mercoledì 19 novembre 2025

Lettere a un bambino poi nato: l'inizio...

      "Era una sera d’estate: afosa e opprimente come sa esserlo quella di una grande città svuotata e un po’ spenta. Neppure l’aver spalancato porte e finestre mi dava sollievo. 
A letto, tentavo di leggiucchiare qualcosa. Da qualche giorno mi inquietava una sensazione strana alla pancia e alla schiena. Non potevo definirlo un vero dolore: era un vago fastidio non localizzato, come se aghi invisibili mi punzecchiassero lungo la schiena e vicino l’ombelico. 
     Mamma mi aveva fatto l’ennesima telefonata per invitarmi a stare qualche settimana a casa sua: – Alla fine il tuo è un lavoro da free… non ricordo bene come lo chiami. Traduzioni e lezioni private puoi farle anche qui. Sai bene che staresti meglio... E se non te la sentirai di arrivare sino alla spiaggetta, il mare lo puoi godere anche dal terrazzino. – 
     Ma non ce la facevo a muovermi, nella mia condizione. 
Per il gran caldo, avevo lasciato scivolare anche l’ultima parte di lenzuolo che mi era rimasta addosso. Allora ho visto la macchia… grande, scura, piena di grumi, come una mestruazione abbondante, senza preavviso.
     Mi sono sentita gelare, presa dall’angoscia che il tuo barlume di vita fosse stato risucchiato nel nulla. 
     Tu, me lo diceva il sito che andavo a controllare quasi ogni giorno, eri ancora un esserino di cinque o sei centimetri, e pesavi solo pochi grammi. Ero tra l’undicesima e la dodicesima settimana di gravidanza, ma avevi già gambe e braccia perfettamente formate. Avevi perfino le orecchie, gli occhi e un accenno di palpebre. Il tuo cuore faceva circa 160 battiti al minuto.
   Non so quanti ne facesse il mio, quella sera. So che batteva all’impazzata per la paura nera di perderti, perché aspettavo già con impazienza il momento di conoscerti e di abbracciarti. (...)"

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(e, quasi come postfazione, alla fine della storia la lettera a Oriana Fallaci:)

Cara Oriana,

    se mai da qualche ignota e misteriosa plaga dell’universo lei potesse leggere il titolo di questo libro, sarebbe forse dispiaciuta, se non infuriata, all’idea che una sconosciuta abbia osato alludere a quello di uno dei suoi libri più noti, uno dei più belli e strazianti: Lettera a un bambino mai nato.

    Le porgo allora le mie scuse per il fastidio che potrebbe suscitarle quest’accostamento. È vero: il titolo evoca il suo, anche se - è anche superfluo sottolinearlo - ovviamente queste lettere non possono avere nulla a che fare con il suo capolavoro…(…) perché queste sono lettere di una donna qualunque, alle prese con una storia romanzata piuttosto ordinaria: una giovane madre racconta a suo figlio qualcosa sulla sua maternità, su imprevisti che non aveva messo in conto, e mette in evidenza lo sguardo e le domande che le fa il suo bambino sulla vita: un punto di vista semplice, terra terra, diverso dal suo, che è stato invece lo sguardo acuto e potente di uno ‘scrittore’- è stata lei a definirsi così - su una maternità mancata.   

      Per riflettere oggi su temi delicati e fondanti per la vita delle donne e della società (maternità, calo delle nascite, aborto, utero in affitto…) che si portano dietro grossi interrogativi insieme esistenziali e politici, ci manca oggi il suo sguardo: limpido e coraggioso, duro, tagliente, spietato se necessario, sempre super partes … (…)

     Le dico ancora che il richiamo al suo celeberrimo libro vuole essere anche un omaggio al compleanno importante di questo suo ‘figlio’ (così lei considerava i suoi libri) che, a settembre 2025, compie 50 anni. - Non ho mica bisogno che qualcuno scimmiotti il mio libro perché la gente se ne ricordi… - sono certa che lei aggiungerebbe a questo punto. E, anche in questo, avrebbe sicuramente ragione. Ma chissà che un promemoria non possa servire perché le donne riprendano in mano il suo libro e ne ridiscutano insieme. (…)

Maria D’Asaro, Lettere a un bambino poi nato, Diogene Multimedia, Bologna, 2025 pagg.9,10- 116,117

Il libro sarà presentato alla Casa dell'Equità e della Bellezza, a Palermo, quasi sicuramente giovedì 11 dicembre...

domenica 16 novembre 2025

Fuso orario, in Spagna c'è l'ora di Franco

      Palermo – Il sistema orario mondiale è regolato dai fusi orari: strisce longitudinali della superficie terrestre all’interno delle quali, per comodità legale, economica e sociale, si adotta la stessa ora, generalmente l’ora centrale media del meridiano al centro della striscia. 
     Già teorizzata dall’italiano Quirico Filopanti nel 1858, l'introduzione dei fusi orari fu varata dall’ingegnere capo delle ferrovie canadesi Sandford Fleming che, nel 1879, utilizzò tale sistema per rispondere alle necessità delle compagnie ferroviarie di avere un orario locale coerente tra le varie stazioni. 
     Il sistema dei fusi orari fu poi discusso durante la Conferenza internazionale dei meridiani convocata a  Washington nel 1884, a cui parteciparono 25 paesi, tra cui l'Italia. La Conferenza stabilì le regole generali del sistema, che fu ufficialmente adottato come standard internazionale a partire dal 1º novembre di quell’anno.
     Inizialmente la terra era suddivisa in 24 ‘spicchi’ di 15° di longitudine ciascuno: ogni spicchio differiva di un’ora da quello adiacente. Successivamente, soprattutto per ragioni politiche e di confini nazionali, si crearono 39 fusi orari, tuttora vigenti.
     Tutti i fusi orari sono definiti in relazione al ‘Tempo Coordinato Universale’ (UTC) riferito al primo meridiano (con longitudine 0) che attraversa l'Osservatorio reale di Greenwich, a Londra. Per questo motivo l'espressione ‘Tempo medio di Greenwich’ (GMT) viene ancora frequentemente utilizzata per indicare l'orario base rispetto al quale sono definiti gli altri fusi orari.
     Osservando una carta geografica, si vede a occhio che la Spagna si trova in allineamento con il meridiano di Greenwich e dovrebbe quindi adottarne il fuso orario. Era così, infatti, sino al 1940. Ma oggi nel paese iberico vige lo stesso orario italiano, con un evidente disallineamento tra l’ora segnata dagli orologi e quella solare, difformità che chi è stato in Spagna, come la scrivente, ha verificato di persona. 
      Perché? La causa di questa ‘stranezza’ è stata di natura politica: risale al 1941 quando, durante la seconda guerra mondiale, il dittatore spagnolo Francisco Franco (continua su il Punto Quotidiano)

Maria D'Asaro, 16.11.25, il Punto Quotidiano

venerdì 14 novembre 2025

Lettere a un bambino poi nato...

