lunedì 1 luglio 2013

Saluti e baci


Per i palermitani che passano in via Crispi, di fronte al carcere dell’Ucciardone, la scena è piuttosto consueta: un grappolo di donne, attorniato da due o tre bambini, cerca di comunicare con un detenuto con ampi gesti e con frasi urlate perché il congiunto possa udire qualcosa. Mentre i piccolini, tenuti in braccio perché possano essere intravisti un po’ meglio, lanciano baci con le manine. Il tutto tra lo sguardo indifferente delle guardie che sorvegliano i cortili esterni della prigione. Certo, l’uomo che i parenti salutano è in carcere per un qualche reato: magari spaccio di droga, rapina a mano armata o affiliazione a Cosa nostra. Però, per quel quadretto di donne, l’uomo è solo un marito, un fratello, un figlio, un papà segregato. Allora si prova una pena infinita per queste creature tanto disperse. Vorresti che il bimbo piccino, quel suo papà dietro le sbarre, possa presto abbracciarlo davvero.    
                                                                Maria D’Asaro (“Centonove”, n.25 del 28.06.2013)

6 commenti:

  1. Questo post è difficile da commentare, ti si stringe il cuore e non sai cosa dire, ma mi hai fatto venire in mente una poetessa russa sublime: Anna Achmatova e il suo "Requiem" scritto per tutte le donne che fanno la fila davanti alle carceri. A lei arrestarono e fucilarono prima il marito e poi l'unico figlio.
    E' una testimonianza bellissima di umanità e grandezza!
    Così invece di un commenti, un brano di una donna che ha dato voce a questa pena, come hai fatto tu con questo post:

    ANNA ACHMATOVA
    REQUIEM

    In luogo di prefazione

    Nei terribili anni della "ezovscina" ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado.
    Una volta un tale mi "riconobbe". Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridesto’ dal torpore proprio a noi tutti e mi domando’ all’orecchio (li’ tutti parlavano sussurrando): - Ma lei puo’ descrivere questo? E io dissi: - Posso. Allora una specie di sorriso scivolo’ per quello che una volta era stato il suo volto.

    I aprile 1957. Leningrado

    *

    Dedica

    Davanti a questa pena s’incurvano i monti,
    Non scorre il grande fiume,
    Ma tenaci sono i chiavistelli del carcere,
    E dietro ad essi le "tane dell’ergastolo"
    E una mortale angoscia.
    Per chi spiri il vento fresco,
    Per chi sia delizia il tramonto,
    Noi non sappiamo, siamo ovunque le stesse,
    Sentiamo solo l’odioso strider delle chiavi
    E i passi pesanti dei soldati.
    Ci si alzava come a una messa mattutina,
    Si andava per la capitale abbandonata,
    La’ ci s’incontrava, piu’ inanimate dei morti,
    Il sole piu’ in basso e piu’ nebbiosa la Neva,
    Ma la speranza canta sempre di lontano.
    La condanna... E subito sgorgano le lagrime,
    Ormai divisa da tutti,
    Come se con dolore la vita dal cuore le strappassero.
    Come se con rozzezza la rovesciassero indietro,
    Ma cammina... Barcolla... Sola...
    Dove sono ora le amiche occasionali
    Di questi due miei anni maledetti?
    Che appare loro nella bufera siberiana,
    Che balugina nel disco lunare?
    A loro invio il mio saluto d’addio.

    Marzo 1940

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  2. Via Enrico Albanese, n.2 – Palermo

