Nel corso di ogni singolo viaggio in treno tra Milano e Roma vengo a sapere, della vita dei miei compagni di viaggio, molto più di quanto sarebbe lecito e desiderabile. Si chiamano, in termini tecnici, “dati sensibili”. Pratiche di divorzio, business in corso, liti con i figli, malattie anche gravi complete di diagnosi e terapia, approfondimenti sul carattere di suocere e nuore, problemi di lavoro, progetti immobiliari. Tutto questo avviene non per mia volontà (mai stato pettegolo) ma perché almeno un passeggero su due parla ininterrottamente al telefono dei fatti suoi, ad altissima voce, concedendosi solo brevissime pause per riprendere fiato o per andare in bagno. Si va dal manager in perenne riunione alla mamma preoccupata, al padre che cerca di convincere la figlia di non iscriversi a Filosofia, al portaborse che contatta i suoi contatti, al lobbista che tesse la sua tela, al caciarone ordinario che dà appuntamento agli amici per la sera. Come sia possibile che tutte queste persone facciano, della loro privacy, carne di porco, mettendo a disposizione di almeno una decina di astanti i fattacci loro, è per me del tutto incomprensibile. È come se fosse caduto un argine naturale, come se fabbricassero i cessi senza la porta. Anche volendo sorvolare sul palese disturbo della quiete altrui, com’è possibile che una persona perda pudore e riserbo al punto da farmi sapere (è successo) che forse devono togliergli un rene? (M. Serra - “Repubblica” 04.02.2016)
Il fatto che in Francia si sia deciso di stabilire per legge un “diritto alla disconnessione” al di fuori degli orari di lavoro dovrebbe farci riflettere. Quel “diritto” parrebbe infatti talmente naturale da non necessitare di alcuna norma che lo sancisca. Le cose, nei fatti, sono più complicate. La connessione di tipo compulsivo viaggia nei due sensi: è sollecitata dall’esterno che bussa alla nostra porta ma al tempo stesso è cercata con tenacia da noi stessi, come se avessimo il timor panico dell’isolamento. Con effetti tra il comico e il patologico.
Una signora con la quale ho rapporti di lavoro mi ha scritto questo sms: “Perché non ha risposto alla mia mail?”. Dispiaciuto di una mia eventuale distrazione, le ho domandato, sempre per sms, quando me l’aveva mandata. Mi ha risposto: “Un’ora fa”. La signora non aveva valutato l’eventualità che io, per un’ora filata, non avessi consultato la mia posta. Dev’essere di quelli che ogni cinque minuti — al massimo — frugano nello smartphone per sapere chi li cerca, e cosa vuole da loro. Non concependo la propria assenza come una possibilità, non concepiscono nemmeno l’assenza altrui. L’assenza sta diventando un lusso per pochi — come il silenzio. In forte sospetto di snobismo. Ma guarda quello, che non guarda lo smartphone da un’ora: chi si crede di essere? (M.Serra - “Repubblica” 07.09.2016)
Viviamo in un'inverosimile verità... E a ben guardare si è più interessati a sapere cosa "si fa", piuttosto a cosa "si pensa". Un grande abbraccio Maria.
RispondiEliminaOttima considerazione, cara Santa. Ricambio di cuore l'abbraccio.
EliminaFollia collettiva o "normalità"? Questo è il problema. Ma se è un problema, non possiamo classificarlo nella normalità: ed ecco la risposta. Conforto nello sconforto... Poter condividere le considerazioni qui riportate, ovvero la resistenza di una categoria che non merita estinzioni, mi rincuora. Grazie come sempre, Maruzza.
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