giovedì 30 ottobre 2025

Verso la gioia dell'incontro...

Maurilio Catalano: Mongolfiere
          "In un’ottica esistenziale, la Gestalt Therapy guarda al next, a quella direzione verso cui l’organismo sta andando. Ciò che il terapeuta o il counsellor è chiamato a fare è muoversi nella direzione verso cui l’altro si sta dirigendo. Rispetto ad uno sfondo, è figura il presente e il presente è sempre in divenire: è in un’ottica evolutiva che qualsiasi evento si inscrive ed è secondo un’ermeneutica evolutiva che va guidato e disincagliato là dove si fosse bloccato. «La clinica della GT punta a creare una relazione terapeuta-paziente nella quale venga attraversata ed elaborata l’angoscia del paziente nel portare avanti le intenzionalità relazionali e così vengano ricostruiti possibilità e percorsi che conducono al contatto pieno».
Intenzionalità relazionale si definisce appunto la spinta a cercare l’altro, ad incontrarlo, ad esprimersi nell'incontro, a sentirsi visto e capito e a vedere l’altro, ad ascoltarlo e ad arricchirsene. Una sorta di dynamis che attrae reciprocamente e che fa muovere gli umani facendoli tendere l’uno verso l’altro.
        La gioia, la pienezza, la soddisfazione di esistere nascono dall’incontrarsi con un Tu significativo in modo autentico e soddisfacente. «Il soggetto entra in contatto con il fluire dei propri vissuti, delle proprie intenzionalità nel qui-e-adesso delle esperienze e diventa capace di condividere, con onestà e congruenza, il proprio mondo interiore, imparando insieme a comprendere empaticamente l’altro».
Andare verso il contatto significa seguire l’onda di energia che, ricca delle certezze sensoriali che la funzione-Es esprime e della loro valutazione da parte della funzione-Personalità, imbocca una scia che la GT definisce direzionalità, cioè quel passo avanti della propria vita verso cui l’organismo tende. La direzionalità è come un moto interiore che, di esperienza in esperienza, porta ogni soggetto a costruire una propria storia fatta di masticazione, di elaborazione e assimilazione del passato, di nutrimento del presente, di azioni verso il nuovo".

Agata Pisana La giusta distanza dalle stelle, pagg.107/108

(Domenica prossima la recensione del testo)

martedì 28 ottobre 2025

Le busiate trapanesi entrano nel dizionario

       Palermo – Dal prossimo anno il nome di questo tipo di pasta sarà inserito nel celebre dizionario Zingarelli: non poteva esserci riconoscimento ufficiale più ambito per le busiate, che così entrano a pieno titolo nella ricca storia gastronomica del territorio della Sicilia Occidentale. Infatti, questo formato di pasta, che pare risalga addirittura all'Alto Medioevo, è un simbolo della tradizione contadina e dell'eccellenza della cucina siciliana. 
       Le busiate sono una pasta di semola di grano duro siciliano, molito a pietra naturale, spesso trafilata in bronzo a lenta essiccazione Due le spiegazioni, probabilmente complementari, che dicono il perché di questo nome. La prima sostiene che deriverebbe dai ‘busi’, termine con cui in Sicilia si indicano i ferri per lavorare a maglia, ‘busi’ che in passato sarebbero stati utilizzati per dare a questa pasta la tipica forma a spirale. 
    L’altra ipotesi è quella che le busiate abbiano preso il nome (continua ne il Punto Quotidiano)

Maria D'Asaro, 26 ottobre 2025, il Punto Quotidiano

venerdì 24 ottobre 2025

Zia Lillia: il traguardo dei 106... ad maiora!

         A marzo, lo confessiamo, non l’avevamo vista bene: zia Lillia era scivolata… e qualche giorno dopo non era riuscita più a camminare, anche se non c’era niente di rotto. Necessaria la sedia a rotelle. E la fatica ad abituarsi  a un aiuto costante, giorno e notte. Duro da digerire non tanto per lei, paziente e serena, ma per la battagliera sorella abituata al governo assoluto e monocratico, a casa sua...


I primi mesi sono stati difficili…
   Ma zia Lillia ha continuato a leggere, a recitare il rosario, a conversare con le amiche e con i nipoti, a mangiare bene e con gusto, a seguire la messa in TV, a emozionarsi per la morte di papa Francesco e meravigliarsi per l’elezione di papa Prevost, novello Leone XIV (lei ipotizzava l’elezione di Parolin o Pizzaballa…).    
E con le mani ha continuato ad aiutare in casa: polverizza l’origano, asciuga le posate, apparecchia la tavola… e legge riviste e giornali e ha il pensiero di compilare dei conti correnti postali per fare beneficenza
  Sua sorella, la sua ombra costante, l’indomita quasi 98enne zia Ninì, l’ha sempre sostenuta e supportata, insieme alle signore Antonella, Silvana, Elena prima ed Elena seconda, efficienti, disponibili e amorevoli.
E così, piano piano, la zia ha ripreso a camminare, anche se con un aiuto e col bastone.
Oggi, di nuovo fuori casa, nella chiesa di sant’Antonino, a festeggiare i 106 anni. Ad maiora!



(qui  e qui la sua storia...)

giovedì 23 ottobre 2025

21 ottobre: buona sera e buon Natale...

questa non è la peggiore...
        Mentre a Presa diretta, l’ottima trasmissione d’inchiesta condotta da Riccardo Iacona, la professoressa Giuliana Panieri dice che i ghiacciai del circolo Artico si sciolgono a un ritmo più accelerato del previsto… mentre la guerra in Ucraina non accenna a finire e in Palestina c’è  solo una fragile tregua e si continua a morire… mentre in Italia tanti non sanno come ‘campare’… mentre i nostri ragazzi sono sempre più distratti, persi dietro lo schermo del cell... A Palermo,  il 21 ottobre si anticipa lo spirito del Natale posizionando e accendendo luminarie natalizie assurde, ingombranti, prive di grazia e bellezza, in ogni quartiere cittadino. In barba a ogni decenza, al buon senso, allo scirocco che soffia ancora in città, in barba all’opportunità di evitare questo spreco fuori tempo al nostro pianeta gravemente malato.
     Siamo davvero degli idioti. Meriteremmo di estinguerci. Forse anche per questo si evita di mettere al mondo dei figli…

Maria D'Asaro

martedì 21 ottobre 2025

"Chi ha cominciato?": è questa la domanda-chiave?

