“Ci sono – sostiene Vittorini – due specie di scrittori: «Quelli che, leggendoli, mi fanno pensare “ecco, è proprio vero”, e che cioè mi danno la conferma di “come” so che in genere sia la vita. E quelli che mi fanno pensare “perdio, non avevo mai supposto che potesse essere così”, e cioè mi rivelano un nuovo, particolare
“come” sia nella vita».
Senza attribuire a questa affermazione un giudizio di valore, ma assumendola a livello puramente fenomenologico, si può dire che Natalia Ginzburg appartenga alla prima categoria. Ogni sua pagina, narrativa o saggistica e perfino teatrale, ci mette di fronte a idee e intuizioni che ci sembra sempre di avere avuto (non è detto poi che sia davvero così), ci fa incontrare figure e personaggi che ci pare di conoscere già da tempo, ci fa riscoprire il possesso di salde convinzioni che non si era sicuri di avere prima della lettura.
E questo (…) deriva soprattutto da quel suo modo di parlare a nome di molti (se non di tutti) e di creare con i suoi lettori e le sue lettrici un legame di solidarietà e di compassione, che sono il riflesso di una intelligenza e di un’attenzione posata costantemente sulla condizione umana.
Ginzburg ha avuto l’estremo privilegio di crescere in casa Levi: con il padre, illustre biologo e maestro di Rita Levi Montalcini; la madre, sorella di Drusilla Tanzi (“la mosca” di Montale) e amica di Filippo Turati e Anna Kuliscioff; i fratelli Gino, Mario e Alberto che sono stati parte del nucleo più forte della resistenza antifascista torinese; la sorella Paola, moglie di Adriano Olivetti e amante di Carlo
Levi. La casa torinese, dove abitavano i Levi, vive in un rapporto osmotico con quanto di meglio potesse nascere e passare per la città, ed è aperta alle visite dei più importanti rappresentanti della cultura e della politica italiana degli anni Trenta e Quaranta.
Dopo il matrimonio con Leone Ginzburg, conosciuto grazie ai fratelli, collabora alla “costruzione” di altre due “case”, anch’esse frequentate dalle personalità più importanti per la cultura del nostro paese. L’Einaudi, dove lavora per lungo tempo dopo la guerra e la morte del marito, insieme a Pavese, Balbo e Calvino, e la propria casa, con i figli Carlo, Andrea e Alessandra.
Nell’abitazione romana vicino al Pantheon, in cui si trasferisce con il secondo marito, l’anglista Gabriele Baldini, e dove resterà fino alla morte, continua a vivere accanto alle più grandi personalità del secolo scorso, eppure nelle sue pagine, che a volte si possono sfogliare anche come l’album di fotografie di tutta una generazione di scrittori, scrittrici e intellettuali, il suo sguardo rimane con discrezione a una certa distanza, quasi conservasse le tracce di quella visione prospettica della bambina che osserva il mondo degli adulti che è alla base del dispositivo narrativo di Lessico famigliare (1963).
Vissuta sempre negli ambienti più fecondi dell’elaborazione culturale, Ginzburg ha gettato su quel mondo uno sguardo marginale, proveniente da un luogo appartato e fuori fuoco. Tale capacità di guardare il centro come se stesse ai margini, pur essendovi in realtà immersa, è il primo dei tratti distintivi del suo “stile” ed è il primo dei segni di trasgressione al canone dominante, che connota «l’uso irritante di un’intelligenza “diversa”», cioè la caratteristica – per Garboli – della scrittura saggistica di Natalia Ginzburg.
La conseguenza immediata di questo destino d’elezione è, dunque, l’acquisizione di una strana forma di scrittura dell’io, in cui l’io è assente, nascosto, dislocato, immerso e reinventato nel noi; un noi che, nelle memorie dell’infanzia e della giovinezza, è carico dell’esaltante privilegio dell’appartenenza alla famiglia Levi prima e alla “famiglia Einaudi” dopo, mentre nei ricordi della guerra assume i toni dolenti dell’eccezionalità della Resistenza – esperienza fondante che sfugge di continuo a ogni possibile esposizione alla retorica del dolore.
È un noi, infine, che nelle pagine dei saggi scritti negli anni Settanta e Ottanta finisce per caricarsi dei
toni della consapevole disappartenenza al presente: anche in questo caso in una sostanziale sintonia con gli amici e i compagni di strada della sua generazione. Si tratta sempre di una “voce plurale”, che non rinuncia alla responsabilità individuale, ma riesce ancora a sentirsi parte di un’esperienza collettiva.”
Maria Rizzarelli (da qui)
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