       Infine, con un parto travagliato, era nato il suo secondo figlio di carta. Una madre ama tutti i suoi figli, ma per onestà non poteva affermare che quest’ultimo fosse sicuramente bello e talentuoso.
 E anche se il paragone tra le proprie ‘creature’ è atto insano, nostra signora era più certa della bontà del libro precedente, perché lì si era limitata a far risorgere persone belle come Primo Levi, Natalia Ginzburg, Alex Langer, Vittorio Arrigoni, Peppino Impastato, Franco Battiato…
Lettere a un bambino poi nato è invece una storia romanzata che, come evoca il titolo, richiama Lettera a un bambino mai nato, pubblicato esattamente 50 anni fa, da Oriana Fallaci.  
Rispetto a quel capolavoro assoluto, ovviamente si tratta di un balbettio davvero piccolo piccolo,  diretto innanzitutto a noi donne per riflettere sulla nostra storia e sul nostro ruolo. Alla scrivente pare infatti che, nonostante le tante donne al potere, non ci sia alcuno sguardo nuovo e diverso sul mondo... 
Si potrebbe invece provare a guardare le cose da un punto di vista diverso, quello di una madre e quello di un bambino?  Questa racconto ci prova. Con quale risultato espressivo sarà il giudizio delle lettrici e dei lettori a dirlo. Nostra signora è pronta ad accogliere anche le critiche più feroci. Lei comunque queste pagine se le portava dentro da vari decenni e aveva la necessità esistenziale e narrativa di partorirle. Si spera che il risultato possa valere il consumo di alberi e l’inquinamento che la loro pubblicazione ha causato.
Intanto un grazie sentito all’editore (Diogene Multimedia, Bologna, casa editrice diretta da Mario Trombino) che le ha ancora dato fiducia.
E un grazie di cuore alle persone (Luciano, Adriana Saieva, Anna Pensato, Augusto Cavadi, Federica Mantero, Giovanni La Fiura) che hanno letto il testo in anteprima, proponendo critiche e suggerimenti.
Un grazie speciale al dottore Salvatore Porrovecchio per la consulenza nell’ambito delle patologie mediche e alle professoresse Caterina Ruta e Patrizia Spallino per la supervisione dei termini rispettivamente in lingua spagnola e in lingua araba.

La storia è preceduta, quasi come prefazione, da questa poesia di Wislawa Szymborska:


UN RACCONTO INIZIATO

Alla nascita d’un bimbo
il mondo non è mai pronto.

Le nostre navi ancora non sono tornate dalla Vinlandia.
Ci attende ancora il valico del Gottardo.
Dobbiamo eludere le guardie nel deserto di Thor,
aprirci la strada per le fogne fino al centro di Varsavia,
trovare il modo di arrivare al re Harald Cote,
e aspettare che cada il ministro Fouché.
Solo ad Acapulco
ricominceremo tutto da capo.

Si è esaurita la nostra scorta di bende,
fiammiferi, argomenti, amigdale e acqua.
Non abbiamo camion, né il sostegno dei Ming.
Con questo ronzino non corromperemo lo sceriffo.
Niente nuove su quelli fatti schiavi dai Turchi.
Ci manca una caverna più calda per i grandi freddi
e qualcuno che conosca la lingua harari.

Non sappiamo di chi fidarci a Ninive,
quali condizioni porrà il principe-cardinale,
quali nomi siano ancora nei cassetti di Berija.
Dicono che Carlo Martello attaccherà all’alba.
In questa situazione rabboniamo Cheope,
presentiamoci spontaneamente,
cambiamo religione,
fingiamo di essere amici del doge
e di non avere a che fare con la tribù Kwabe.

Si approssima il tempo di accendere i fuochi.
Telegrafiamo alla nonna che venga dal paese.
Sciogliamo i nodi sulle corregge della yurta.

Purché il parto sia lieve
e il bimbo cresca sano.
Possa essere talvolta felice
e scavalcare gli abissi.
Che abbia un cuore capace di resistere,
e l’intelletto vigile e lungimirante.

Ma non così lungimirante
da vedere il futuro.
Risparmiategli questo dono,
o potenze celesti.


Wislawa Szymborska La gioia di scrivere, Tutte le poesie (1945-2009), 
a cura di Pietro Marchesani, pp. 471,472, Adelphi, Milano, 2009

in Maria D’Asaro, Lettere a un bambino poi nato, Diogene Multimedia, BO, 2025, pagg.6,7

mercoledì 12 novembre 2025

Nonviolenza e giornalismo di pace per scongiurare la banalità della guerra

 
(A presentazione ultimata, qualche nota sparsa:

     Il prof. Nicosia, citando Tucidide, ha ricordato che una delle nefaste conseguenze di ogni guerra è lo stravolgimento delle parole; Augusto Cavadi ha presentato magistralmente il testo evidenziando i punti nodali delle tre parti in cui, a suo avviso, può essere suddiviso; la giornalista Tiziana Martorana ha evidenziato che il libro offre vari piani di lettura, che vanno dall'approfondimento storico all'attenta analisi del linguaggio giornalistico.
L'autore ha poi fornito vari approfondimenti e ha dato esauriente riscontro ai vari interventi.
Il prof. Cozzo ha anche sottolineato che questo suo testo e quello immediatamente precedente, La logica della guerra nella Grecia antica, sono da considerarsi complementari: in questo la contemporaneità è figura, il mondo antico 'sfondo', viceversa nel precedente. 

Entrambi i testi, a mio avviso, parafrasando Hannah Arendt rivelano la banalità della guerra, i suoi tristissimi, sempre uguali topoi: tutte le guerre si assomigliano. E i pifferai di turno dell'interventismo (giornalisti e intellettuali) non si rendono conto dell'assurdità di ogni guerra che ripete la stessa orrenda, evitabile, tragedia collettiva.
Allora la nonviolenza dovrebbe essere davvero la nuova frontiera del giornalismo e della politica che vogliono costruire un futuro pacificato.
Nonviolenza che vuol dire riconoscere l'esistenza strutturale dei conflitti umani, ma credere che si possano comporre senza violenza. Utopia? Solo sguardo in avanti, guardare a un paradigma più umano e quindi possibile.

"Dov Shinar riassume gli elementi del giornalismo di pace nelle seguenti azioni:
1. esplorare le circostanze e i contesti in cui nasce un conflitto, e presentare cause e ipotesi da diversi punti di vista, così da delineare il conflitto in termini realistici e trasparenti per il pubblico;
2. dare voce alle opinioni di tutte le parti coinvolte;
3. offrire soluzioni creative per la risoluzione dei conflitti, il raggiungimento e il mantenimento della pace;
4.smascherare le bugie, gli occultamenti e i colpevoli di tutte le parti, e rivelare gli eccessi commessi e le sofferenze subite da persone di ogni fazione;
5.dedicare più attenzione alle storie di pace e agli sviluppi post-bellici che alla tradizionale copertura dei conflitti"   (dal testo, p.120)







(le ultime due foto sono di Alessandra Colonna Romano, che ringrazio)

martedì 11 novembre 2025

domenica 9 novembre 2025

Giovani e smartphone, allarme serio

        Palermo – “Smartphone: se ne conosci i rischi, lo eviti”. Bisognerebbe far partire immediatamente una massiccia campagna informativa per rendere consapevoli i responsabili della formazione dei minori, i genitori innanzitutto, dell’impatto devastante dell’uso smodato degli smartphone sulla psiche dei ragazzi.
      Qualche settimana fa, questa verità ce l’ha ricordata la giornalista Alessia Mari con un servizio del telegiornale scientifico Leonardo: un uso eccessivo dello smartphone, oltre a provocare nei più giovani fenomeni di ansia, disturbi del sonno e vere e proprie patologie da dipendenza, ne comprometterebbe anche alcune importanti funzioni cognitive.
        Il come e il perché lo ha spiegato lo psico-analista Massimo Recalcati, intervistato da Alessia Mari: “Cliccare le notifiche sui social, scrollare lo schermo alla ricerca di video, chattare e digitare continuamente qualcosa, centinaia e centinaia di volte al giorno: gli smartphone provocano ansia e dipendenza. 
Ma oggi, specialmente nei più giovani, il loro utilizzo incessante sta cambiando anche la modalità di formazione dei processi cognitivi: infatti i dispositivi disturbano l’attenzione profonda e le sovra-stimolazioni impediscono lo sviluppo di un pensiero critico. Tutto sugli schermi scorre in superficie, senza vette né profondità”.
Certamente, il cellulare non è il primo oggetto psico-tecnico: il primo fu (continua su il Punto Quotidiano)

Maria D'Asaro, 9 novembre 2025, il Punto Quotidiano

venerdì 7 novembre 2025

Nostra signora, tra frenesia e 'tampasiari'...