       “Hai cominciato tu!”, grida un bambino. “No, sei stato tu a cominciare!”, grida in risposta l’altro. E continuano a suonarsele.
Nei conflitti bellici l’atteggiamento è lo stesso. Identico. Ogni Governo, in maniera uguale e contraria, dice che a cominciare è stato l’altro. 
      Tuttavia, questo non è ancora il peggio. Il peggio, in quanto contribuisce alla ratifica definitiva dell’idea della ‘necessità’ della guerra e addirittura alla sua estensione[1] ,si realizza quando la stessa postura dei contendenti viene assunta dalle terze parti che, come tifoserie, si schierano con uno di loro attribuendo all’altro la responsabilità di avere, appunto, “iniziato”.
Tale atteggiamento si trasmette (sia pure solo tendenzialmente) dai Governi ai media e dai media alla gente comune, che, per qualsiasi fronte parteggi, lo fa con la pretesa di stare – per ricordare una frase usata e abusata – “dalla parte giusta della Storia”, dalla parte della Giustizia, e dunque degli oppressi che, nello schema dicotomico all’interno del quale siamo stati abituati a pensare, sono “i buoni”, di cui talvolta finiamo per giustificare non solo il ricorso alla forza violenta per legittima difesa ma perfino il ricorso alla violenza di qualsiasi tipo (quella terroristica compresa), perché, si dice appunto, la responsabilità è di quello che “ha iniziato”, e non dell’altro: aut-aut, o con l’una o con l’altra parte. 
     In nome del giusto rifiuto sia dell’indifferenza sia dell’equidistanza, si sceglie una parte, quella che si ritiene oppressa, o più oppressa, o oppressa (d)“all’inizio”. 

     In realtà, lo schieramento delle terze parti (Governi o società civili, non importa) tradisce e impedisce il ruolo positivo, in direzione di una trasformazione positiva del conflitto perché lo polarizza, lo estende e radicalizza, anziché contribuire alla sua multilateralizzazione (nell’antica Grecia Tucidide e Plutarco lo sapevano già benissimo).
      In Storia (nella storiografia, intendo) – ma anche nella poesia epica – le cose non vanno diversamente: da Erodoto (e da Omero) ad oggi, la domanda con cui inizia lo storico (e il poeta epico) è sempre la stessa: “chi ha cominciato?”. E questo anche se capita poi che lo storiografo e il poeta antichi mostrino che le cose sono più complesse. Facciamo un esempio. Nella mitica guerra di Troia, chi aveva veramente cominciato?
      Noi stiamo di solito dalla parte dei greci e riteniamo che abbiano cominciato i troiani, perché Paride ha rapito la greca Elena, moglie di Menelao, e soltanto dopo, quest’ultimo, con l’esercito raccolto dal fratello Agamennone, attacca la città di Troia per riprendersela. Eppure, nel racconto omerico: 1. Paride ha rapito Elena, sì, ma con il consenso di lei perché Afrodite, la dea dell’amore, le ha momentaneamente ottenebrato la mente(insomma è stata consenziente per un colpo di testa, diremmo in termini odierni); 2. per il rapimento di una singola donna (che proprio rapimento, come si è visto, non è), i greci organizzano addirittura un esercito e attaccano la città di Troia e vogliono lo sterminio della sua intera popolazione, il suo genocidio. A rigore, la “guerra” in senso stretto l’hanno cominciata i greci che però l’hanno fatta per salvaguardare il Diritto; mentre il troiano aveva effettuato solo un “rapimento”, che comunque – dimentichiamo – aveva l’avallo della rapita stessa ed era dovuto all’iniziativa della dea!
   Dunque, la risposta alla domanda “chi ha cominciato?” è problematica. Ma, soprattutto, serve a qualcosa stabilirlo come giudici terzi che si pretendono detentori della Giustizia? 
      Per passare alla storia attuale, Putin ha fisicamente oltrepassato i confini dell’Ucraina e l’ha attaccata. La sua versione, da comprendere (che è cosa ben diversa dal giustificare), di ciò che risulta in ogni caso un’invasione, è che tale intervento ha lo scopo di proteggere la Russia dall’espansione della Nato in cui Zelensky vuole entrare (il famoso “abbaiare” della Nato di cui parlò Papa Bergoglio) e la sua cronologia inizia dal 2014 e dal mancato rispetto degli accordi di Minsk (2014-15), mentre l’altro fronte, con cui i nostri Governi si sono schierati, inizia dal 24 febbraio 2022.
      A Gaza, dopo il 7 ottobre 2023, Netanyahu mette in atto l’oppressione nei confronti dei palestinesi senza distinguere miliziani da civili e nei termini orrorifici che sappiamo: da parte israeliana si fa notare che il passaggio a tale dimensione è successivo a quella data – dunque, in quella grandezza, costituisce una risposta al 7 ottobre, e che in precedenza Israele ha sempre dovuto difendersi da attacchi terroristici (non sto giustificando; sto riportando il loro modo di vedere la questione); da parte palestinese, invece, si fa notare che non c’è proporzione numerica fra le vittime civili del 7 ottobre e quelle, sempre civili, successive, e che l’occupazione e l’espansione israeliana sono molto precedenti al 7 ottobre, e che questo è la conseguenza, appunto, dell’occupazione che risale al 14 maggio 1948, quando fu proclamato lo Stato di Israele.
     Gli israeliani mettono in luce che in quello stesso giorno l’invasione di militari provenienti dagli Stati arabi circostanti diede inizio alla guerra arabo-israeliana (terminata con la Nakba del 1948 che rende profughi 700.000 palestinesi) e che il 13 aprile gli arabi a Gerusalemme avevano attaccato un convoglio sanitario uccidendo una quarantina di personale medico e infermieristico.
    I palestinesi citano questo fatto come rappresaglia per il massacro di Deir Yassin (vicino a Gerusalemme) del 9 aprile 1948 (quando 120 ebrei sionisti attaccarono questo villaggio uccidendo un centinaio di civili, donne e bambini compresi, e cacciando i circa 500 abitanti superstiti). Tale massacro a sua volta era stato preceduto, a marzo, dall’attacco arabo all’ebraica Gerusalemme ovest…
    E si può andare a ritroso ancora di più: al 24 agosto 1929 (il cosiddetto massacro di Hebron in cui vengono uccisi 66 ebrei); al 23 agosto (contesa per la piazzetta antistante al Muro occidentale dell’antico tempio di Gerusalemme, utilizzato tradizionalmente dagli ebrei ma appartenente alla Spianata delle moschee: seguono tafferugli e si diffonde la voce che gli ebrei intendono occupare tutta la Spianata); al 1921 (un gruppo di immigrati ebrei che celebra la festa dei lavoratori viene aggredito da una folla di arabi che poi estendono ulteriormente il loro attacco da Jaffa ad altri insediamenti: vengono uccisi 47 ebrei); a marzo 1920 (a Tel Hai, in Galilea, insediamento ebraico nella terra di nessuno tra la zona controllata dai francesi e quella controllata dai britannici, gli arabi ottengono di entrare per verificare che non ci siano soldati francesi ma qualcuno spara un colpo che viene fuori uno  scontro  con diversi morti; un mese dopo a Gerusalemme, durante una festa araba, per una falsa notizia secondo cui gli ebrei stavano occupando lì i luoghi santi dell’Islam, vengono assaltati i quartieri ebraici e organizzata una forza di difesa ebraica); al 1917 (Dichiarazione Balfour della Gran Bretagna – in cerca di sostegno internazionale e di un avamposto mediorientale vicino al canale di Suez che garantiva la rotta per l’India  – in appoggio alla «istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico […] essendo chiaramente inteso che nulla dev’essere fatto a pregiudizio dei diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina»); seconda metà dell’Ottocento, quando l’antisemitismo da un lato e il sorgere dei risorgimenti nazionali dall’altro spingono gli ebrei, in diverse ondate migratorie, dispersi nel mondo al ritorno a Sion che la loro religione indicava come loro terra). (2)
    Anche così, in realtà, si potrebbe ancora andare indietro; e notate che sto trascurando del tutto di parlare del ruolo delle potenze straniere occidentali, che a rigore non dovrebbe essere per nulla omesso!
Insomma, ad una narrazione cronologica ne può essere contrapposta, e se ne contrappone, un’altra. I manuali di Storia israeliani e quelli palestinesi sono strutturati analogamente: spiegano, rispettivamente, le ragioni di Israele e quelle della Palestina. È studiando su tali manuali, oltre che apprendendo dai loro familiari che le storie le hanno vissute di fatto – ma pur sempre dai loro specifici punti di vista in cui hanno percepito il ruolo di aggressore giocato dall’Altro ma non il proprio –, che i ragazzi e le ragazze dei due popoli assimilano ciò che viene loro raccontato come la vera storia del rapporto con i loro vicini (capita così, per esempio, che famiglie israeliane ignorino di stare abitando in case da cui sono stati cacciati dei palestinesi).
     I manuali occidentali, i nostri, pur forse con un maggiore sforzo di imparzialità, rispondono allo stesso schema di ricerca della verità unica. Tuttavia, alcuni libri, (3) a mio parere esemplari, mostrando l’una accanto all’altra la narrazione di ciascun popolo, permettono la consapevolezza della parzialità di ciascuna di esse. Soprattutto, essi superano lo schema dicotomico della ricerca della verità unica e imparziale, ognuna con il suo punto di inizio che, inevitabilmente, omette il ruolo di un evento, importante per un popolo che ne sottolinea per esempio l’ordine di grandezza quantitativa, trascurabile per l’altro che invece fa emergere il suo carattere di reazione ad una precedente ingiustizia subìta (l’inizio è dovuto all’altro).
     Eppure, la fissazione di un inizio dipende, come abbiamo visto, dalla temporalità che si prende in considerazione e nessuno può prenderla in considerazione tutta perché, altrimenti, si dovrebbe presentare ogni dettaglio e ripartire ogni volta da Adamo ed Eva, per così dire… L’inizio fissato dipende dalle “punteggiature” che si fanno, direbbe Watzlawick.
Nonostante siamo abituati a pensare ancora positivisticamente (“chi ricerca onestamente trova la verità”), neanche gli studiosi specialisti possono fare altro che interpretare le fonti e impostare la ricerca sulla base dei loro presupposti. 

