mercoledì 6 gennaio 2016

L'Epifania tutte le feste porta via?

L’Epifania tutte le feste porta via. Ma è davvero così?
Ecco cosa scrive Augusto Cavadi in "Mosaici di saggezze"

Le dimanche, Marc Chagall, 1954
Senso della festa (pag. 258-259)

            Vivere è lavorare; se è necessario, lottare. Nell’uso linguistico della mia terra, il verbo ‘combattere’ ha una strana bivalenza semantica: significa “fare la guerra”, ma anche “faticare per far fronte alle difficoltà di ogni giorno”.  La spiritualità filosofica (…) non è evasione dall’impegno lavorativo né fuga dai conflitti inevitabili. Dobbiamo aggiungere che essa è attraversamento e superamento di questa dimensione  quotidiana, ordinaria: perché il senso del negotium è nell’otium, il senso della fatica nel riposo, il senso dei giorni feriali nella giornata della festa (vedi note). Scrive P. Valadier “E’ forse esagerato affermare che l’azione perde il suo peso e la sua realtà senza la contemplazione, che il lavoro diventa una fatica massacrante e insensata senza il tempo dello svago e del riposo? Dunque senza questo respiro propriamente spirituale che assicura il rispetto del Sabato (della Domenica in termini cristiani), in cui la creatura vive la propria esistenza in modo diverso da quello di un bisognoso servo della gleba?”
Anche da questa angolazione, però, la spiritualità filosofica è radicata in profondità esistenziali accessibili a chi ho lo sguardo acuminato. Se (alla scuola di Marx, ma oltre lui) intendiamo per “proletarietà” il “vincolarsi al processo del lavoro” in maniera totale, è chiaro che tale condizione appartiene  al “salariato ‘nullatenente’, che non possiede nulla, e perciò è costretto ad alienare stabilmente la sua capacità di lavoro”, (…) e, infine, nei regimi liberaldemocratici, a colui, dipendente o indipendente che sia dal punto di vista del processo produttivo, il cui ‘spazio vitale’ è interamente occupato dal lavoro, perché questo ‘spazio vitale’ è internamente vuoto (…). Ebbene, se questa è la proletarietà come condizione antropologica, essere capaci di festeggiare significa essere capaci di de-proletarizzarsi. Ossia maturare le difese interiori dai rischi di una proletarizzazione forzata, difese che ovviamente non sostituiscono, anzi rendono più efficaci, le precauzioni politiche. Celebrare la festa significa  - che lo si sappia o meno – operare per l’emancipazione da molte forme di schiavitù e anticipare, per così dire profeticamente, il giorno della liberazione finale. 
     C’è di più. Fare festa davvero è possibile, ben al di là del vestito buono o della fruizione dell’industria del divertimento, a chi è convinto di essere dentro la danza cosmica di un eterno ritorno dell’uguale; ma, ancor più agevolmente, a chi – invece – è convinto che “l’esistenza, inesorabilmente, non ha luogo che una volta sola, per poterla successivamente festeggiare in ciò che ha di unico e di insostituibile.” Quale che sia la nostra concezione del tempo (ciclica o lineare), non c’è festa senza la doppia, inscindibile, armonia con se stessi e con l’universo: “Celebrare una festa vuol dire: aderire all’intima costituzione del mondo, inserirsi nel flusso armonico della sua realtà, farsi parte della sua struttura, vivendo una vita che sia diversa dal monotono andamento di ogni giorno, raggiungendo così il proprio compimento, il proprio perfetto sviluppo.”
          Certo, dopo la lezione di Darwin, non è facile qualificare come “armonico” il “flusso” del mondo (…).  Può quindi celare un significato simbolico l’atavica decisione di celebrare una festa solo a conclusione di sei giorni di fatica, tensioni e sofferenze. Chi non conosce la ferialità, prosaica e a tratti lancinante, dei ritmi quotidiani (…) non proverà mai il piacere intenso della festa.  Fernando Savater sottolinea il legame inscindibile fra saggezza filosofica e allegria: “Che cos’è l’allegria? La constatazione gioiosa che la cosa più grave che poteva capitarci (dico “grave” non solo nel senso di penoso o sventurato, ma anche in quello di importante,serio e inoppugnabile) ci è già accaduto alla nascita; pertanto il resto dei casi che ci succedono o che ci attendono non possono essere di grande rilievo. Abbiamo avuto fortuna, non in concreto buona o cattiva sorte, bensì la possibilità di entrambe: nel sorteggio definitivo ci è toccato l’essere invece del non essere.” Sicuramente ci viviamo questa “fortuna” camminando  - per riprendere un’immagine di Kierkegaard – come l’acrobata su una corda che sorvola l’abisso della morte. Ma proprio perché la morte è “fatalità e controsenso” abbiamo bisogno “di libertà e di senso”; di un’allegria sapienziale che ci motivi verso “l’arte, la poesia, lo spettacolo, l’etica, la politica e persino la santità” (…)     
      L’uomo  ben fatto, affermava già Diogene il Cinico, “celebra una festa ogni giorno”. Ma opportunamente Plutarco, dopo aver richiamato Diogene, declina al plurale il soggetto: “E’ una festa splendida se siamo virtuosi”. Quasi a voler precisare che non si può festeggiare da soli in un mondo di ignoranti e di malvagi: ci sono esperienze gratificanti che si possono vivere solo in un contesto sociale adeguato. Se non ci fossero altri motivi, già questo sarebbe un motivo sufficiente per non disinteressarsi della rozzezza morale altrui e per impegnarsi, delicatamente, a  contagiare il desiderio della saggezza e della rettitudine.

(Sintesi delle note n.815 e 816 del testo : a)Joseph Pieper sviscera e commenta a lungo l’asserzione di Aristotele  nell’Etica a Nicomaco (10,7)  “noi siamo operosi, per avere otium” , contrapponendola alla frase del conte Zinzendorf  (che secondo Max Weber sintetizza bene lo spirito del capitalismo): “Non solo si lavora per vivere, ma anzi si vive per lavorare:
b) Se feria significa in latino giorno di riposo e di festa (e anche in italiano andare in ferie significa andare in vacanza, interrompere le attività lavorative abituali), come mai l’aggettivo feriale viene adoperato per indicare i giorni diversi dalla domenica e dalle feste solenni? Ciò lo si deve all’influenza del calendario cattolico secondo il quale, dopo l’evento Cristo, saremmo in “una festa perenne, sempre in atto, tanto che la stessa giornata ordinaria si dice feria ed è tale: la liturgia conosce soltanto il giorno festivo” (Pieper, “Otium” e culto, p. 84).


5 commenti:

  1. Grazie, Maria, della bella scelta che hai fatto dal mio libro !

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    1. @Augusto Cavadi: il tuo libro merita di essere divulgato! Buona domenica.

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  2. Maruzza sceglie sempre bene caro Augusto, complimenti per il tuo modo di fare e insegnare filosofia, sei davvero fortunato di avere un'amica così speciale come Mari !!!
    Cara Maruzza vedo che ami i dipinti onirici del grande Chagall, anche a me piace molto !!!
    Cosmoabbracci !!!

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    1. @Pippi: intuivo che anche a te potesse piacere Chagall ... Cosmoabbracci affettuosi e buona domenica!

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  3. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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