       A volte, nostra signora confessava a sé stessa indicibili verità: ad esempio che, dopo decenni di forsennato lavoro, non le dispiaceva fare la casalinga, almeno part time: stendere il bucato, sistemare i cassetti e farli odorare di lavanda, rammendare, dare una nuova illuminata disposizione a un tavolino, sentire il profumo delle tende lavate, cucinare una tantum torte o qualcosa di buono…  
    Ma, più che l'improvvisarsi angelo eretico e anarchico della casa, come Camilleri, nostra signora adorava tampasiari: gironzolare casa casa senza una direzione e uno scopo, sfogliare un libro, affacciarsi al balcone e contemplare le sue piantine, disegnare un segnalibro, scrivere torrenti di parole… Piu lentamente, più dolcemente, più in profondità: così esortava l’amato Alex Langer.
      Spesso però nostra signora deponeva questa sua inclinazione: trotterellava da nipoti, zie, da chi stava in prigione, a manifestare contro la guerra... rapita da un antico, radicato comando: salvare il mondo prima di cena.

(1) Maurilio Catalano: Isole

martedì 4 novembre 2025

4 Novembre: non festa, ma lutto...

        Anche quest'anno in occasione del 4 novembre, festa delle Forze Armate, istituzioni e apparati militari si preparano ad esaltare la guerra e il militarismo secondo la narrazione della  "vittoria" della Prima Guerra Mondiale, una “inutile strage”  il cui bilancio finale per l’Italia fu di oltre 650.000 soldati uccisi e più di un milione feriti, dei quali molti con gravi mutilazioni. A questi si aggiunsero più di 600.000 vittime civili a causa di bombardamenti e occupazioni militari, carestie ed epidemie. 
     La maggior parte delle vittime erano contadini ed analfabeti esclusi dal diritto di voto e obbligati a farsi ammazzare o a uccidere nemici che non conoscevano, da un governo che li considerava solo carne da cannone.
      La guerra non risolse i problemi dell’Italia, anzi ne creò di nuovi e favorì l’avvento del fascismo. Anche l’Europa di allora si trovò davanti a conseguenze terribili, crisi economiche e sociali, con l’affermarsi del nazismo, militarista e razzista. Tutto poi precipitò nel disastro della Seconda Guerra Mondiale.
     Attorno alla data del 4 novembre, ripristinata anche come Giornata dell’unità nazionale per intensificarne la portata, non c’è solo una distorta celebrazione storica ma anche il tentativo di una vera e propria propaganda bellica che si riversa nelle scuole e in molte (per fortuna con le debite eccezioni) celebrazioni istituzionali. Una propaganda tanto più insopportabile nel periodo che stiamo attraversando, che vede guerre sanguinose in varie parti del mondo, e due alle porte d’Europa, in Ucraina e Palestina, molte delle quali con un coinvolgimento diretto della produzione bellica italiana. Una propaganda che si intensifica anche per nascondere i conflitti interni fatti di impoverimento generale, aumento delle spese militari, repressione militarizzata nelle città imposte con decreti sicurezza, repressione del dissenso.
Purtroppo oggi soffia un nuovo vento di guerra. Giornali e mezzi di comunicazione sempre più spesso danno voce a iniziative di riarmo e di sostegno ad una mentalità bellicista e di allarme internazionale. I governi europei vogliono che i popoli si preparino alla guerra, anche reintroducendo il servizio militare obbligatorio, per tutti i giovani.
     L’ultimo in ordine di tempo è stato quello della Croazia, che segue la decisione già presa in Norvegia e Svezia. La Francia sta spingendo per allargare il reclutamento per il servizio militare volontario, come sta avvenendo nei Paesi Bassi. La Germania ha già approvato una Legge che favorisce e facilita il reclutamento, per ora volontario, nelle file dell’esercito.
        E in Italia? Il dibattito è aperto e già si parla di attivare una forza di riserva, per arrivare ad un modello autonomo di difesa militare europea che considera la possibilità generalizzata di un servizio militare per donne e uomini come obiettivo di adeguamento numerico delle forze armate. L'Europa pensa alla leva per tutti come un passo necessario nel processo politico di unificazione militare europea e strategia di rafforzamento della cittadinanza nella difesa comunitaria. Questo atteggiamento è gravissimo: la prospettiva di una “guerra perpetua” con armi convenzionali e milioni di vittime civili o una irrimediabile catastrofe nucleare con lo sconvolgimento della civiltà e del pianeta.
      Da tempo il Movimento Nonviolento ha trasformato la giornata del 4 novembre in un’importante occasione di riflessione e opposizione a tutti gli eserciti, contro tutte le politiche di riarmo, a sostegno degli obiettori di coscienza e dei disertori di tutte le guerre.
“4 Novembre, non festa ma lutto” è stato ed è il nostro slogan da opporre alla retorica patriottarda.    
La nostra proposta è la Campagna di Obiezione alla guerra, per dire no alla chiamata alle armi, alla mobilitazione militare, all’ipotesi di ritorno della leva obbligatoria. Ci dichiariamo da subito obiettori di coscienza, invitando tutti a sottoscrivere la Dichiarazione di obiezione di coscienza per respingere il disegno di chi vuole obbligare i nostri giovani a prendere il fucile e vestire la divisa."



Il Centro territoriale di Palermo del Movimento Nonviolento sarà presente dalle 10 alle 20 di martedì 4 novembre 2025 al "Villaggio della pace" di piazza Castelnuovo, Palermo. Si aggiungeranno altre tre associazioni operanti nella "Casa dell'equità e della bellezza": dalle 17 alle 19 il Gruppo "Sahaja" e dalle 17,30 alle 19,30 il "Gruppo Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne". Previsti in scaletta interventi anche da parte di esponenti del "Laboratorio per la difesa e l'attuazione della Costituzione".

domenica 2 novembre 2025

Perdere un figlio, come aiutare i genitori...

