Palermo – “Questo libro nasce dal mio desiderio di condividere la mia passione e di raccontare la mia esperienza… Con quasi novanta traduzioni al mio attivo, neppure una scintilla di quella passione iniziale si è spenta”: Silvia Pareschi presenta così il suo libro Fra le righe. Il piacere di tradurre (Laterza, Bari-Roma, 2024), viaggio intrigante nell’universo multiforme e complesso delle traduzioni letterarie.
Scopriamo innanzitutto che l’autrice, dopo una laurea in russo (convinta, ai tempi della perestrojka, che “il russo fosse la lingua del futuro”) intraprende il mestiere di traduttrice quasi per caso, dopo l’incontro felice con Anna Nadotti che, in un master di scrittura creativa, teneva un seminario dal titolo «Il traduttore come giardiniere tenace». Sarebbe seguito poi l’incontro altrettanto fortunato con Marisa Caramella, traduttrice ed editor Einaudi, che le affida la traduzione di un capolavoro: The Corrections di Jonathan Franzen.
Così Silvia, che aveva imparato l’inglese quasi senza rendersene conto “grazie ad alcuni viaggi giovanili molto scapestrati e a tante letture disordinate ma appassionate”, oltre a tradurre tutte le opere di Jonathan Franzen, negli ultimi venticinque anni è diventata la ‘voce’ italiana di buona parte della letteratura angloamericana contemporanea: Don DeLillo, Junot Diaz, Sylvia Plath, Cormac McCarthy, Colson Whitehead, per citare solo alcuni degli scrittori tradotti.
Per il suo lavoro, l’autrice ha fatto tesoro delle raccomandazioni di Italo Calvino, in particolare della terza delle sue Lezioni americane, dove l’Esattezza viene definita come «un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione»; infatti “Una descrizione narrativa, prima di poter essere tradotta da una lingua a un’altra, deve essere convertita in immagini nella mente della traduttrice”. (A proposito dell’utilizzo di ‘traduttrice’ anziché ‘traduttore’, poiché in Italia l’85% di chi fa traduzioni è donna, l’autrice si permette “una piccola erosione all’uso prescritto della lingua” e usa nel suo libro il femminile sovra-esteso).
Silvia Pareschi evidenzia poi che “la traduzione non è una scienza esatta: non esiste un’unica traduzione ‘giusta’ di un testo, ma tante traduzioni-interpretazioni quanti sono i traduttori che su quel testo si sono cimentati”. Inoltre “una dote fondamentale di chi traduce è l’umiltà (…) perché traducendo bisogna essere capaci di accantonare il proprio ego e mettere la propria voce al servizio di quella dell’autore del testo”.
Quali sono dunque i segreti di una buona traduzione? (continua su il Punto Quotidiano)
Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 6.4.25
Conosco Silvia grazie al suo blog, non è facile mai tradurre, quindi merita un plauso per il lavoro che svolge.
RispondiEliminaE' vero, leggo spesso traduzioni scomposte, dove il senso cambia in una sola frase, e immagino che il traduttore faccia un lavoro multiplo e complicato: entrare nella testa e nel cuore di chi scrive, intepretarlo e poi reinterpretarlo come la lingua tradotta permette, ricercare l'obiettività, ma anche il suono, l'immagine, le sfumature, spesso cogliere le variabili di un senso, collegarlo a tutto il resto. Sicuramente meno complicata la prosa della poesia, ma sempre montagne da scalare..
RispondiEliminaMi sarebbe piaciuta una tua intepretazione sul mio post delle emozioni.. ;)
RispondiElimina@Franco: che bella la tua metafora della traduzione come montagna da scalare... (e ho commentato il post sulle emozioni, sui dazi non mi esprimo perchè provo rabbia, tristezza, disgusto, paura... ;)
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