grazie per la rara costanza con cui ne rinnovi l'azzurro: le tue sagge pennellate, ogni volta, rinfrancano l'anima.
RispondiElimina@DOC: grazie per l'apprezzamento affettuoso espresso con parole scelte con cura straordinaria. Ricambio l'abbraccio.
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