       Palermo - “L’urlo di Rachele, l’urlo di ogni madre che perde un figlio risuona nella storia umana sin dagli inizi. Inizia con Eva che abbraccia Abele senza vita, il primo figlio che muore anzitempo rispetto ai genitori. Il racconto biblico – al di là di ogni fede – è un testo fondativo che ripresenta le domande più drammatiche dell’uomo alla Vita (a Dio, agli dei): perché questo tragico dolore contro natura, un figlio che debba morire prima dei genitori? Perché la morte? Perché il dolore? Interrogativi, questi, che non ricevono mai una risposta definitiva, ma si intrecciano con l’altra domanda: come possono continuare a vivere Eva, Rachele con questo dolore? (…) “Come consolare ogni Rachele che non vuole essere consolata?” 
      Con queste frasi così intense, Giovanni Salonia, psicoterapeuta e direttore dell’Istituto GTK (Gestalt Therapy Kairòs), presenta il libro di Agata Pisana La giusta distanza dalle stelle (Ancora, MI, 2024) che, come recita il sottotitolo, tratta dell’elaborazione del lutto genitoriale secondo la Gestalt Therapy

Professore Giovanni Salonia
         Il testo, infatti, racconta il percorso di sostegno a mamme e papà ai quali è morto un figlio, percorso attivato alcuni anni fa, all’interno della diocesi di Ragusa, da un’equipe costituita da una counsellor formatrice gestaltista, la professoressa Agata Pisana (autrice del libro) e da un sacerdote, don Gianni Mezzasalma, in collaborazione con Giusy e Giuseppe Leggio, una coppia provata dalla stessa perdita, ma che aveva già “sperimentato quella consolazione che rispetta e integra lo strazio”.
      Sebbene l’iniziativa sia nata in ambito ecclesiale, gli incontri sono stati condotti con uno stile laico, per accogliere credenti e non credenti, con un approccio relazionale caratterizzato da ‘empatia accurata’, capace di prendersi cura del vissuto doloroso dei partecipanti: di accoglierlo e ‘contenerlo’.
      A chi è diretto il testo? Innanzitutto a coloro che, volendo ‘accompagnare’ genitori piegati e piagati dalla perdita di un figlio, desiderano approfondire e affinare la loro competenza psicologica in un ambito così importante e delicato, utilizzando il punto di vista della psicologia della Gestalt.

La professoressa Agata Pisana, autrice del libro
    Infatti, la conduttrice Agata Pisana intercala il racconto dell’esperienza con notazioni relative a questa prospettiva di cura, rivisitata nella sua ricchezza teorica. 
    L’accento viene posto innanzitutto sulla centralità della relazione: “Secondo il modello gestaltico, l’intervento di sostegno e cura del counsellor o del terapeuta è sempre sulla modalità di relazione. Il contenuto di cui il cliente o il paziente parla è essenzialmente un contenuto di relazione: più del ‘cosa’ viene detto, è importante ‘a chi’ viene detto e ‘come’”.
    In quest’ottica è fondamentale l’approccio fenomenologico: “Osservare l’altro, ascoltarlo non solo nelle sue parole ma nelle inflessioni della voce, nel ritmo, nelle vibrazioni che ogni muscolo esprime è quel ‘qui e ora’ che permette a chi si prende cura di non aggiungere niente di suo (né pregiudizi, né risonanze personali, né interpretazioni) ma di essere lì presente solo per l’altro.” 
L’attenzione costante da parte nostra alle loro parole ma anche a ciò che comunicano con i gesti, con l’intonazione e le pause, in un’ottica di cura sempre prioritaria e dominante, ci permette di non restare travolti dai vissuti che le loro stesse parole esprimono. Stiamo accanto ma non soffriamo con loro e per loro, altrimenti non li aiuteremmo.  È com-passione quella che ci muove a essere qui, a fare volontariato, a spendere tempo ed energia ed è una compassione esistenziale, che appartiene agli esseri umani in quanto sensibili verso gli altri e capaci di responsabilità e che si concretizza nell’individuare e realizzare ciò che si ritiene il miglior aiuto possibile rispetto al contesto.

Pablo Picasso: La famille Soler (1903)
     L’autrice ‘legge’ gli incontri con i singoli e con tutto il gruppo secondo le fasi del ciclo di contatto che caratterizza tutte le relazioni: “La principale funzione di chi accompagna è proprio sostenere le intenzionalità di contatto, confidare in esse perché la sua fiducia si trasmetta e animi l’intero gruppo”.
    E sottolinea che “La novità del ritrovarsi tra persone che soffrono lo stesso dolore è proprio la possibilità di attivarsi l’uno per l’altro… Non è un sentirsi meno soli perché ci sono altri che soffrono nello stesso modo, ma… il dolore dell’altro ha solo la funzione di accendere la miccia, di spingere a fare e dire qualcosa per aiutare e, così facendo, è sé stessi che si aiuta”. 
    Infatti: “Ogni dolore, se non condiviso, se non espresso in verità e libertà, diventa incubo. Si sviluppa un senso di isolamento ed inadeguatezza. È questo sfondo così lacerato che stiamo cercando di ricostruire insieme. Come se raccogliessimo i brandelli di vita scagliati tutt’intorno da un’esplosione improvvisa e a poco a poco, pur se provocando a volte ulteriore dolore, li ricucissimo l’un l’altro”.
   Ancora “Ogni essere umano sta male non solo per ciò che gli accade, ma per come gestisce ciò che gli accade… Secondo la Gestalt Therapy è l’esperienza che attivo che mi fa stare meglio... Ciò permette che nessuno possa essere impotente rispetto a nessuna circostanza perché ognuno ha sempre un potere: non restare passivo, non restare vittima, ma rendere sé stesso protagonista del proprio vivere la sua storia, per quanto difficile e dolorosa essa sia”.

     Ad avviso della scrivente, per la ricchezza e la profondità emotiva dei suoi contenuti il testo può essere letto, ‘digerito’ e apprezzato anche da chiunque voglia arricchire la sua formazione umana e non abbia paura di avvicinarsi alla terribile sofferenza di un genitore che ha perso suo figlio.
    Esplicita infatti l’autrice: “Questo libro vuole dare testimonianza della possibilità di rinascita anche dalle situazioni più difficili e delle infinite risorse di ogni essere umano: non c’è dolore per quanto grande (…) che non possa ricevere aiuto e dinanzi a cui non sia possibile ritornare alla luce”. 
    In particolare, pagine toccanti sono quelle che narrano degli incontri con i genitori in lutto, pagine che l’autrice scrive come un diario intimo e delicato, che interroga, scuote, con-vince e commuove i lettori… Rimane scolpita l’immagine della mamma che si portava la sediolina pieghevole al cimitero, e stava lì, ogni giorno, per tutto il giorno; madre che poi, sostenuta anche dagli incontri di gruppo, ritrova la forza di ‘guardare’ di nuovo suo marito, il cui amore la riscalda, la cura e la riporta alla vita… Rimangono impressi i dialoghi sulla stanza del figlio – come non ricordare l’omonimo film di Nanni Moretti, premiato con l’Oscar? – che da ‘stanza senza vita’ diventa lo spazio dove si va a stirare, ci si mette alla scrivania per fare i compiti, si guarda la tv la sera… Si rimane colpiti dalla rabbia, dolorosa e comprensibile, di quel papà quasi rimproverato da un collega solo perché, alcuni mesi dopo la morte del figlio, continuava a provare sgomento e tristezza… Si pensa a quella madre, impietrita nel suo dolore, che si convince ad andare all’incontro di gruppo in via dei Ciliegi, quasi ‘sospinta’ in sogno dalla figlia scomparsa… 
Cimitero monumentale di Iglesias
     Alla fine, per una sorta di strana alchimia, il libro lascia a chi legge non la sensazione di una sofferenza disperata, ma l’inattesa e impalpabile carezza quasi di una misteriosa consolazione... 
   Scrive ancora, infatti. il professore Salonia: “La teoria della Gestalt punta non tanto a un’accettazione rassegnata, ma a un ‘adattamento creativo’, a ripristinare la vitalità anche se dolente… È come un ripetere che l’uomo è fatto per la felicità, anche se ferito mortalmente”.
       Allora, suggerisce infine l’autrice: “Forse il segreto di ogni sapienza di vita è proprio nel saper trovare la giusta distanza dalle nostre stelle (de-sidera): mantenere ogni relazione come desiderio vibrante che ci riscalda e illumina anche se non possiamo ottenerla come vorremmo… Sarà anche la giusta distanza che prenderemo dalle persone care, con quel continuare a desiderarle, ma sapendo che non possono esserci accanto: stelle irraggiungibili, ma che ci incantano e che sappiamo che continueranno a brillare sempre”.