   A configurare la ricerca, come suggerisce Johan Galtung, sono Desideri (consapevoli o no), Dati e Teoria: in Storia, come in tutti gli ambiti disciplinari, l’oggetto storiografico viene costruito (ovviamente non in modo arbitrario ma in modo o in modi socialmente determinati) e i risultati variano anche sulla base della costruzione fatta (basti ricordare il cambio, sia pure parziale, di oggetto storiografico, cioè la storia sociale anziché quella esclusivamente politico-militare, dell’École des Annales la cui ‘invenzione’ ha un senso chiaro: quello di mostrare il ruolo dei popoli nella Storia al di là delle guerre, dove essi sono semplicemente le pedine destinate a uccidere o a essere uccise per volontà dei loro Governi). Figuriamoci allora quando a parlare non siano studiosi, ma persone che al massimo hanno letto qualche articolo e tre o quattro libri e, appunto a seconda di quali abbiano letto, pensano per questo di avere le idee chiarissime sull’andamento vero delle cose e su chi abbia torto e chi ragione!
      Si tratta allora di uno stesso paradigma culturale, di uno stesso modo di pensare. È l’unico possibile? E, innanzitutto: a cosa serve? Meglio ancora, per costruire la pace ci serve? Ed è il paradigma, adottato dai belligeranti, che hanno il compito di adottare anche le terze parti (dunque, ‘Noi’, compresi noi che siamo qui)? qual è, per dirla nei termini di Galtung il desiderio sottostante a tale impostazione?
      Il desiderio sembra essere quello di giustizia e di verità, anzi di verità al servizio della giustizia: una verità stabilita da una parte terza imparziale (il giudice) – che, ci si dimentica spesso di dire, abbia ascoltato tutte le parti (come fa per esempio la Corte Penale Internazionale), in modo che sostanzialmente, per dirla in modo a rigore non del tutto corretto, si possa punire l’iniziatore – ma non viene certo stabilita da una delle parti o da chi aderisce ad una di esse (anche se ovviamente, in un circolo vizioso, l’adesione viene data sulla base della pretesa di conoscere la verità imparzialmente). Forse questa impostazione (che non prevede un dialogo o prevede un dialogo tra sordi) (4), che ci fa sentire costretti a stare interamente con una parte o con l’altra costituisce essa stessa una forma di violenza culturale?
Beninteso, tutto ciò non impedisce che si possa riconoscere che una parte, nel suo insieme, sia più debole e più oppressa e che dunque abbia bisogno di maggior sostegno, ma di un sostegno che consista nella sua difesa non armata: banalmente, se sono i civili palestinesi a soffrire la fame, è a loro che si indirizzeranno gli aiuti alimentari; se è a loro che viene tolta terra, è per esempio con il boicottaggio dei prodotti israeliani che si cercherà di pressare gli occupanti usurpatori; l’interposizione stessa, rivolta a impedire le violenze da ambo le parti, di fatto aiuta maggiormente quella più debole, visto che era in svantaggio: ma perché l’interposizione possa riuscire non può issare la bandiera di una delle parti, anche se è quella della parte più debole (questo l’errore che attribuisco alla Global Sumud Flotilla che resta in ogni caso uno splendido esempio di azione nonviolenta che farà Storia), perché altrimenti finisce per essere, o essere percepita, come uno schieramento unilaterale inaccettabile per la parte più forte – le cui vittime, d’altronde, pur di numero minore, non possono essere ignorate – e aggiungerei che l’argomento del numero (ma anche quello, altrettanto non corretto, de “la vittima ha sempre ragione in qualsiasi cosa dica”) non può essere tirato in ballo o no a seconda che risulti a favore o contro la  tesi che si intende sostenere: così, i palestinesi avrebbero ragione anche quando giustificano gli atti terroristici di Hamas perché essi sono il popolo oppresso i cui morti civili sono molto più numerosi di quelli israeliani del 7 ottobre 2023; ma Liliana Segre, pur vittima, non avrebbe ragione di negare che i palestinesi siano oggetto di genocidio, e il numero degli ebrei vittime del nazismo (6 milioni), pur essendo di gran lunga maggior di quello dei civili palestinesi, non conterebbe (so bene, poi, che il carattere genocidiario non è dato dalla numerosità).
  L’empatia con chi soffre, se è tale, non può avere carattere selettivo, non può essere per i sofferenti di una parte e non anche per quelli, pur di numero minore, dell’altra. Nessun nonviolento, su ciò, mi pare che abbia dubbi; Pat Patfoort non meno che Johan Galtung (“empatia verso tutte le parti”) lo dicono esplicitamente – se fosse necessario citare ‘autorità’. In nonviolenza vale il principio noto come principio di non comparabilità delle sofferenze, cioè di non ‘raffrontabilità’, di non pesatura, delle sofferenze: l’empatia non è un bene esclusivo che, se si dà a qualcuno, si toglie a un altro e dipende dalla relazione che si è capaci di avere, non dal numero di morti presso le parti. E lo si capisce bene, per esempio, quando si piange addirittura con maggiore dolore la sola uccisione della propria madre piuttosto che quella di cento sconosciuti. 
     All’interno del modo di pensare binario resta dunque, in ultima istanza, anche la formula secondo cui “non c’è pace senza giustizia”. Questa suona in maniera giustamente molto bella perché è concepita come l’opposto di “non c’è pace con ingiustizia”, espressione che ben a ragione chiunque abbia a cuore la giustizia si rifiuta di accettare. In ogni caso, tuttavia, siamo sempre dentro un paradigma dicotomico.
Se usciamo da esso, l’alternativa alla posizione secondo cui “non c’è pace con ingiustizia” non è necessariamente l’altra appena detta, che però può, in un orizzonte più ampio, farne parte. Infatti è possibile una posizione espressa dalla formula “non c’è pace senza giustizia, e non c’è giustizia senza dialogo”, che mette l’accento sull’esigenza dell’ascolto reciproco tra le parti in conflitto, magari favorito da una terza parte con funzione di mediazione.
      In nonviolenza, infatti, direi che la parola “verità” si declina nel senso del prioritario ascolto di entrambe le parti non tanto al fine di arrivare a stabilire chi, alla luce del Diritto vigente, abbia torto e chi abbia ragione (il che rientra ancora, appunto, nel ‘normale’ paradigma della giustizia, insomma nel paradigma giudiziario, dove “verità” è da intendere al singolare: la verità). Piuttosto, in nonviolenza, “verità” va inteso in primo luogo come un plurale (le verità), perché il fine è, innanzitutto, quello 
1. di fare emergere le ragioni di ciascuno, in modo che tutti possano comprendersi, 
2. di individuare i loro rispettivi bisogni, al di là delle posizioni che magari sono presentate come opposte argomentando l’uno contro l’altro,
3. di agire in vista di una trasformazione positiva del conflitto che preveda il trascendimento e l’individuazione di una soluzione soddisfacente per entrambe.
Non è dunque importante stabilire chi abbia cominciato, quanto capire per quale motivo, dal suo punto di vista, ha agito chi da un punto di vista esterno al suo, sembra aver cominciato. C’è forse una fase invisibile del conflitto che gradualmente giunge a un certo punto, nell’azione di una parte specifica, a diventare violenza esplicita e guerra? Può darsi che con l’azione che per la sua visibilità sembra l’“inizio” la parte che la compie stia esprimendo la posizione che ritiene, anche se a torto, l’unica possibile per soddisfare il suo bisogno? 

