venerdì 13 maggio 2022

Karunã, praticare la compassione

Villa Malfitano, Palermo
     "La compassione va oltre le regole. Se non abbiamo la fortuna di esserlo da sempre, come si diventa compassionevoli? Stando con la propria crudeltà, con l’indifferenza, sentendola. Contemplandola e rinunciando ad agirla. 
   Non negare i cosiddetti sentimenti negativi, ma anzi percepire il peso, il sapore, il restringimento dello spazio della coscienza che portano con sé è il primo passo verso la compassione. (…)
    Chi crede di essere buono è pericoloso. Solo conoscere la propria capacità di nuocere e addestrarsi a non esercitarla può far accedere alla bontà fondamentale, o intelligenza del cuore.
Karunã, la compassione, significa letteralmente il trasalimento del cuore alla vista della sofferenza. La sofferenza degli altri, ma anche la propria. Quando soffriamo, pensiamo di aver sbagliato qualcosa, ci accaniamo a cercare le ragioni, ci sgridiamo (…).
     Non è possibile, trattandoci così, pensare di poter avere compassione per gli altri, perché prima o poi spunterà la stessa severità che abbiamo nei nostri confronti. Non c’è misurabilità della sofferenza, non c’è gerarchia, ma se non ci apriamo alla nostra, andremo costantemente in cerca di enormi sofferenze e scarteremo tutte quelle che ci sembrano piccole o ingrate o inconsistenti. (…).
     La pratica della compassione, di karunã, inizia portando al cuore, evocando, un essere (di nuovo, non necessariamente un essere umano) che sappiamo che sta soffrendo. Richiamiamo la sua immagine (…) lo sentiamo vicino. Quando c’è, quando è vicino, iniziamo a sentire la bellezza del legame, del filo invisibile, anche quando fa male.
E da quel mal di cuore partiamo per inviargli frasi di auguri: «Che tu sia libero dalla sofferenza, che tu possa aver cura di te, che tu possa trovare le giuste cure».
      Sentire il legame non significa precipitare nell’altro e restarne sommersi, non sarebbe più un legame, ma un’identificazione, una fusione che non fa bene a nessuno dei due. Sentiamo il leggero filo forte che ci lega, lo onoriamo e poi mandiamo le ampie frasi di auguri che non significano che pretendiamo di salvare, di fare magie, ma solo che trasaliamo e vibriamo per la sofferenza dell’altro.
        Il Buddha non era un salvatore, ma un uomo che al suo Risveglio si è trasformato in una strada e l’ha lasciato aperta a tutti, ha insegnato a percorrerla. Era una Via antica, più antica di lui, che conduce fuori dalla sofferenza.  (…) Uscire dalla sofferenza  significa riscrivere la relazione con la gioia e con il dolore, con noi stessi e con gli altri, attraversare, traghettare. Significa piena accoglienza di qualsiasi cosa ci capiti. Questa accoglienza prepara all’azione, è non agire in attesa dell’azione intonata".

Chandra Candiani: Questo immenso non sapere Einaudi, Torino, 2021, pag. 45,46,50, 51 

1 commento:

  1. «Chi crede di essere buono è pericoloso»: sottolineo con le pinze, ovvero senza estrapolare dal contesto (distillato particolarmente squisito). Giunsi alla stessa conclusione tempo fa, da semplice figlio del Dubbio, e mi conforta scoprire di aver condiviso sentieri nel frattempo "solcati" con maggiore coerenza e profondità. Grazie, Mari! Un abbraccio

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