Maria D’Asaro, 2 novembre 2025, il Punto Quotidiano

sabato 1 novembre 2025

All you need is love... and holiness

M.Chagall: Violini
        Nostra signora si era ormai definitivamente convinta che, al di là di ogni altra cosa, tutto quello di cui le persone hanno bisogno è amore e cura. Ma per attivare percorsi nutrienti e amorevoli verso tutte le creature è necessario esercitare la santità, intesa come capacità di non mettere il proprio io al centro, di avere il senso del limite… 
     Santità intesa come esercizio a essere gentili, equanimi, compassionevoli, a partecipare alle gioie degli altri. Nella sua accezione più universale e più ampia, la santità diventa la chiave di volta per ogni feconda collocazione esistenziale, sociale, politica, spirituale: sintesi tra cammino interiore e impegno civile, tra attenzione solidale al prossimo vicino e a quello in un altro continente, sinergia tra mezzi e fini, necessariamente entrambi benevoli, complementarietà tra la propria liberazione e quella degli altri.
      Siamo chiamati tutte/ a essere sante/i e a fare scelte conseguenti. Oggi, domani e sempre.

giovedì 30 ottobre 2025

Verso la gioia dell'incontro...

Maurilio Catalano: Mongolfiere
          "In un’ottica esistenziale, la Gestalt Therapy guarda al next, a quella direzione verso cui l’organismo sta andando. Ciò che il terapeuta o il counsellor è chiamato a fare è muoversi nella direzione verso cui l’altro si sta dirigendo. Rispetto ad uno sfondo, è figura il presente e il presente è sempre in divenire: è in un’ottica evolutiva che qualsiasi evento si inscrive ed è secondo un’ermeneutica evolutiva che va guidato e disincagliato là dove si fosse bloccato. «La clinica della GT punta a creare una relazione terapeuta-paziente nella quale venga attraversata ed elaborata l’angoscia del paziente nel portare avanti le intenzionalità relazionali e così vengano ricostruiti possibilità e percorsi che conducono al contatto pieno».
Intenzionalità relazionale si definisce appunto la spinta a cercare l’altro, ad incontrarlo, ad esprimersi nell'incontro, a sentirsi visto e capito e a vedere l’altro, ad ascoltarlo e ad arricchirsene. Una sorta di dynamis che attrae reciprocamente e che fa muovere gli umani facendoli tendere l’uno verso l’altro.
        La gioia, la pienezza, la soddisfazione di esistere nascono dall’incontrarsi con un Tu significativo in modo autentico e soddisfacente. «Il soggetto entra in contatto con il fluire dei propri vissuti, delle proprie intenzionalità nel qui-e-adesso delle esperienze e diventa capace di condividere, con onestà e congruenza, il proprio mondo interiore, imparando insieme a comprendere empaticamente l’altro».
Andare verso il contatto significa seguire l’onda di energia che, ricca delle certezze sensoriali che la funzione-Es esprime e della loro valutazione da parte della funzione-Personalità, imbocca una scia che la GT definisce direzionalità, cioè quel passo avanti della propria vita verso cui l’organismo tende. La direzionalità è come un moto interiore che, di esperienza in esperienza, porta ogni soggetto a costruire una propria storia fatta di masticazione, di elaborazione e assimilazione del passato, di nutrimento del presente, di azioni verso il nuovo".

Agata Pisana La giusta distanza dalle stelle, pagg.107/108

(Domenica prossima la recensione del testo)

martedì 28 ottobre 2025

Le busiate trapanesi entrano nel dizionario

       Palermo – Dal prossimo anno il nome di questo tipo di pasta sarà inserito nel celebre dizionario Zingarelli: non poteva esserci riconoscimento ufficiale più ambito per le busiate, che così entrano a pieno titolo nella ricca storia gastronomica del territorio della Sicilia Occidentale. Infatti, questo formato di pasta, che pare risalga addirittura all'Alto Medioevo, è un simbolo della tradizione contadina e dell'eccellenza della cucina siciliana. 
       Le busiate sono una pasta di semola di grano duro siciliano, molito a pietra naturale, spesso trafilata in bronzo a lenta essiccazione Due le spiegazioni, probabilmente complementari, che dicono il perché di questo nome. La prima sostiene che deriverebbe dai ‘busi’, termine con cui in Sicilia si indicano i ferri per lavorare a maglia, ‘busi’ che in passato sarebbero stati utilizzati per dare a questa pasta la tipica forma a spirale. 
    L’altra ipotesi è quella che le busiate abbiano preso il nome (continua ne il Punto Quotidiano)

Maria D'Asaro, 26 ottobre 2025, il Punto Quotidiano

venerdì 24 ottobre 2025

Zia Lillia: il traguardo dei 106... ad maiora!

         A marzo, lo confessiamo, non l’avevamo vista bene: zia Lillia era scivolata… e qualche giorno dopo non era riuscita più a camminare, anche se non c’era niente di rotto. Necessaria la sedia a rotelle. E la fatica ad abituarsi  a un aiuto costante, giorno e notte. Duro da digerire non tanto per lei, paziente e serena, ma per la battagliera sorella abituata al governo assoluto e monocratico, a casa sua...


I primi mesi sono stati difficili…
   Ma zia Lillia ha continuato a leggere, a recitare il rosario, a conversare con le amiche e con i nipoti, a mangiare bene e con gusto, a seguire la messa in TV, a emozionarsi per la morte di papa Francesco e meravigliarsi per l’elezione di papa Prevost, novello Leone XIV (lei ipotizzava l’elezione di Parolin o Pizzaballa…).    
E con le mani ha continuato ad aiutare in casa: polverizza l’origano, asciuga le posate, apparecchia la tavola… e legge riviste e giornali e ha il pensiero di compilare dei conti correnti postali per fare beneficenza
  Sua sorella, la sua ombra costante, l’indomita quasi 98enne zia Ninì, l’ha sempre sostenuta e supportata, insieme alle signore Antonella, Silvana, Elena prima ed Elena seconda, efficienti, disponibili e amorevoli.
E così, piano piano, la zia ha ripreso a camminare, anche se con un aiuto e col bastone.
Oggi, di nuovo fuori casa, nella chiesa di sant’Antonino, a festeggiare i 106 anni. Ad maiora!