    Questo era l'indirizzo a cui scrivevo delle letterine, ogni tanto. Le inviavo a mio padre, quando lui era all'Ucciardone. Ogni mercoledì mattina andavo a trovarlo, quando gli impegni di scuola me lo consentivano. Avevo 14 anni. Mi padre era un mafioso, ma io non sapevo bene cosa volesse dire. Quattro anni dopo, uscì di prigione, era uno splendido giorno di primavera. Ma dopo dopo sette mesi, l'inverno era alle porte. In una pallida alba autunnale, uscì di casa come ogni altro giorno, e non fece più ritorno. Non tornò a sera, ne l'indomani, nè dopo un mese. Non tornò più. Nel quartiere, ed in altre vie della città che lui frequentava, tutti si dicevano suoi amici: erano pronti a giurare che avrebbero fatto qualsiasi cosa per lui. Eppure quel maledetto giorno, nessuno lo aveva visto, nessuno sapeva con chi si fosse incontrato. Nessuna notizia mi giunse, nè palese, nè segreta. Aspettammo molti anni, per sapere dalle parole di un pentito, che fine aveva fatto. Nella famiglia di origine, qualcuno ha detto che lo avrebbe vendicato e qualcun altro, anni dopo, alludeva che tutto era compiuto.
    Questa è la mafia. Una cosa insita in un tessuto sociale vivo, come l'acqua fa parte delle cellule.
    C'è chi la mafia vive da vittima, e non ha importanza se sia un disperato, uno spacciatore, un trafficante di armi. O un carabiniere, il poliziotto di una scorta. Un magistrato che crede in quella Giustizia che non ha mai visto intorno a sé, da quando è nato. Non ha importanza nemmeno se si tratta della moglie o del padre o dell figlioletto di qualcuno che prima uccideva e che poi viene a sua volta ucciso.
    Non ha importanza, perchè sono tutte vittime, come il loro familiari. E come la gente che convive nella via. Questi sono coloro che hanno accettato il fatto, loro malgrado, che la mafia ha vinto.
    Ha vinto perché continua da qualche secolo a controllare le strade e le piazze, le decisioni politiche e tutto quello che può essere comprato e venduto. Continua, impunemente, a decidere quanto devono essere sporche le vie della città, nonostante tu, povera vittima, paghi i tributi, come paghi il soldo al posteggiatore. Continuerà a decidere a quanto ammonta quel tot in più, nei tuoi acquisti e nei tuoi tributi, che viene versato nel pizzo, voluto da tutti coloro che sanno come si fa ad imporre la propria volontà agli altri. Coloro che hanno progettato le stragi non solo nei particolari esecutivi, ma innanzitutto nella strategia, nel risultato atteso. E che, puntualmente, è andato a segno. Ha colpito il cuore, non dello Stato che non c'è, ma della vittima sociale che tu rappresenti.
    Non ha importanza, perciò, se un prete muore sparato nelle vie di Brancaccio. Forse gli daranno la medaglia, e diranno che era un eroe, un santo. Ma nessuno crederà in certe verità, poiché sono state insegnate al popolo con la falsità. E le loro parole progettate con strategia da “menti raffinatissime”, come le chiamò Falcone. Poichè falsi e strateghi sono coloro che professano la povertà dalla loro ricchissima balconata, e sanno che il loro messaggio giungerà ogni porta, ed ogni mente ed ogni cuore rassegnato. Il popolo crede in coloro che vincono, coloro che sanno farsi avanti, ed imporre la propria determinazione. È per questo che tutti continuano a pagare le tasse, a pagare il pizzo, a camminare sui pubblici rifiuti ed a respirarne i fumi tossici. Continuano a pensare che votando così piuttosto che cosà, le cose cambieranno. A pensare che, leggendo e diffondendo la “parola”, e facendo il segno della croce, la coscienza sarà a posto, avrà fatto ciò che doveva.
    Non ha nemmeno importanza se al posto della croce ciascuno ha messo il simbolo del partito o del sindacato. Della squadra di calcio, dell'azienda che ti offre il lavoro per vivere. O i prodotti da consumare.
    (Continua >>)