      Per rispondere a tali domande è necessario partire dall’individuazione dei bisogni delle parti che sottostanno alle posizioni che esse esprimono in termini bellici.  È ciò che è stato fatto ad esempio nel 1978-79, quando gli accordi di Camp David riuscirono a fermare la guerra tra Egitto ed Israele grazie alla mediazione del Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, Israele, nel 1967 (guerra dei sei giorni), aveva invaso l’Egitto occupando la penisola del Sinai e l’Egitto si apprestava a riprendersela, ma gli incontri a Camp David (durati dodici giorni) fecero emergere che l’occupazione mirava non all’annessione di quel territorio ma alla possibilità di difesa nel caso di attacchi arabi: la decisione di restituire all’Egitto il Sinai lasciandolo però demilitarizzato, come zona cuscinetto, garantiva il bisogno dell’uno di riavere il proprio territorio e quello dell’altro di avere assicurata la possibilità di difendersi.
      Così, si può scoprire subito che anche Putin ha bisogno di sentirsi sicuro dalla Nato e che appunto per questo non la vuole nella confinante Ucraina mentre Zelensky ha bisogno di sentirsi sicuro dal rischio di un attacco russo che voleva evitare entrando nella Nato. E tutto si sarebbe sistemato proponendo la non entrata dell’Ucraina nella Nato per rassicurare Putin, e un’intesa su cosa si sarebbe fatto in caso di intervento militare di quest’ultimo in Ucraina anche al di là degli accordi tra i membri della Nato (in questa ipotesi l’UE non avrebbe fatto fallire gli accordi, come invece ha fatto ad agosto 2025): che poi, bisogna dirlo, è il piano prospettato da Trump – ma che l’Unione Europea per prima, attestata su una logica del tifo, ha contribuito a far fallire. E per Israele-Palestina? Anni fa Johan Galtung ha formulato il progetto cosiddetto “1-2-6-20”, ma non ho il tempo neanche per accennarvi – e d’altronde non era il tema di questo mio intervento.


Intervento del prof. Andrea Cozzo, c/o Borgo Danilo Dolci – Trappeto (PA), 18.10.2025


1. In forma ‘calda’ (cioè come alleanza militare) o in forma ‘fredda’ (ovvero come supporto militare esterno).
2.  Cfr. Inno nazionale composto in quell’epoca.
3.  Come quello di Luigi Sandri (Città santa e lacerata. Gerusalemme per ebrei, cristiani, musulmani, Monti, Saronno 2001) e quello del Peace Research Institute in the Middle East (La storia dell’altro. Israeliani e palestinesi, Una città, Forlì 2002).
4.   Esempio di non-dialogo è stato il comportamento di Enzo Iacchetti il 16 settembre 2025 (ribadito anche nei giorni seguenti) alla trasmissione Carta bianca che ha avuto parecchie decine di migliaia di like. Le parole “definisci bambini” del suo interlocutore Eyal Mizrahi, il presidente dell'associazione Amici di Israele, dopo le quali l’attore è scoppiato in un attacco di collera feroce e cieca, erano, peraltro all’interno di una frase non completata perché interrotta dalla rabbia di Iacchetti, chiarissime per chiunque non fosse vittima di chiusura ideologica e unilateralismo: intendevano fare riferimento al fatto che molti bambini palestinesi, già verso i 14 anni, vengono istruiti alle armi, conservando dunque dei bambini solo l’età e non anche lo spirito. Ma di quelle parole ha prevalso – per quanto mi è dato di sapere, senza alcuna eccezione – una strumentalizzazione: una strumentalizzazione messa in atti dai ‘buoni’.

