‘Scantusu’ viene da ‘scantu’, spavento, e significa tanto cosa che fa paura quanto chi è di natura pauroso.
Nel 1911 Luigi Pirandello dettò una lapide per l’inaugurazione delle scuole elementari del mio paese, lapide che in una decina di righe condensa il tema de I vecchi e i giovani. Nel 1932 (o ‘33?) venne costruito sempre per le scuole un nuovo e più grande edificio, ma questa volta si vede che Pirandello non aveva nessuna voglia di dettare una nuova lapide: propose che il marmo inciso venisse staccato dalla parete vecchia e murato su quella nuova. Forse, a vent’anni e passa dalla dettatura della lapide, non aveva niente di nuovo da dire in proposito. Assicurò la sua presenza, e fu di parola.
E quindi un pomeriggio, verso le tre di dopopranzo, mentre me ne stavo in mutande a leggere un libro della collana Mondadori che si chiamava Il romanzo dei ragazzi, e i miei saporitamente dormivano – faceva caldo – sentii bussare alla porta e andai ad aprire. Il cuore mi fece un balzo. Davanti a me c’era un vecchio che mi sembrò gigantesco, con la barba a pizzo, vestito con una divisa che pareva d’ammiraglio, feluca, mantello, spadino, alamari, oro a non finire ricamato dovunque.
Non sapevo allora che quella era la divisa di accademico d’Italia. Mi guardò, mi domandò con un accento delle nostre parti: “Tu sei nipote di Carolina Camilleri?”.
“Sì” risposi tremando, quell’uomo era veramente scantusu.
“Me la puoi chiamare? Digli che c’è Luigino Pirandello che la vuole vedere”.
Entrai nella camera della nonna, la svegliai scuotendola.
“Nonna, c’è di là uno che si chiama Luigino Pirandello”.
La nonna saltò dal letto, buttò stralunata i piedi per terra, ebbi l’impressione che si fosse messa a lamentarsi mentre si vestiva. Corsi in camera da letto dei miei genitori, li svegliai, dissi che di là c’era un uomo scantusu che si chiamava Pirandello e che voleva vedere nonna Carolina.
La reazione di papà e mamma letteralmente mi atterrì.
Scappai verso un rifugio che sapevo sicuro, ma prima ebbi modo di vedere lo scantusu e mia nonna abbracciati, lei piangeva, lui la teneva stretta, le batteva una mano dietro le spalle e diceva che pareva si lamentasse: “Ah, la nostra giovinezza! La nostra giovinezza!”
Il seguito non lo seppi mai, perché mi nascosi sotto lo scagno di mio padre, mi tappai le orecchie e soffocai i singhiozzi.” (continua…)
Andrea Camilleri, Il gioco della mosca, Sellerio, Palermo, 1999, pagg 71-73
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