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  3. (Continua >>) Non ha importanza tutto ciò, così si rimane vittime che non sanno di esserlo.
    Ha importanza, invece, se si decide di costruire qualcosa di NUOVO insieme agli altri. Qualcosa che non può essere nulla di tutto quello che abbiamo già visto da secoli. Qualcosa di vivo, pulsante, capace di crescere e riprodursi. Non un'idea, o un insieme di ideali. Una realtà capace di essere indipendente, capace di sapersi sostenere in modo equilibrato senza dover chiedere un favore o un permesso. Capace di riportare su questo mondo l'armonia delle origini. Saranno origini divine o umane, non conta. Quello che conta è l'Essere.
    Per questo mi piace ciò che ha scritto Mari, perchè lei ha saputo mettersi per un istante nei panni e negli occhi degli “altri”. Ha compreso che non vi è differenza tra esseri umani, anche se stanno dalla parte opposta di una apparente barricata. O dei cancelli di una prigione, poiché nessuno sa quali siano i veri confini di quella prigione.
    Ciò che non mi piace del suo scritto, è il provare una “pena infinita”, di cui pure comprendo ed apprezzo il senso profondamente umano. Se la pena è infinita, infinito sarà il risultato. Perchè allora, non provi a sentire una gioia infinita?
    L'uomo e la donna del futuro dovranno uscire dalle loro pene infinite, se desiderano uscire dal dominio delle mafie. Poichè le mafie sono una parte di noi.
    Io ho avuto la fortuna di comprenderlo bene, perchè quello che tutti chiamano mafia io ce l'avevo in casa; lo vedevo nel quartiere, e ritrovavo le stesse persone che pregavano dentro quella chiesa dove mio padre e mia madre volevano che io entrassi la domenica. E le ritrovavo quando, ben vestite, portavano i loro figli all'altare della cresima e del matrimonio, non volendo interrompere una perfetta continuità.
    Io ho anche avuto la fortuna di capire, sin da piccolissimo, che quella vita non mi apparteneva, né io appartenevo ad essa. Non mi appartenevano né la violenza, né il perdono immotivato, frutto di un comune ideale portato da coloro che parlavano con falsità. Il perdono e la violenza non appartengono al cittadino; appartengono alla coscienza individuale, allo scopo più profondo dell'esistenza, che è e rimane individuale. Sono entrambi concetti “sacri” e personali, di cui nessuno può appropriarsi, pensando di colorarli con una etichetta o un simbolo.
    Io invece ho desiderato appartenere alla Gioia, non al dolore. E ci tengo a dichiarare che questo è il mio sentiero, nonostante tutto quello che è successo; e nonostante le mie cicatrici ogni tanto bruciano ancora.
    Io desidero vivere nella luce, e sono costantemente pronto a offrire la mia vita per questo.
    Grazie Mari, oppure scusa, se ho offeso alcuni tuoi sentimenti.
    Se ti piace, diffondi pure questo mio messaggio; pubblicalo se ritieni. Oppure puoi cancellarlo.
    Ma ti prego, e vi prego, di non rivelare a nessuno la mia identità, innanzitutto poiché non ha importanza. E poi, perchè questa è la mia volontà.

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  4. Caro anonimo, grazie per la tua testimonianza e per la tua accuratissima analisi. Non mi importa chi tu sia,sicuramente una persona eccezionale! Solo chi riesce a sviluppare una tale sofferenza umana e desiderare di vivere nella luce è luce. Sono d'accordo con te, desidero appartenere alla Gioia, non nel dolore. GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE raggio di luce!!!

    ARIS
    GRAZIE per la poesia piena di luce!!!

    MARUZZA
    Grazie per l'impegno sociale, spunto di toccanti interventi!!!
    Ti adorissimo!!!

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  5. Questi scritti mi mettono a disagio, rimescolano certezze, interrogativi e risposte. Sostanza limpida e nutriente, dove persino la sofferenza riesce ad assumere un ruolo luminoso, rivoluzionario. Nessuna utopia, qui: solo donne e uomini, che reclamano una società degna della loro dignità di esseri umani. Illuso è colui che pensa di poterla fondare sulla sofferenza, questa società; e anche imbecille, perchè non si rende conto che fa male a se stesso esattamente quanto agli altri.
    Ringrazio Maruzza per questa sua opera - a tutti gli effetti - umanitaria, e a seguire chi vi ha dato seguito con commenti così delicati.

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  6. @ARIS: Grazie di cuore per aver condiviso la poesia della Achmatova, poesia che è di una sovrumana bellezza. Un abbraccio.
    @Anonimo (anche se credo di conoscere la tua identità): grazie davvero del tuo contributo. Hai ragione: la pena infinita deve essere superata. Deve divenire, in ogni caso, gioia infinita. Non è facile: ma capisco quello che vuoi esprimere. Ma perchè la pena diventi gioia abbiamo bisogno di amare ed essere amati. Un abbraccio.
    @Pippi: grazie del tuo luminoso commento. Ti adorissimo anch'io! Un abbraccio.
    @DOC: quindi secondo te, io come l'ONU ... visto che mi attribuisci una capacità umanitaria. Scusa il babbìo, DOC e grazie per le tue riflessioni profonde e preziose. Grazie per la stima affettuosa con cui mi segui da anni. Un abbraccio.

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