(Le parti in neretto sono state evidenziate dalla scrivente che ha riportato lo scritto nel blog)




domenica 19 ottobre 2025

Sicilia bedda? Sembra proprio di no…

      Palermo – “Sicilia bedda mia, Sicilia bedda…”, cantava Franco Battiato nella canzone Veni l’autunnu, esprimendosi in dialetto siciliano. Invece, in questo inizio di autunno, la Sicilia non ha donato grazia e bellezza, ma è stata alla ribalta nei media nazionali per vari episodi di cronaca, tutti negativi.
     Intanto ha fatto notizia il rapimento-lampo di un diciassettenne, portato via con la forza mentre era in strada, sotto gli occhi attoniti dei suoi amici. Il fattaccio è avvenuto la sera del 25 settembre a Vittoria, grosso centro del ragusano. Il ragazzo, figlio di un commerciante di prodotti ortofrutticoli, è stato poi ‘liberato’ meno di 24 ore dopo, senza una richiesta di riscatto. La famiglia e tutta la comunità isolana hanno tirato un respiro di sollievo; ma un rapimento è una ferita, il sintomo della ripresa di una prassi criminale, un grave segnale d’allarme che non può essere sottovalutato.
    Il 10 ottobre scorso a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, è morta a 56 anni la professoressa Maria Cristina Gallo. La sua morte ha fatto molto rumore perché la donna, che lascia due figli e il marito, è morta di malasanità. 
    Ecco la sua storia: Maria Cristina era stata sottoposta a un intervento chirurgico per un fibroma uterino a dicembre del 2023, nel reparto di ginecologia dell’ospedale di Mazara del Vallo. Le era quindi stato prelevato un campione di tessuto per effettuare una biopsia. Sebbene il referto (continua su il Punto Quotidiano)

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 19 ottobre 2025

venerdì 17 ottobre 2025

Stelle filanti

Vincent Van Gogh: Notte stellata,1889, penna e inchiostro (museo Shchusev-Mosca)



Partorire

di notte

tra neuroni danzanti

stelle filanti di idee…

Mar-uz-ziane.                             

mercoledì 15 ottobre 2025

Scongelare i cervelli contro la crisi climatica

      Palermo – Perché rimaniamo quasi sempre inerti mentre i ghiacciai si sciolgono, alluvioni e siccità devastano vari territori, gli oceani e i mari si riscaldano, la biodiversità si riduce?  Perché di fronte all’incontestabile cambiamento climatico né i singoli né le istituzioni politiche fanno qualcosa di significativo per contrastarlo? 
       Lo aveva già spiegato, nel suo saggio del 2019 Possiamo salvare il mondo prima di cena, il giornalista americano Jonathan Safran Foer, che scriveva: “Il nostro sistema d’allarme non è fatto per le minacce concettuali e continuiamo a vivere come se niente fosse.” “Continuiamo a sentire lo sforzo di salvare il nostro pianeta come una partita fuori casa di metà campionato”.
       Ce lo rispiega oggi Matteo Motterlini, Direttore del Centro di Epistemologia sperimentale dell’Università san Raffaele di Milano, nel suo testo Scongeliamo i cervelli, non i ghiacciai (Solferino, Milano, 2025). 
     Ecco le sue parole nell’intervista rilasciata ad Alessia Mari il 30 settembre scorso, al Telegiornale della scienza Leonardo: “Noi abbiamo un cervello progettato per reagire a sfide concrete, immediate e fa molta fatica ad affrontare un problema (la crisi climatica) che è invece lento, insidioso, che si svolge su un arco temporale molto lungo.
Il nostro cervello si è evoluto per sopravvivere nella savana, per reagire e scappare istantaneamente da un predatore. Oggi invece siamo chiamati a una sfida molto difficile: agire subito per qualcosa che accadrà domani o nel futuro”.
     Proprio come nella celebre metafora della rana bollita, rischiamo di restare immobili in una pentola che si scalda a poco a poco, senza attivare il nostro sistema d’allarme. Infatti, tale ‘miopia temporale’ è proprio uno dei  blocchi cognitivi descritti nel libro: il nostro cervello è ancora ‘tarato’ per sopravvivere a minacce concrete; oggi, pur recependo l’allarme climatico, il nostro cervello si blocca, quasi si ‘congela’ non attivando i necessari segnali d’allarme.
      “Il solo vedere i dati e le statistiche non ci fa scattare la molla per agire – ha continuato il professore Motterlini – perché il nostro cervello ha bisogno di avere esperienza per avere paura. Inoltre, oggi diamo un’importanza enorme a quello che possiamo avere immediatamente”.
     A questo proposito, la giornalista Alessia Mari sottolineava che: “Nell’era della gratificazione immediata, tutto si complica: nel nostro cervello il sistema di ricompensa del mesencefalo, che coinvolge il piacere, si attiva oggi sempre più spesso rispetto alla corteccia prefrontale, preposta invece alla pianificazione, al ragionamento astratto e all’autocontrollo. Per cui rimaniamo ancorati a stili di vita comodi, anche se deleteri per l’ambiente”. 
    “Se gli alieni – ha aggiunto ancora la giornalista – decidessero di sconfiggere gli esseri umani e conquistare la terra, non lo farebbero probabilmente con un’invasione di astronavi, pericolo immediatamente riconoscibile, contro cui sapremmo prontamente reagire. Ci annienterebbero piuttosto con una minaccia graduale, remota nel tempo, che il nostro cervello fatica ad elaborare: ci manderebbero proprio una crisi climatica…”
    Appurato che il problema di fondo è la nostra risposta cognitiva inadeguata alle nuove situazioni ambientali, è innanzitutto necessario conoscere a fondo il nostro modo di pensare per ‘scongelare’ le trappole mentali che ci bloccano, ci rendono indifferenti o rassegnati 
   Allora le istituzioni formative (scuola e università), il mondo dell’associazionismo e dell’informazione hanno il compito di favorire nel nostro cervello, ancora così arcaico, la demolizione dei pregiudizi e una postura critica finalizzata a costruire strategie di cambiamento e progetti di lotta concreta al cambiamento climatico.
    Perché è questa l’unica battaglia per la quale dovrebbero combattere insieme tutti i popoli della terra.

Maria D'Asaro, 12 ottobre 2025, il Punto Quotidiano

lunedì 13 ottobre 2025

Noi, che ...