(qui  e qui la sua storia...)

giovedì 23 ottobre 2025

21 ottobre: buona sera e buon Natale...

questa non è la peggiore...
        Mentre a Presa diretta, l’ottima trasmissione d’inchiesta condotta da Riccardo Iacona, la professoressa Giuliana Panieri dice che i ghiacciai del circolo Artico si sciolgono a un ritmo più accelerato del previsto… mentre la guerra in Ucraina non accenna a finire e in Palestina c’è  solo una fragile tregua e si continua a morire… mentre in Italia tanti non sanno come ‘campare’… mentre i nostri ragazzi sono sempre più distratti, persi dietro lo schermo del cell... A Palermo,  il 21 ottobre si anticipa lo spirito del Natale posizionando e accendendo luminarie natalizie assurde, ingombranti, prive di grazia e bellezza, in ogni quartiere cittadino. In barba a ogni decenza, al buon senso, allo scirocco che soffia ancora in città, in barba all’opportunità di evitare questo spreco fuori tempo al nostro pianeta gravemente malato.
     Siamo davvero degli idioti. Meriteremmo di estinguerci. Forse anche per questo si evita di mettere al mondo dei figli…

Maria D'Asaro

martedì 21 ottobre 2025

"Chi ha cominciato?": è questa la domanda-chiave?

       “Hai cominciato tu!”, grida un bambino. “No, sei stato tu a cominciare!”, grida in risposta l’altro. E continuano a suonarsele.
Nei conflitti bellici l’atteggiamento è lo stesso. Identico. Ogni Governo, in maniera uguale e contraria, dice che a cominciare è stato l’altro. 
      Tuttavia, questo non è ancora il peggio. Il peggio, in quanto contribuisce alla ratifica definitiva dell’idea della ‘necessità’ della guerra e addirittura alla sua estensione[1] ,si realizza quando la stessa postura dei contendenti viene assunta dalle terze parti che, come tifoserie, si schierano con uno di loro attribuendo all’altro la responsabilità di avere, appunto, “iniziato”.
Tale atteggiamento si trasmette (sia pure solo tendenzialmente) dai Governi ai media e dai media alla gente comune, che, per qualsiasi fronte parteggi, lo fa con la pretesa di stare – per ricordare una frase usata e abusata – “dalla parte giusta della Storia”, dalla parte della Giustizia, e dunque degli oppressi che, nello schema dicotomico all’interno del quale siamo stati abituati a pensare, sono “i buoni”, di cui talvolta finiamo per giustificare non solo il ricorso alla forza violenta per legittima difesa ma perfino il ricorso alla violenza di qualsiasi tipo (quella terroristica compresa), perché, si dice appunto, la responsabilità è di quello che “ha iniziato”, e non dell’altro: aut-aut, o con l’una o con l’altra parte. 
     In nome del giusto rifiuto sia dell’indifferenza sia dell’equidistanza, si sceglie una parte, quella che si ritiene oppressa, o più oppressa, o oppressa (d)“all’inizio”. 

     In realtà, lo schieramento delle terze parti (Governi o società civili, non importa) tradisce e impedisce il ruolo positivo, in direzione di una trasformazione positiva del conflitto perché lo polarizza, lo estende e radicalizza, anziché contribuire alla sua multilateralizzazione (nell’antica Grecia Tucidide e Plutarco lo sapevano già benissimo).
      In Storia (nella storiografia, intendo) – ma anche nella poesia epica – le cose non vanno diversamente: da Erodoto (e da Omero) ad oggi, la domanda con cui inizia lo storico (e il poeta epico) è sempre la stessa: “chi ha cominciato?”. E questo anche se capita poi che lo storiografo e il poeta antichi mostrino che le cose sono più complesse. Facciamo un esempio. Nella mitica guerra di Troia, chi aveva veramente cominciato?
      Noi stiamo di solito dalla parte dei greci e riteniamo che abbiano cominciato i troiani, perché Paride ha rapito la greca Elena, moglie di Menelao, e soltanto dopo, quest’ultimo, con l’esercito raccolto dal fratello Agamennone, attacca la città di Troia per riprendersela. Eppure, nel racconto omerico: 1. Paride ha rapito Elena, sì, ma con il consenso di lei perché Afrodite, la dea dell’amore, le ha momentaneamente ottenebrato la mente(insomma è stata consenziente per un colpo di testa, diremmo in termini odierni); 2. per il rapimento di una singola donna (che proprio rapimento, come si è visto, non è), i greci organizzano addirittura un esercito e attaccano la città di Troia e vogliono lo sterminio della sua intera popolazione, il suo genocidio. A rigore, la “guerra” in senso stretto l’hanno cominciata i greci che però l’hanno fatta per salvaguardare il Diritto; mentre il troiano aveva effettuato solo un “rapimento”, che comunque – dimentichiamo – aveva l’avallo della rapita stessa ed era dovuto all’iniziativa della dea!
   Dunque, la risposta alla domanda “chi ha cominciato?” è problematica. Ma, soprattutto, serve a qualcosa stabilirlo come giudici terzi che si pretendono detentori della Giustizia? 
      Per passare alla storia attuale, Putin ha fisicamente oltrepassato i confini dell’Ucraina e l’ha attaccata. La sua versione, da comprendere (che è cosa ben diversa dal giustificare), di ciò che risulta in ogni caso un’invasione, è che tale intervento ha lo scopo di proteggere la Russia dall’espansione della Nato in cui Zelensky vuole entrare (il famoso “abbaiare” della Nato di cui parlò Papa Bergoglio) e la sua cronologia inizia dal 2014 e dal mancato rispetto degli accordi di Minsk (2014-15), mentre l’altro fronte, con cui i nostri Governi si sono schierati, inizia dal 24 febbraio 2022.
      A Gaza, dopo il 7 ottobre 2023, Netanyahu mette in atto l’oppressione nei confronti dei palestinesi senza distinguere miliziani da civili e nei termini orrorifici che sappiamo: da parte israeliana si fa notare che il passaggio a tale dimensione è successivo a quella data – dunque, in quella grandezza, costituisce una risposta al 7 ottobre, e che in precedenza Israele ha sempre dovuto difendersi da attacchi terroristici (non sto giustificando; sto riportando il loro modo di vedere la questione); da parte palestinese, invece, si fa notare che non c’è proporzione numerica fra le vittime civili del 7 ottobre e quelle, sempre civili, successive, e che l’occupazione e l’espansione israeliana sono molto precedenti al 7 ottobre, e che questo è la conseguenza, appunto, dell’occupazione che risale al 14 maggio 1948, quando fu proclamato lo Stato di Israele.
     Gli israeliani mettono in luce che in quello stesso giorno l’invasione di militari provenienti dagli Stati arabi circostanti diede inizio alla guerra arabo-israeliana (terminata con la Nakba del 1948 che rende profughi 700.000 palestinesi) e che il 13 aprile gli arabi a Gerusalemme avevano attaccato un convoglio sanitario uccidendo una quarantina di personale medico e infermieristico.
    I palestinesi citano questo fatto come rappresaglia per il massacro di Deir Yassin (vicino a Gerusalemme) del 9 aprile 1948 (quando 120 ebrei sionisti attaccarono questo villaggio uccidendo un centinaio di civili, donne e bambini compresi, e cacciando i circa 500 abitanti superstiti). Tale massacro a sua volta era stato preceduto, a marzo, dall’attacco arabo all’ebraica Gerusalemme ovest…
    E si può andare a ritroso ancora di più: al 24 agosto 1929 (il cosiddetto massacro di Hebron in cui vengono uccisi 66 ebrei); al 23 agosto (contesa per la piazzetta antistante al Muro occidentale dell’antico tempio di Gerusalemme, utilizzato tradizionalmente dagli ebrei ma appartenente alla Spianata delle moschee: seguono tafferugli e si diffonde la voce che gli ebrei intendono occupare tutta la Spianata); al 1921 (un gruppo di immigrati ebrei che celebra la festa dei lavoratori viene aggredito da una folla di arabi che poi estendono ulteriormente il loro attacco da Jaffa ad altri insediamenti: vengono uccisi 47 ebrei); a marzo 1920 (a Tel Hai, in Galilea, insediamento ebraico nella terra di nessuno tra la zona controllata dai francesi e quella controllata dai britannici, gli arabi ottengono di entrare per verificare che non ci siano soldati francesi ma qualcuno spara un colpo che viene fuori uno  scontro  con diversi morti; un mese dopo a Gerusalemme, durante una festa araba, per una falsa notizia secondo cui gli ebrei stavano occupando lì i luoghi santi dell’Islam, vengono assaltati i quartieri ebraici e organizzata una forza di difesa ebraica); al 1917 (Dichiarazione Balfour della Gran Bretagna – in cerca di sostegno internazionale e di un avamposto mediorientale vicino al canale di Suez che garantiva la rotta per l’India  – in appoggio alla «istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico […] essendo chiaramente inteso che nulla dev’essere fatto a pregiudizio dei diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina»); seconda metà dell’Ottocento, quando l’antisemitismo da un lato e il sorgere dei risorgimenti nazionali dall’altro spingono gli ebrei, in diverse ondate migratorie, dispersi nel mondo al ritorno a Sion che la loro religione indicava come loro terra). (2)
    Anche così, in realtà, si potrebbe ancora andare indietro; e notate che sto trascurando del tutto di parlare del ruolo delle potenze straniere occidentali, che a rigore non dovrebbe essere per nulla omesso!
Insomma, ad una narrazione cronologica ne può essere contrapposta, e se ne contrappone, un’altra. I manuali di Storia israeliani e quelli palestinesi sono strutturati analogamente: spiegano, rispettivamente, le ragioni di Israele e quelle della Palestina. È studiando su tali manuali, oltre che apprendendo dai loro familiari che le storie le hanno vissute di fatto – ma pur sempre dai loro specifici punti di vista in cui hanno percepito il ruolo di aggressore giocato dall’Altro ma non il proprio –, che i ragazzi e le ragazze dei due popoli assimilano ciò che viene loro raccontato come la vera storia del rapporto con i loro vicini (capita così, per esempio, che famiglie israeliane ignorino di stare abitando in case da cui sono stati cacciati dei palestinesi).
     I manuali occidentali, i nostri, pur forse con un maggiore sforzo di imparzialità, rispondono allo stesso schema di ricerca della verità unica. Tuttavia, alcuni libri, (3) a mio parere esemplari, mostrando l’una accanto all’altra la narrazione di ciascun popolo, permettono la consapevolezza della parzialità di ciascuna di esse. Soprattutto, essi superano lo schema dicotomico della ricerca della verità unica e imparziale, ognuna con il suo punto di inizio che, inevitabilmente, omette il ruolo di un evento, importante per un popolo che ne sottolinea per esempio l’ordine di grandezza quantitativa, trascurabile per l’altro che invece fa emergere il suo carattere di reazione ad una precedente ingiustizia subìta (l’inizio è dovuto all’altro).
     Eppure, la fissazione di un inizio dipende, come abbiamo visto, dalla temporalità che si prende in considerazione e nessuno può prenderla in considerazione tutta perché, altrimenti, si dovrebbe presentare ogni dettaglio e ripartire ogni volta da Adamo ed Eva, per così dire… L’inizio fissato dipende dalle “punteggiature” che si fanno, direbbe Watzlawick.
Nonostante siamo abituati a pensare ancora positivisticamente (“chi ricerca onestamente trova la verità”), neanche gli studiosi specialisti possono fare altro che interpretare le fonti e impostare la ricerca sulla base dei loro presupposti. 

