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V.incent Van Gogh: Campo di grano con mietitore all'alba (1889) - Amsterdam |
Nelle prime parole dell'opera
l'autrice afferma che la Terra è piccola,
il cielo invece fin troppo grande,
e, cito, «con più stelle del necessario».
Nella descrizione del cielo si avverte una certa impotenza,
l'autrice si perde in uno spazio orribile,
è colpita dall'assenza di vita su molti pianeti,
e presto nella sua mente (aggiungiamo: non rigorosa)
comincia a nascere una domanda:
e se alla fine noi fossimo soli
sotto il sole, sotto tutti i soli dell'universo?
A dispetto del calcolo delle probabilità!
E della convinzione oggi universale!
Malgrado le irrefutabili prove che uno di questi giorni
possono cadere nelle mani umane! Ah, poesia.
Intanto la nostra profetessa torna sulla Terra,
un pianeta che forse «ruota senza testimoni»,
la sola «science-fiction che il cosmo può permettersi».
La disperazione di Pascal (1623-1662, la nota è nostra)
sembra all'autrice non avere concorrenza
su nessuna Andromeda o Cassiopea.
L'esclusività ingigantisce e impegna,
sorge dunque il problema di come vivere et cetera,
dato che «il vuoto non lo risolverà al posto nostro».
«Mio Dio,» grida l'uomo a se stesso
«abbi pietà di me, illuminami...»
L'autrice si tormenta al pensiero della vita dissipata con tanta leggerezza,
come se ce ne fosse una scorta inesauribile.
Delle guerre, che - secondo il suo dispettoso parere -
sono sempre perdute da entrambe le parti.
Dell'«autorisadismo» (sic!) dell'uomo sull'uomo.
Nell'opera traspare un intento morale.
Forse sotto una penna meno ingenua avrebbe sfavillato.
Purtroppo, ahimè. Questa tesi fondamentalmente azzardata
(se alla fine noi fossimo soli
sotto il sole, sotto tutti i soli dell'universo)
e il suo sviluppo in uno stile disinvolto
(un misto di solennità e di linguaggio comune)
obbligano a chiedersi chi possa crederci.
Certamente nessuno. Appunto.
Wislawa Szymborska: La gioia di scrivere, tutte le poesie (1945-2009),
a cura di Pietro Marchesani, pag. 381, Adelphi, Milano