 
L. Alma -Tadema: Ritratto di Anna e Laurense (1875)
 Noi, che cuciniamo razione tripla di lenticchie con carote per i nipotini

Noi, che combattiamo con pazienza la cocciniglia dalla rosa di cera con i fondi di caffè

Noi, che non gettiamo neppure  la crosta di pane, mangiamo yogurt scaduto e le melanzane arripuddute, perché tutto è grazia di Dio

Noi, che lasciamo scorrazzare le formiche, nel pavimento della cucina, almeno per oggi

Noi, che ci consoliamo ascoltando Branduardi, De Andrè e Francuzzo Battiato

Noi, che ricicliamo anche le minuscole pezze per pulire vetri e ogni superficie lavabile

Noi, che siamo disperate per lo scioglimento del permafrost che rilascia il terribile metano e non ci dà affatto una mano

Noi, che abbiamo fatto voto di non usare quasi mai l’auto ma ci sentiamo sole, impotenti e patetiche

Noi, che siamo atterrite per le conseguenze delle guerre sulla salute malferma del nostro pianeta

Noi, oggi siamo felici per il rilascio dei poveri ostaggi israeliani e per la tregua nella martoriata striscia di Gaza. E desideriamo che in futuro nessuna creatura muoia di guerra.


domenica 12 ottobre 2025

10, 100, 1000 piazze di donne per un mondo disarmato

Oggi a Perugia
La CARTA DELL’IMPEGNO PER UN MONDO DISARMATO - Tessere la pace, custodire il futuro, di seguito trascritta, è stata presentata sabato 11 Ottobre 2025 a Perugia,  delle donne organizzatrici dell’iniziativa 10 - 100 - 1000 Piazze di donne per la pace:

Alcune delle promotrici dell’iniziativa hanno poi oggi partecipato alla marcia Perugia-Assisi (qui notizie su Wikipedia).

(Questa Carta nasce dal confronto tra donne impegnate per la pace in molte città italiane. E’ una presa di posizione collettiva che raccoglie pratiche e pensieri femministi, strumenti per pensare il presente a partire da una politica del disarmo, della cura e della giustizia)

1. La guerra: forma estrema del patriarcato 

Le guerre che devastano il mondo non sono un'anomalia, ma la conseguenza ultima di un sistema patriarcale che legittima la violenza come linguaggio e il dominio come unica forma di potere. 

Ogni guerra devasta corpi, popoli, territori, animali e ambienti; non distrugge solo vite, ma la possibilità stessa della vita sulla Terra. In questi anni anche i soli conflitti a Gaza e in Ucraina hanno generato impatti ambientali devastanti: milioni di tonnellate di CO₂ emesse in pochi mesi, inquinamento persistente da esplosivi e macerie, distruzione di infrastrutture civili con conseguenze ecologiche a lungo termine. In entrambi i casi, il danno ambientale si somma al disastro umanitario, aggravando la crisi climatica globale. 

Oggi il sistema patriarcale che per millenni ha realizzato il “progresso”, utilizzando anche i mezzi più brutali, sembra giunto al collasso e i dispositivi che gli uomini si sono dati per regolare, temperare la logica della forza, non reggono più. 

La guerra non è inevitabile: sono i governi, gli eserciti, le industrie belliche a volerla. «Non è il destino o una legge naturale a condannarci alla guerra», scriveva Rosa Luxemburg dal carcere nel 1917, «sono i padroni della terra, i potenti che, per difendere i loro profitti e il loro dominio, mandano milioni al macello. Ma noi abbiamo la forza di opporci, se solo ci uniamo.» 

2. La differenza femminista nella critica della guerra 

La nostra critica non si limita alla condanna dei conflitti armati: * sottolineiamo la continuità tra patriarcato e guerra, visibile nella volontà di controllo e annientamento dell’altro e - in forma radicale - dell’altra, come testimoniano lo stupro praticato come arma e i regimi che fondano il proprio potere sul dominio dei corpi femminili, in Iran come in Afghanistan; * denunciamo la volontà di sopraffazione in tutte le sue forme e l’alleanza tra poteri armati ed economie predatrici; * smascheriamo la mascolinità militarizzata e l’uso della forza travestita da difesa. 

Già Virginia Woolf, nel secolo scorso, aveva svelato il legame tra potere, privilegio maschile e violenza armata riconoscendo alle donne la capacità di immaginare civiltà fondate su altri valori. 

Nel 2003, Leymah Gbowee (premio Nobel per la pace nel 2011) ha dato vita in Liberia a un movimento per la pace capace di unire donne cristiane e musulmane in una lotta nonviolenta: preghiera, sciopero del sesso, occupazione degli spazi pubblici. Un esempio potente di dissenso incarnato, attivo, collettivo, radicato nei corpi e nelle relazioni. 

A partire dagli anni ’90 del XX secolo, gli studi di Heide Göttner-Abendroth sulle società matriarcali hanno mostrato che la guerra non è un destino inevitabile: comunità senza gerarchie né dominazioni di genere, basate su valori come il prendersi cura, il nutrimento, la mediazione, la nonviolenza - valori universali, per chi è madre e per chi non lo è, cioè per tutti gli esseri umani - costituiscono oggi un esempio concreto di convivenza pacifica e dimostrano come l’estraneità storica delle donne alla guerra possa diventare strumento di trasformazione e giustizia. 

È a queste parole, pratiche e visioni che ci ispiriamo: forme di pensiero e immaginazione politica di donne che hanno saputo sottrarsi alle logiche della violenza, e che continuano a offrire orientamento e pensiero per percorsi di pace, giustizia e trasformazione. 

3. Disarmare il sistema 

L’industria bellica, l’export di armi e la militarizzazione dei territori costituiscono il cuore stesso di un’economia della distruzione. In questo sistema i corpi delle persone vengono ridotti a strumenti da sfruttare o sacrificare a fini economici e militari, i territori diventano scenari di occupazione, le vite semplici numeri calcolabili. A sostenerne la legittimità intervengono narrazioni distorte della sicurezza che normalizzano la violenza e occultano le responsabilità politiche. (continua qui)


venerdì 10 ottobre 2025

Caro papà...

      Caro papà,
mi sono sempre inorgoglita e commossa guardando l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica che ti è stata conferita il 30 dicembre 1952, quando eri sindaco - integerrimo - di Giuliana: onorificenza firmata da Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi, allora rispettivamente Capo del governo e Presidente della Repubblica.
       Tempi lontanissimi, direbbe Francuzzo Battiato: ad averceli oggi un De Gasperi e un Einaudi… Ad avercelo oggi ancora un sindaco e un padre come te…
    Quasi quasi mi vergogno a confessarlo: mi manchi… 
    Sarebbe bello parlare ancora con te di politica, come facevamo sempre quando eri vivo. 
Sei morto neppure due anni dopo la caduta del muro di Berlino e lo scampato golpe militare nell’ex Urss, ancora governata da Gorbaciov. Quando ci eravamo illusi di essere entrati in una irreversibile e luminosa era di concordia e di pace.
     Invece, subito dopo, la prima guerra del golfo, l’atroce carneficina nell’ex Jugoslavia, la seconda guerra del golfo, l’Afghanistan, l’11 settembre, i massacri in Cecenia e in mezzo continente africano… 
E l’altro ieri la guerra tra Russia e Ucraina: due nazioni sorelle, con la stessa religione, con una storia intrecciata… Intanto da anni, amplificato orribilmente dal 7 ottobre 2023 all’altro ieri, l’orrore in Palestina.
Questi misfatti non li hai visti. O forse li conosci anche tu, ma da posti lontanissimi, da un’altra dimensione?
    Due giorni dopo l’11 settembre ti sei risparmiato, su questo piano di coscienza, il dolore per la morte prematura della tua seconda figlia, la dottoressa Sally che tanto amavi…
Così, andata via all’improvviso anche la mamma un anno prima, di noi quattro qui sono rimasta solo io.  Chissà se mi guardi da lassù…
     Sono un pochino emozionata perché da qualche settimana è uscito il mio secondo libro: https://www.lafeltrinelli.it/lettere-a-bambino-poi-nato-libro-maria-d-asaro/e/9788893633574
È un romanzo,  in dialogo con Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, con tanti interrogativi sulla maternità… chissà se ti sarebbe piaciuto…
    Chissà se oggi saresti contento di me: per certi aspetti sì, per altri meno… 
Sicuramente ameresti immensamente Irene, Riccardo e Luciano e giocheresti a dama e a scacchi con Alessandro e Davide…
      Ti voglio tanto bene, dovunque tu sia. E, per favore, sorridimi e incoraggiami ancora.

mercoledì 8 ottobre 2025

Siamo sorelle e fratelli in una casa comune...

