giovedì 24 novembre 2022

L'umanità nuova, secondo Erich Fromm

Joan Mirò: Cifre  e costellazioni amorose (1959)
    A mio giudizio, il carattere umano può mutare a patto che sussistano le seguenti condizioni:
1.Che si sia consapevoli dello stato di sofferenza in cui versiamo
2.Che si riconosca l’origine del nostro malessere
3.Che si ammetta che esiste un modo per superare il malessere stesso.
4.Che si accetti l’idea che, per superare il nostro malessere, si devono far nostre certe norme di vita e mutare il modo di vivere attuale. (…)

La funzione della nuova società è di incoraggiare il sorgere di un uomo nuovo, la cui struttura caratteriale abbia le seguenti qualità:

-Disponibilità a rinunciare a tutte le forme di avere, per essere senza residui.
 -Sicurezza, sentimento di identità e fiducia fondate sulla fede in ciò che si è, nel proprio bisogno di rapporti, interessi, amore, solidarietà con il mondo circostante, anziché sul proprio desiderio di avere, di possedere, di controllare il mondo, divenendo cosí schiavo dei propri possessi.
 -Accettazione del fatto che nessuno e nulla al di fuori di noi può dare significato alla nostra vita, ma che questa indipendenza e distacco radicali dalle cose possono divenire la condizione della piena attività volta alla compartecipazione e all’interesse per gli altri.
 -Essere davvero presenti nel luogo in cui ci si trova.
-La gioia che proviene dal dare e condividere, non già dall'accumulare e sfruttare.
-Amore e rispetto per la vita in tutte le sue manifestazioni, con la consapevolezza che non le cose, il potere e tutto ciò che è morto, bensì la vita e tutto quanto pertiene alla sua crescita hanno carattere sacro.
-Tentare di ridurre, nel limite del possibile, brama di possesso, odio e illusioni.
-Vivere senza adorare idoli e senza illusioni, perché si è raggiunta una condizione tale da non richiedere illusioni
-Sviluppo della propria capacità di amare, oltre che della propria capacità di pensare in maniera critica senza abbandonarsi a sentimentalismi.
-Capacità di rinunciare al proprio narcisismo e di accettare le tragiche limitazioni implicite nell’esistenza umana.
-Fare della piena crescita di se stessi e dei propri simili lo scopo supremo dell’esistenza.
-Rendersi conto che, per raggiungere tale meta, sono indispensabili la disciplina e il riconoscimento della realtà di fatto.
-Rendersi inoltre conto che una crescita non è sana se non avviene nell’ambito di una determinata struttura, ma in pari tempo riconoscere le differenze tra la struttura intesa quale un attributo della vita e l’”ordine” inteso quale un attributo della non vita, di ciò che è morto.
-Sviluppare la propria fantasia, non come una fuga da circostanze intollerabili, bensì come anticipazione di possibilità concrete, come un mezzo per superare circostanze intollerabili.
-Non ingannare gli altri, ma non lasciarsene neppure ingannare; si può accettare di essere definiti innocenti, non ingenui.
-Conoscere se stessi, intendendo con questo non soltanto il sé di cui si ha nozione, ma anche il sé che si ignora, benché si abbia una vaga intuizione di ciò che non si conosce.
-Avvertire la propria unicità con ogni forma di vita, e quindi rinunciare al proposito di conquistare la natura, di sottometterla, sfruttarla, violentarla, distruggerla, tentando invece di capirla e di collaborare con essa.
-Far proprio una libertà che non sia arbitrarietà, ma equivalga alla possibilità di essere se stessi, intendendo con questo non già un coacervo di desideri e brame di possesso, bensì una struttura dal delicato equilibrio che a ogni istante si trova di fronte alla scelta tra crescita o declino, vita o morte.
-Rendersi conto che il male e la distruttività sono conseguenze necessarie del fallimento del proposito di crescere.
-Rendersi conto che solo pochi individui hanno raggiunto la perfezione per quanto attiene a tutte queste qualità, rinunciando d’altro canto all’ambizione di riuscire a propria volta a “raggiungere l’obbiettivo”, con la consapevolezza che un’ambizione del genere non è che un’altra forma di bramosia, un’altra versione dell’avere.
-Trovare la felicità nel processo di una continua, vivente crescita, quale che sia il punto massimo che il destino permette a ciascuno di raggiungere, dal momento che vivere nella maniera più piena possibile al singolo è fonte di tale soddisfazione, che la preoccupazione per ciò che si potrebbe o non si può raggiungere ha scarse possibilità di rendersi avvertita.

Erich Fromm: Avere o essere? (Mondadori, 1981, Milano, pagg.218-223)

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