sabato 27 gennaio 2024

Egregio dottor Levi...

(Lettera postuma a Primo Levi, che inizia così:)


     Egregio dottor Levi,
                                         solo di fronte al mare, nella luce dorata dell’agosto siciliano, sono riuscita a ripercorrere la sua via crucis e a leggere molti suoi scritti. Tra una pagina e l’altra, mi sono spesso fermata, perché mi mancava il respiro… L’azzurro del mare mi aiutava a continuare il viaggio doloroso, come se l’acqua lenisse un pochino l’angoscia di condividere quello che le era accaduto ad Auschwitz, nella baracca n.45.

       Lei, appena fuori da Auschwitz, ci ha presentato Hurbinek: “un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, non sapeva parlare (…) Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava (…) premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano a un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena”. 
      Hurbinek, “non aveva mai visto un albero; (…) aveva combattuto come un uomo (…) per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; morì ai primi giorni del marzo 1945, libero, ma non redento”.
    Poco prima, avevamo incontrato Sòmogyi, il chimico ungherese moribondo compagno nell’infermeria del campo nel gennaio del ‘45, nei giorni senza fondo sospesi tra la fuga dei tedeschi e l’arrivo dei russi.
     Sòmogyi che “seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare ‘Jawohl’ ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, ‘Jawohl’ ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola”.
Abbiamo saputo di cosa fossero impastati i suoi sogni, negli interminabili incubi del sonno nel Lager. (…)
(La lettera si conclude così:)

    Come salutarla, dottor Levi? Con un immenso grazie. 
Leggere i suoi scritti dilata i nostri orizzonti e ci rende migliori, capaci di gioire delle piccole cose che la vita ci offre: le nostre tiepide case, un piatto di lasagne, i maglioni di lana, la doccia calda, le posate, lo spazzolino da denti… l’acqua fresca d’estate con uno spicchio di limone, il cappuccino al mattino. 

    E poi, caro dottor Levi, raccogliamo il testimone.
Lasciato ai piedi delle scale del suo palazzo, quell’undici aprile del 1987. Manterremo vivo il ricordo, per abitare la casa della vigilanza e vestire l’abito dell’impegno etico e civile. 
Perché “chiunque, qualunque essere umano, può fare un’opera fondamentale. Non necessariamente un libro…  anzi, sono un’esigua minoranza coloro che possono scrivere un libro, ma qualcosa pure sì, per esempio educare un figlio, risanare un malato, consolare un afflitto”.

    Condividiamo le parole di Edgar Morin, che lei avrebbe apprezzato: “Siamo perduti, ma abbiamo un tetto, una casa, una patria; il piccolo pianeta in cui la vita si è creata il proprio giardino, in cui gli esseri umani hanno formato il loro focolare, in cui ormai l’umanità deve riconoscere la propria casa comune (…). Dobbiamo essere fratelli, non perché saremo salvati, ma perché siamo perduti. Dobbiamo essere fratelli per vivere autenticamente la nostra comunità di destino di vita e di morte terreni. Dobbiamo essere fratelli perché siamo solidali gli uni con gli altri nell’avventura ignota”.


Maria D’Asaro, Una sedia nell’aldilà
Diogene Multimedia, Bologna, 2023 pagg.101,102,124

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