   A configurare la ricerca, come suggerisce Johan Galtung, sono Desideri (consapevoli o no), Dati e Teoria: in Storia, come in tutti gli ambiti disciplinari, l’oggetto storiografico viene costruito (ovviamente non in modo arbitrario ma in modo o in modi socialmente determinati) e i risultati variano anche sulla base della costruzione fatta (basti ricordare il cambio, sia pure parziale, di oggetto storiografico, cioè la storia sociale anziché quella esclusivamente politico-militare, dell’École des Annales la cui ‘invenzione’ ha un senso chiaro: quello di mostrare il ruolo dei popoli nella Storia al di là delle guerre, dove essi sono semplicemente le pedine destinate a uccidere o a essere uccise per volontà dei loro Governi). Figuriamoci allora quando a parlare non siano studiosi, ma persone che al massimo hanno letto qualche articolo e tre o quattro libri e, appunto a seconda di quali abbiano letto, pensano per questo di avere le idee chiarissime sull’andamento vero delle cose e su chi abbia torto e chi ragione!
      Si tratta allora di uno stesso paradigma culturale, di uno stesso modo di pensare. È l’unico possibile? E, innanzitutto: a cosa serve? Meglio ancora, per costruire la pace ci serve? Ed è il paradigma, adottato dai belligeranti, che hanno il compito di adottare anche le terze parti (dunque, ‘Noi’, compresi noi che siamo qui)? qual è, per dirla nei termini di Galtung il desiderio sottostante a tale impostazione?
      Il desiderio sembra essere quello di giustizia e di verità, anzi di verità al servizio della giustizia: una verità stabilita da una parte terza imparziale (il giudice) – che, ci si dimentica spesso di dire, abbia ascoltato tutte le parti (come fa per esempio la Corte Penale Internazionale), in modo che sostanzialmente, per dirla in modo a rigore non del tutto corretto, si possa punire l’iniziatore – ma non viene certo stabilita da una delle parti o da chi aderisce ad una di esse (anche se ovviamente, in un circolo vizioso, l’adesione viene data sulla base della pretesa di conoscere la verità imparzialmente). Forse questa impostazione (che non prevede un dialogo o prevede un dialogo tra sordi) (4), che ci fa sentire costretti a stare interamente con una parte o con l’altra costituisce essa stessa una forma di violenza culturale?
Beninteso, tutto ciò non impedisce che si possa riconoscere che una parte, nel suo insieme, sia più debole e più oppressa e che dunque abbia bisogno di maggior sostegno, ma di un sostegno che consista nella sua difesa non armata: banalmente, se sono i civili palestinesi a soffrire la fame, è a loro che si indirizzeranno gli aiuti alimentari; se è a loro che viene tolta terra, è per esempio con il boicottaggio dei prodotti israeliani che si cercherà di pressare gli occupanti usurpatori; l’interposizione stessa, rivolta a impedire le violenze da ambo le parti, di fatto aiuta maggiormente quella più debole, visto che era in svantaggio: ma perché l’interposizione possa riuscire non può issare la bandiera di una delle parti, anche se è quella della parte più debole (questo l’errore che attribuisco alla Global Sumud Flotilla che resta in ogni caso uno splendido esempio di azione nonviolenta che farà Storia), perché altrimenti finisce per essere, o essere percepita, come uno schieramento unilaterale inaccettabile per la parte più forte – le cui vittime, d’altronde, pur di numero minore, non possono essere ignorate – e aggiungerei che l’argomento del numero (ma anche quello, altrettanto non corretto, de “la vittima ha sempre ragione in qualsiasi cosa dica”) non può essere tirato in ballo o no a seconda che risulti a favore o contro la  tesi che si intende sostenere: così, i palestinesi avrebbero ragione anche quando giustificano gli atti terroristici di Hamas perché essi sono il popolo oppresso i cui morti civili sono molto più numerosi di quelli israeliani del 7 ottobre 2023; ma Liliana Segre, pur vittima, non avrebbe ragione di negare che i palestinesi siano oggetto di genocidio, e il numero degli ebrei vittime del nazismo (6 milioni), pur essendo di gran lunga maggior di quello dei civili palestinesi, non conterebbe (so bene, poi, che il carattere genocidiario non è dato dalla numerosità).
  L’empatia con chi soffre, se è tale, non può avere carattere selettivo, non può essere per i sofferenti di una parte e non anche per quelli, pur di numero minore, dell’altra. Nessun nonviolento, su ciò, mi pare che abbia dubbi; Pat Patfoort non meno che Johan Galtung (“empatia verso tutte le parti”) lo dicono esplicitamente – se fosse necessario citare ‘autorità’. In nonviolenza vale il principio noto come principio di non comparabilità delle sofferenze, cioè di non ‘raffrontabilità’, di non pesatura, delle sofferenze: l’empatia non è un bene esclusivo che, se si dà a qualcuno, si toglie a un altro e dipende dalla relazione che si è capaci di avere, non dal numero di morti presso le parti. E lo si capisce bene, per esempio, quando si piange addirittura con maggiore dolore la sola uccisione della propria madre piuttosto che quella di cento sconosciuti. 
     All’interno del modo di pensare binario resta dunque, in ultima istanza, anche la formula secondo cui “non c’è pace senza giustizia”. Questa suona in maniera giustamente molto bella perché è concepita come l’opposto di “non c’è pace con ingiustizia”, espressione che ben a ragione chiunque abbia a cuore la giustizia si rifiuta di accettare. In ogni caso, tuttavia, siamo sempre dentro un paradigma dicotomico.
Se usciamo da esso, l’alternativa alla posizione secondo cui “non c’è pace con ingiustizia” non è necessariamente l’altra appena detta, che però può, in un orizzonte più ampio, farne parte. Infatti è possibile una posizione espressa dalla formula “non c’è pace senza giustizia, e non c’è giustizia senza dialogo”, che mette l’accento sull’esigenza dell’ascolto reciproco tra le parti in conflitto, magari favorito da una terza parte con funzione di mediazione.
      In nonviolenza, infatti, direi che la parola “verità” si declina nel senso del prioritario ascolto di entrambe le parti non tanto al fine di arrivare a stabilire chi, alla luce del Diritto vigente, abbia torto e chi abbia ragione (il che rientra ancora, appunto, nel ‘normale’ paradigma della giustizia, insomma nel paradigma giudiziario, dove “verità” è da intendere al singolare: la verità). Piuttosto, in nonviolenza, “verità” va inteso in primo luogo come un plurale (le verità), perché il fine è, innanzitutto, quello 
1. di fare emergere le ragioni di ciascuno, in modo che tutti possano comprendersi, 
2. di individuare i loro rispettivi bisogni, al di là delle posizioni che magari sono presentate come opposte argomentando l’uno contro l’altro,
3. di agire in vista di una trasformazione positiva del conflitto che preveda il trascendimento e l’individuazione di una soluzione soddisfacente per entrambe.
Non è dunque importante stabilire chi abbia cominciato, quanto capire per quale motivo, dal suo punto di vista, ha agito chi da un punto di vista esterno al suo, sembra aver cominciato. C’è forse una fase invisibile del conflitto che gradualmente giunge a un certo punto, nell’azione di una parte specifica, a diventare violenza esplicita e guerra? Può darsi che con l’azione che per la sua visibilità sembra l’“inizio” la parte che la compie stia esprimendo la posizione che ritiene, anche se a torto, l’unica possibile per soddisfare il suo bisogno? 

