Berthe Morisot: Al ballo (1875) |
"Chi scrive è ‘blogger’ (...) e giornalista pubblicista. Per la sottoscritta, scrivere non è il suo mestiere (la sua professione è stata per decenni quella di docente e di psicopedagogista nella scuola media inferiore), ma una passione vitale, una sorta, insieme, di necessità e di piacere esistenziale.
Dopo la ‘masticazione’ dell’ermeneutica gestaltica negli ambiti canonici del counselling e dei contesti educativi in generale, è stato naturale per lei chiedersi quale potesse essere la ricaduta della weltanschauung gestaltica nell’ambito della scrittura creativa – quella esercitata in quanto blogger – e nel campo più codificato e circoscritto della scrittura giornalistica.
L’interrogativo – nato da una genuina istanza personale – allora è questo: quale marcia in più, quale maggiore consapevolezza teorica nell’uso delle parole può dare una formazione gestaltica a chi si occupa di scrittura, sia a livello di scelta privata sia con un ruolo pubblico riconosciuto? Può la parola scritta esercitare una forma di ‘cura’ intanto per chi scrive e poi anche per i lettori?
Ancora una volta, anche in questo particolare settore, il testo base della GT ha fornito spunti di riflessione intriganti e nutrienti. Ѐ stata particolarmente coinvolgente la lettura del capitolo numero sette: ‘Verbalizzazione e poesia’, nel quale gli autori analizzano dell’uso linguistico la modalità ‘verbalizzante’, a loro avviso dominante già dagli anni ’50 del secolo scorso a oggi, alla quale viene contrapposta in positivo la valenza intrinsecamente terapeutica della poesia e/o di ogni uso originale e creativo della parola.
«Proprio come entro la nostra cultura totale si è sviluppata una cultura simbolica priva di contatto o di affetto, isolata dalla soddisfazione animale e dall’invenzione spontanea sociale, analogamente in ogni sé, quando la crescita dei rapporti originari interpersonali è stata disturbata e i conflitti non sono stati risolti ma pacificati in una tregua precoce incorporando delle forme aliene, si forma una personalità ‘verbalizzante’, un linguaggio insensibile, prolisso, privo di affetto, monotono, stereotipato nel contenuto, inflessibile nell’atteggiamento retorico, meccanico nella sintassi, e senza significato».(1)
E ancora: «La verbalizzazione facilmente serve da sostituto della vita; costituisce un mezzo pronto attraverso il quale si può vivere una personalità introiettata e aliena, con le sue convinzioni e atteggiamenti, invece del proprio sé (…). Invece di costituire un mezzo di comunicazione o di espressione, la verbalizzazione protegge il proprio isolamento sia dall’ambiente che dall’organismo». (2)
E le riflessioni dei fondatori vengono rilanciate e puntualizzate dal professore Antonio Sichera: «In GT non si dà alcuna acritica diffidenza verso il linguaggio in quanto tale; quel che Perls e Goodman contestano duramente nel libro fondativo è solo l’eloquio vuoto, la parola che non serve al contatto e anzi lo fugge: il suo nome è verbalizing, ovvero ‘verbalizzazione’.
Perché la parola che si stacca dal corpo e non rimane legata al sé è condannata a vagare nell’inconsistenza. Ma il linguaggio rimane in GT un aspetto fondamentale dello sviluppo dell’uomo e una condizione essenziale del suo fare esperienza nel mondo. (…) Gestalt Therapy sceglie la strada profondamente ermeneutica della rivitalizzazione del linguaggio comune». (3)
Tornando al testo base della GT, i suoi autori si lanciano in una meditata apoteosi della creazione poetica, esaltandola per l’uso libero, originale, personale e variegato della parola che la poesia è capace di fare: «Una poesia costituisce un caso particolare di buon atto linguistico. In una poesia, come negli altri atti linguistici buoni, le tre persone, il contenuto, l’atteggiamento e il carattere, nonché il tono e il ritmo, si esprimono reciprocamente, e ciò costituisce l’unità strutturale della poesia. Per esempio, il carattere consiste per la maggior parte nella scelta dei vocaboli e della sintassi, ma questi elementi sorgono e cadono con l’argomento e vengono ritmicamente deformati dall’aspettativa istaurata dai sentimenti; o, ancora, il ritmo accumula urgenza in una progressione che tende a un culmine, l’atteggiamento diventa più difetto, e la proposizione è dimostrata; e via dicendo. Ma per il poeta l’atto di parlare e, come dicono i filosofi, ‘fine a sé stesso’: cioè solo per mezzo del comportamento linguistico manifesto, solo tramite la manifestazione del mezzo stesso, egli risolve il suo problema. (…) Il suo contenuto non costituisce una verità presente dell’esperienza da comunicare, ma piuttosto il poeta trova nell’esperienza o nella memoria o nella fantasia un simbolo che di fatto lo eccita senza che egli abbia bisogno di sapere il suo contenuto latente. Il suo io è il suo stile così come è usato nel momento presente, non è la sua biografia. (…) La poesia è quindi l’esatto contrario della verbalizzazione nevrotica, poiché la prima è l’atto del parlare in quanto attività organica volta a risolvere il problema, una forma di concentrazione; mentre la seconda è l’atto del parlare che tenta di dissipare l’energia nell’atto stesso, reprimendo il bisogno organico e ripetendo una scena incompiuta sub-vocale, piuttosto che concentrandosi su di essa». (4) (...)
[1]. F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit.130
[2.] Ivi,133
[3]
G. Salonia, V. Conte, P. Argentino (2013) Devo sapere subito se sono vivo,
cit.15,16
[4] F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman
(1997) Teoria e Pratica della Terapia della Gestalt, cit.131,132
Dalla tesi di diploma della scrivente dal titolo "Le potenzialità di cura dell'ermeneutica gestaltica nei contesti on life della postmodernità", per il conseguimento del Master in Counselling Socio-educativo.
Scrivere bene è anche una vocazione. Non tutti ci riescono.
RispondiElimina@Gus: sicuramente. Ma ci vuole anche un po' di tecnica e di esercizio. Buonanotte. Grazie dell'attenzione.
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