"La liberazione, per me, è un processo, non uno stato: la si celebra davvero solo se si cerca di attuarla ogni giorno, combattendo ogni fascismo, ogni autoritarismo, ogni violenza in tutti, se stessi compresi.
E' un'azione politica, sociale, culturale, mentale, che va attuata nella nostra vigente democratura, nel nostro settarismo, nel nostro individualismo.
E' dire grazie a chi ha agito per la libertà e al contempo chiedersi come oggi possiamo agire (per la libertà e per giustizia e la fratellanza) non allo stesso modo ma meglio, con maggiore amore.
E' ricordarsi delle parole di Zeus e di quelle di Atena nel ventiquattresimo libro dell'Odissea (vv. 482 sgg. e 528 sgg.); e dei decreti antichi, per esempio di quello ateniese dopo la caduta dei Trenta tiranni, dove era scritto di «mé mnesikakéin» («non portare rancore», come si traduce in bell'italiano, anche se in greco è propriamente «non ricordarsi del male», espressione che ci pone davanti a un bellissimo paradosso: quello di ricordarsi di non ricordare il male - il male ricevuto e quello fatto, anche se i due mali erano di entità diversa e compiuti per fini molto diversi - ricordarsi e celebrare perché nessun male si ripeta; oppure, giustificando così anche la comune traduzione italiana, non ricordarsi dei malvagi: ricordare il male che c'è stato senza ricordarsi di coloro che lo hanno compiuto, ricordare la storia e non i loro autori); e di quelle di Nelson Mandela e di Desmond Tutu nel momento della fine dell'apartheid in Sudafrica.
Così celebrata, la Liberazione non è il ricordo triste del momento "in cui ci siamo ammazzati tra noi" (anche perché quel "noi" va esteso a tutti gli abitanti del pianeta e non può essere tirato in ballo solo per miserabili motivi di identitarismi nazionalistici per poi sponsorizzare l'ammazzamento di altri), come vuole Giorgia Meloni che ne rifiuta la celebrazione, ma il ricordo della gioiosa deposizione delle armi - di quelle che un giorno ci si è sentiti costretti a prendere perché, purtroppo, non si sapeva che altro fare.
E' rinuncia all'esibizione delle armi - sempre.
E' cambiare paradigma di pensiero e di pratica, è la ricerca di modi di lottare per i propri valori senza ricorrere alla violenza, con il massimo amore possibile.
E' lottare per unire."
Andrea Cozzo
P.S.: Temo che questo post mi farà perdere molti amici, soprattutto se mi sarò spiegato male
(ma, credo, non gli amici che mi conoscono almeno un po')
Questo il commento di Augusto Cavadi
"Caro Andrea, ti sei spiegato e in molti - spero tutti - ti abbiamo capito. Una cosa però è capirti e un'altra apprezzarti (suppongo che I like significhi questo). Un'altra cosa ancora è condividerti: forse, legittimamente, non tutti quelli che hanno mostrato apprezzamento sono anche d'accordo con il contenuto delle tue riflessioni. Tra questi ultimi (della tripletta: capire/apprezzare/condividere) ci sono anch'io perché so che chi, come te, adotta il paradigma della nonviolenza non vuole giudicare quanti nel passato non l'hanno adottato (forse non l'hanno neppure conosciuto almeno quanto basti per rifiutarlo), ma se mai quanti nel presente si rifiutano di adottarlo (perché suppongono che si tratti di un sogno da idealisti, non una "utopia concreta" cui avvicinarsi passo dopo passo)."
"rinuncia all'esibizioni delle armi" non può rientrare nello "spiegarsi male". Può andare incontro al capire male. Perché tanti, ancora oggi, di fronte ad un'invasione, giustificherebbero il ricorso alle armi. perché le armi esistono, vengono finanziate, fabbricate, "benedette", esposte anche dalle guardie del Papa. Siamo lontani davvero dal "capire". Lontanissimi.
RispondiElimina@Franco: grazie, grazie di cuore. Buona settimana.
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