(il Punto Quotidiano ha ripubblicato
qui la recensione il 25 agosto 2019)
315 pagine, nove racconti: il più lungo, che dà il titolo al libro, di pagine ne ha 51, il più breve, l’intenso e inquietante
Quello che si ricorda, solo 24; ogni storia è ricca ed emozionante, con una trama avvincente degna di un romanzo.
Nemico, amico, amante … (Einaudi, Torino, 2003, € 17,50, traduzione di Susanna Basso) di
Alice Munro, la scrittrice canadese che ha ricevuto nel 2013 il massimo riconoscimento per la Letteratura, è davvero un libro da Nobel.
Le storie della Munro ti catturano per lo stile in apparenza semplice, ma efficace ed accurato; per l’apparente “nonchalance” con cui l’autrice attraversa con sapiente leggerezza i grandi temi della vita: le relazioni familiari, le storie d’amore, la malattia, la morte; per la modalità quasi distratta ed obliqua con cui mette a fuoco i sentimenti, le emozioni recondite, l’anima più vera dei personaggi: ricordiamo l’indimenticabile Johanna, protagonista di Nemico, amico, amante …, che “nemmeno da giovane si sarebbe concessa certe stravaganze, e non solo per una questione di soldi, ma per la presunzione che avrebbero significato, per la speranza immodesta di meritare una simile trasformazione, e la felicità.”; l’incontro disinvolto e delicato tra Jinny e il giovane Ricky ne Il ponte galleggiante; in Conforto, il prof. Lewis, ateo ostinato, e sua moglie Nina, che bacia l’impresario delle pompe funebri; la fuggitiva Queenie, nel racconto omonimo, e la zia Alfrida in Mobili di famiglia. In Ortiche, la scrittrice ci offre con poche, essenziali pennellate il delicato sentimento di attrazione tra due bambini: “Nel sentimento per Mike il demone localizzato si trasformava in un’eccitazione diffusa e in una tenerezza sotto pelle, un piacere degli occhi e delle orecchie e una gioia cristallina in presenza dell’altro”.
Sebbene il lettore avverta – con piacere, se donna – il tocco femminile di queste storie, Alice Munro contempla e tratteggia con acuta sapienza espressiva alcune differenze di fondo tra l’animo degli uomini e quello delle donne, magari in una casa di riposo, di fronte alla vecchiaia: “I parenti arrivavano a grappoli. Di solito capeggiati da madri allegre e insistenti che guidavano il gregge di uomini e figli. Gli unici a non mostrare apprensione erano i piccolissimi. (…) Certi insistevano con giochi nonostante i rimproveri, e dovevano essere riportati di peso alla macchina. E con quale gioia, con quanta sollecitudine, fratelli maggiori e padri si offrivano di occuparsi dell’allontanamento, approfittandone per mettere fine alla visita.”
Tutti i racconti sono calati in un topos specifico, nel paese dell’autrice, il Canada, spesso in piccole cittadine vicino al lago Ontario; ma i tipi umani rappresentati, così bene analizzati nelle loro pulsioni interiori, non risultano affatto appesantiti dalla collocazione in uno spazio e in un tempo definiti. E poi la Munro possiede un’eccellente dote narrativa: quella di contrarre e dilatare a piacimento la dimensione temporale: in quasi tutti i racconti la scrittrice si dimostra capace di farci viaggiare avanti e indietro nella vita dei personaggi con disinvolta maestria. Nella sua penna esperta, il tempo non è altro che la “distensio animae” di agostiniana memoria: “ciò che viene misurato dall' anima non sono le cose nel loro trascorrere, ma l' affezione che esse lasciano e che permane nella nostra anima anche quando esse sono trascorse.” (Sant’Agostino, “Confessioni”).
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Alice Munro |
Nei nove racconti, la scrittrice alterna due registri narrativi: sei storie sono scritte in terza persona, le altre,
Mobili di famiglia, Ortiche e Queenie, in prima persona. In queste tre storie, si avverte qualcosa di autobiografico: ad esempio, quando l’autrice accenna al doloroso vissuto di una separazione coniugale: “C’erano tristezze che riuscivo a sopportare, quelle legate agli uomini. Poi ce n’erano altre - legate ai figli – che non potevo reggere”. E infine, come non pensare che la chiusa di Mobili di famiglia sia proprio il manifesto della vocazione della Munro, col suo inevitabile bagaglio di brillante solitudine: “Che gioia, essere sola. Vedere la luce calda del tardo pomeriggio sul marciapiede, i rami di un albero, rinverditi da poco, proiettare le loro ombre scarne (…) Il lavoro a cui volevo dedicarmi era più simile a una mano che acciuffi qualcosa nell’aria che alla costruzione di storie. Le grida della folla mi arrivavano come un violento battito cardiaco, pieno di sofferenza. Solenni, splendide onde sonore, con il loro remoto consenso e il loro lamento quasi sovrumano. Era questo che volevo, questo su cui pensavo di dovermi concentrare; così volevo la vita”. Così, la scrittrice ci trascina nelle sue storie e ci prende per mano. E noi, come Jinny ne Il ponte galleggiante, proviamo “Una specie di leggerezza indulgente (…). Un fremito di affettuosa ilarità, che per il momento ha la meglio su tutto il dolore e il senso di vuoto”.
Maria D’Asaro (“Centonove” n.34 del 12.9.2014)