Marc Chagall: La vie (1964)
      

In quest’articolo di Michele Serra si riconosce la sua antica lucidità intellettuale, condita da un prezioso afflato umanistico. Ringrazio Massimo Messina che lo ha condiviso.
         Siamo figli delle stelle, fratelli e sorelle in un pianetino splendido e martoriato. Abbiamo una breve esistenza umana: non siamo qui per ammazzarci in nome di nefasti proclami nazionalistici. 
     E questo vale per tutti. Innanzitutto per i capoccia americani, israeliani e russi. E per il terrorismo di Hamas.


Perché l’umanità deve resistere

"Nell’Assemblea del Mondo (per quanto consunta e depotenziata, questa, non altro, è l’Onu), Bibi Netanyahu ha parlato come un capotribù. Come se il contesto fosse ininfluente, liquidata per sempre l’idea che esistano interessi sovranazionali, che i diritti umani, per definizione, siano umani e dunque di tutti, che in quel luogo si vada, fino dalla sua fondazione, per tentare — almeno tentare! — di mediare i conflitti e sedare l’odio.
    Come pochi giorni fa ha dimostrato un altro capotribù, quello molto più grosso di lui, Donald Trump, all’Onu non si va per parlare con il Mondo, ma per sfidarlo a muso duro.
Per offenderlo oppure deriderlo, farlo sentire una zavorra di ciance e illusioni, declassarlo a vecchio impiccio ideologico, a ricatto ipocrita, niente che possa fare arretrare la Nazione, unico vero soggetto autorizzato all’azione (e alla guerra) perché munito di un’etica antica e riconoscibile: la Grande Israele, la Grande America, la Grande Russia, ecco il vento del terzo millennio.
    Il resto — il multilateralismo, la pace come destino morale sovra-ideologico dopo secoli di guerra e di sterminio, la gestione sovranazionale della lotta alle malattie e alla fame — è cianfrusaglia novecentesca. L’umanità non esiste più. Esiste solo la Nazione.
I banchi vuoti per più della metà erano già un segno: il segno di una fuoruscita ormai di massa dalla sopportazione reciproca. Lo show di Bibi aveva la modestia, immediatamente riconoscibile, della propaganda politica, e nello specifico della propaganda bellica: per uscirne, dalla propaganda, bisognerebbe alzare lo sguardo, sconfinare anche di pochi chilometri dalle proprie mura, capire che il dolore altrui vale il proprio e il sangue altrui non lava il proprio; nemmeno se in proporzione cento a uno, cento litri per ogni litro, cento bambini per ogni bambino, traguardo ormai alla portata di Bibi.
     Non è vero, non è per niente vero che «tutti si sono dimenticati del 7 ottobre». Nel florilegio di menzogne di Netanyahu, è forse la più sconcia. La lagna ombelicale di Bibi, identica a quella di tutti i boss nazionalisti, tende a far credere che il proprio lutto, la propria tragedia, sia incompresa dal Mondo (cattivo Mondo!) perché il nazionalista è convinto che tutti siano uguali a lui, irosi e meschini come lui, conformi alla sua visione tribale delle cose, dunque incapaci di compiangere alcuno al di fuori del proprio villaggio. Non si capacita che qualcuno consideri orrendo allo stesso modo, diabolico allo stesso modo, il massacro subìto e il massacro inferto. La boria nazionalista è così smisurata da non riconoscere intelligenza in chi si china sui morti senza controllare prima il passaporto, specie i morti bambini, troppo precoci destinatari della catalogazione nazionale, religiosa e ormai neo-razziale che devasta la testa degli adulti, dei capi assatanati e degli attivisti ossessi che hanno come solo obiettivo uccidere per sopravvivere.
    Bibi piazza i suoi megafoni sulla testa piegata del nemico, ostenta all’occhiello il suo predomino tecnologico e manda i suoi sciami di droni a colpire chi pretende di non dividere l’umanità in Nazioni, e va per mare credendo sia vero e rispettato il codice (antico!) della navigazione in acque internazionali. La scala rovesciata dei nazionalisti (la Nazione è smisuratamente più importante del Mondo, pur essendone, obiettivamente, una infima porzione) sta vincendo, forse ha già vinto. Non c’è più niente di credibilmente inter-nazionale. Tutto è solo Nazione. La Nazione mette a riposo la ragione, dispensa dalla fatica di pensare e, non sia mai, di nutrire dubbi non solamente sugli altri, perfino su se stessi: «Il popolo russo non è abituato a pensare» è la frase, annichilente, terminale, che la figlia di Anna Politkovskaya ci ha consegnato pochi anni fa. Chissà in quale percentuale il popolo israeliano, che ha una tradizione millenaria di confutazione e discussione, è ancora nelle condizioni di pensare. E mentre Bibi sciorina all’Onu il suo diario minimo credendolo la Bibbia, un manipolo di gente inerme e senza-Nazione, sulle barche della Flotilla, sa di poter contare solamente sulla propria buona stella.
    Volendo scovare anche dentro una mediocre pagina — il discorso di Netanyahu all’Onu e contro l’Onu — un elemento positivo, quel discorso ci aiuta a mettere a fuoco che il nazionalismo israeliano non è poi così differente dagli altri. Lo valutiamo sempre, come è inevitabile che sia, alla luce della storia orribile di persecuzione e sterminio che gli ebrei hanno subìto. Capiamo a stento come da quella storia di perseguitati possa sortire, sia pure solo in una parte di quel popolo, un simile spirito di persecuzione — e desta incredulità, dolore, scandalo scoprirlo. Ma il nazionalismo è piatto: uguale ovunque, Noi abbiamo ragione, Noi vinceremo, e a indicarci la strada è Dio in persona. Sono fatti con lo stampino, i leader nazionalisti.
     L’attuale governo israeliano non è per niente eccezionale, il suo riduzionismo ottuso e violento (Nazione contro Mondo) è uguale a quello dei capoccia “patriottici” di mezzo pianeta, niente di più niente di meno. È l’altro pezzo di umanità, quello che antepone i diritti umani alla Nazione, la promiscuità alla purezza, dunque la convivenza alla guerra, e il rispetto del vivente, e dei viventi, a tutte le religioni del Libro, a doversi riorganizzare come se si fosse al punto zero. E i discorsi di Trump e Netanyahu all’Onu sono una buona approssimazione di quello che possiamo definire: punto zero."