      Per rispondere a tali domande è necessario partire dall’individuazione dei bisogni delle parti che sottostanno alle posizioni che esse esprimono in termini bellici.  È ciò che è stato fatto ad esempio nel 1978-79, quando gli accordi di Camp David riuscirono a fermare la guerra tra Egitto ed Israele grazie alla mediazione del Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, Israele, nel 1967 (guerra dei sei giorni), aveva invaso l’Egitto occupando la penisola del Sinai e l’Egitto si apprestava a riprendersela, ma gli incontri a Camp David (durati dodici giorni) fecero emergere che l’occupazione mirava non all’annessione di quel territorio ma alla possibilità di difesa nel caso di attacchi arabi: la decisione di restituire all’Egitto il Sinai lasciandolo però demilitarizzato, come zona cuscinetto, garantiva il bisogno dell’uno di riavere il proprio territorio e quello dell’altro di avere assicurata la possibilità di difendersi.
      Così, si può scoprire subito che anche Putin ha bisogno di sentirsi sicuro dalla Nato e che appunto per questo non la vuole nella confinante Ucraina mentre Zelensky ha bisogno di sentirsi sicuro dal rischio di un attacco russo che voleva evitare entrando nella Nato. E tutto si sarebbe sistemato proponendo la non entrata dell’Ucraina nella Nato per rassicurare Putin, e un’intesa su cosa si sarebbe fatto in caso di intervento militare di quest’ultimo in Ucraina anche al di là degli accordi tra i membri della Nato (in questa ipotesi l’UE non avrebbe fatto fallire gli accordi, come invece ha fatto ad agosto 2025): che poi, bisogna dirlo, è il piano prospettato da Trump – ma che l’Unione Europea per prima, attestata su una logica del tifo, ha contribuito a far fallire. E per Israele-Palestina? Anni fa Johan Galtung ha formulato il progetto cosiddetto “1-2-6-20”, ma non ho il tempo neanche per accennarvi – e d’altronde non era il tema di questo mio intervento.


Intervento del prof. Andrea Cozzo, c/o Borgo Danilo Dolci – Trappeto (PA), 18.10.2025


1. In forma ‘calda’ (cioè come alleanza militare) o in forma ‘fredda’ (ovvero come supporto militare esterno).
2.  Cfr. Inno nazionale composto in quell’epoca.
3.  Come quello di Luigi Sandri (Città santa e lacerata. Gerusalemme per ebrei, cristiani, musulmani, Monti, Saronno 2001) e quello del Peace Research Institute in the Middle East (La storia dell’altro. Israeliani e palestinesi, Una città, Forlì 2002).
4.   Esempio di non-dialogo è stato il comportamento di Enzo Iacchetti il 16 settembre 2025 (ribadito anche nei giorni seguenti) alla trasmissione Carta bianca che ha avuto parecchie decine di migliaia di like. Le parole “definisci bambini” del suo interlocutore Eyal Mizrahi, il presidente dell'associazione Amici di Israele, dopo le quali l’attore è scoppiato in un attacco di collera feroce e cieca, erano, peraltro all’interno di una frase non completata perché interrotta dalla rabbia di Iacchetti, chiarissime per chiunque non fosse vittima di chiusura ideologica e unilateralismo: intendevano fare riferimento al fatto che molti bambini palestinesi, già verso i 14 anni, vengono istruiti alle armi, conservando dunque dei bambini solo l’età e non anche lo spirito. Ma di quelle parole ha prevalso – per quanto mi è dato di sapere, senza alcuna eccezione – una strumentalizzazione: una strumentalizzazione messa in atti dai ‘buoni’.

(Le parti in neretto sono state evidenziate dalla scrivente che ha riportato lo scritto nel blog)