martedì 28 gennaio 2025

Le grandi madri: anime resilienti

     “Quando ero bambina, nella mia vita immigrò un gruppo di vecchie donne, le più pericolose che avessi mai conosciuto; poiché furono tormentate da forze e poterti più grandi di loro, quando furono catturate, imprigionate, obbligate ad appassire, cadere a pezzi, estinguersi, vissero comunque alla luce delle loro anime. Furono abbattute in ogni modo, ma rinacquero a nuova vita. E sbocciarono come alberi in fiore.
Entrarono nella mia vita come quattro vecchie rifugiate scese pesantemente da grandi vagoni neri e piombate nella nebbia notturna della banchina dove noi le aspettavamo con grande trepidazione. 
     Camminarono faticosamente verso di noi, chine sotto i dunja, giacigli di piume avvolti da coperte rosso scuso garrotate da spago peloso. Arrivarono con gibbosi bauli neri e in legno macchiato assicurati alle spalle da corde sporche. Dalle cinghie sfilacciate pendeva ogni sorta di borsa o sacca. (…)
     Erano le anziane della famiglia del mio padre adottivo. Erano le vecchie donne disperse e sparpagliate dall’Ungheria alla Russia durante e dopo la Seconda guerra mondiale, le donne internate nei campi di «lavoro», dopo essere state trascinate via dalla loro minuscola fattoria dove la famiglia viveva da 150 anni e gettate in buche nel terreno o in campi di deportazione di cartone bagnato o sui «treni della fame» impregnati di urina ed escrementi, e altre cose ancora peggiori. (…)
   
    Erano convinte che noi avessimo salvato loro la vita, che venendo in Aa-mee-rii-kaa, avrebbero potuto lavare le loro ferite nel miracoloso fango scuro del Midwest settentrionale, che avrebbero potuto ricominciare una vita di pace. Non sapevano che erano venute anche per salvare la mia vita. Non sapevano di essere la pioggia perfetta, prolungata e penetrante, di cui una bambina che la noia rischia di inaridire ha un estremo bisogno.
   La loro esistenza per noi era una ricchezza. Nonostante fossero state spogliate della loro adorata terra d’origine ancestrale, private di figli e mariti, spogliate fino all’osso delle loro icone, della soddisfazione per la stoffa bianca che tessevano, dei loro luoghi di culto (…); spogliate della possibilità di proteggere le figlie, i figli, i loro corpi, la loro intimità, il loro pudore… ciò nonostante erano riuscite ad aggrapparsi al loro Io primario e resiliente. L’Io che non muore, l’Io che non muore mai.
       Quelle vecchie donne furono la mia prima prova inconfutabile che la superficie dell’anima può essere intaccata, scalfita o scottata, ma è destinata a rigenerarsi. La superficie dell’anima ritorna sempre intatta". 

Clarissa Pinkola Estés La danza delle grandi madri Frassinelli pp. 40-44

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