Michele Serra - la Repubblica 27.09.2025

domenica 5 ottobre 2025

La toponomastica a Palermo: nei nomi storia e identità

      Palermo – Mesi fa, durante una chiacchierata informale con la professoressa Ornella Giambalvo, docente ordinario di Statistica sociale all’Università di Palermo, la scrivente si era mostrata assai interessata alla tipologia dei nomi di vie e strade cittadine. E si domandava se fosse possibile uno studio sistematico al riguardo…
    Poco tempo dopo, con esemplare prontezza, l’amica docente le ha donato un’analisi statistica dal titolo esplicativo “La toponomastica a Palermo: viaggio fra storia, cultura, persone e luoghi che disegnano l’identità della città”, dove la professoressa Giambalvo esordisce scrivendo: “Palermo, con il suo straordinario patrimonio storico e culturale, offre un esempio affascinante di come le stratificazioni linguistiche e le dominazioni succedutesi nei secoli abbiano lasciato traccia nei nomi delle sue strade, piazze e quartieri. Ogni dominazione, infatti, ha lasciato un’impronta nella toponomastica cittadina, rendendola un mosaico di influenze linguistiche e storiche risalenti ai Fenici, ai Punici, al periodo greco e romano, alla dominazione Araba (da cui il nome dell’intero quartiere della Kalsa), o all’epoca Normanna e Sveva o ancora alla dominazione spagnola e moderna.
Fig.1
       Ciascuno di noi, palermitano o turista o semplice cittadino capitato per caso un giorno a Palermo, passeggiando per la città si trova dentro un archivio storico che narra di famiglie, personaggi, luoghi, monumenti, battaglie storiche, virtù, santi ed eroi, martiri, poeti e letterati, e dentro un giardino fatto di fiori, piante, animali.”
      Da questo prezioso studio statistico si evince innanzitutto che i toponimi usati a Palermo sono 5031, di cui 4496 distinti: “128 siti, poco più del 2,5% del totale, soprattutto vie, sono ancora senza nome e identificate da sigle. (…) Quasi la metà dei toponimi è dedicata a personaggi, mentre rispettivamente il 10% e il 9% è dedicata ai luoghi e a persone o luoghi riconducibili alla cristianità. Seguono, in ordine decrescente, le altre categorie.” (Fig.1)
Fig.2
      Viene poi esaminata la distribuzione per tipologia: la categoria dei personaggi, probabilmente sottostimata, rappresenta quasi la metà dei toponimi di Palermo: il 49%.
E qui viene fuori l’evidente squilibrio di genere nella denominazione delle strade e delle piazze: infatti ben il 93% sono figure maschili, spesso sovrani, uomini legati a guerre o alla politica, mentre le donne rappresentano appena il 7% della categoria. 
Si evidenzia poi che la tipologia di personaggi maschili e femminili, all’interno dell’elevato divario di genere, ci consegna tra lo sparuto numero di donne una gran quantità di figure mitologiche, mentre tra gli uomini hanno spazio varie tipologie di professionisti in vari ruoli (medici, ingegneri, letterati) anche se emergono tanti generali e politici. 
Sembrerebbe che per le donne vada meglio se si tratta della titolazione dei viali, ma in realtà i viali a Palermo sono assai pochi e la loro titolazione al femminile non muta i numeri su riportati. 
Lo studio statistico della professoressa Giambalvo ci informa ancora che la prevalenza dei toponimi maschili è confermata anche per quel 9% di vie/strade/vicoli ecc. dedicati a figure o siti religiosi (beati, Santi, vescovi, cardinali, preti, Cristi).
Aggiunge comunque che la percentuale di figure femminili religiose (beate, sante, suore, Madonne) è nettamente superiore a quella dei personaggi femminili “civili” (il 20% di figure religiose femminili contro il 7% di figure ‘civili’ femminili)”. (Fig.2)
Fig.3
       Se si sposta lo sguardo all’intitolazione dei luoghi e monumenti di interesse il divario tra presenze femminili e maschili si attenua leggermente. Intanto dei 141 luoghi e monumenti di interesse (parchi, giardini, ville, villette, sale lettura, ecc.) il 74% si riferisce a persone, il 5% circa a religiosi o luoghi di culto, e il 9,2% a luoghi. La quota mancante comprende personaggi e/o gruppi misti, sia maschili sia femminili. Nel caso di luoghi di interesse dedicati a persone, le figure femminili sono il 15,4% vs. il 77,9% delle figure maschili. (vedi Fig.3)
        Se si va poi ad esaminare la distribuzione per toponimi di genere e quelli senza nomi all’interno delle otto circoscrizioni in cui è suddiviso il capoluogo siciliano, si trova che la settima circoscrizione, l’area più a nord della città, è quella con la maggiore presenza di toponimi femminili, mentre le circoscrizioni seconda e terza (le periferie a sud-est della città) presentano la più alta percentuale di toponimi vuoti o con sigle provvisorie. 
Fig.4

     Da evidenziare poi che l’ottava circoscrizione, limitrofa con il centro storico, edificata intorno all’800, presenta nel 97,2% dei casi toponimi maschili. (Fig.4)
         Lo studio non si fermerà qui: il prossimo passo sarà proprio quello di analizzare analiticamente chi c’è (e chi non c’è) tra le vie di Palermo, consapevoli che la toponomastica, come ci ricorda la professoressa Giambalvo, “rappresenta una chiave fondamentale per comprendere la storia e l’evoluzione di una città”.
Per capire da dove veniamo e, con i nomi che si daranno in futuro a vie e luoghi cittadini, in che direzione culturale vogliamo andare… 
 
Maria D'Asaro, 5.10.25, il Punto Quotidiano

giovedì 2 ottobre 2025

Nonviolenza, la politica umana e concreta che ci serve...

    Le azioni politiche, se vogliono essere a servizio dell'umanità, devono 'sposare' la nonviolenza.

      Oggi 2 ottobre, giornata internazionale della nonviolenza, non poteva essere data migliore per l'azione nonviolenta della Global Sumud Flotilla.

Ecco quanto scritto su FB dall'amica Alessandra Colonna Romano:

"Continuiamo a sentire da parte della Presidente del Consiglio e da esponenti del suo governo in riferimento ai membri della Flotilla, la parola "irresponsabili". Sfugge come questi "irresponsabili" siano in realtà persone profondamente "responsabili" in quanto, come la radice stessa del termine suggerisce, "rispondono": a cosa? A due anni di massacri nel silenzio dei nostri democratici governi cercando, con la loro azione, di smuovere le coscienze e far sì che chi gestisce le sorti degli Stati isoli Israele nel suo piano  scellerato. Si dimentica che l'orribile e terrificante atto del 7 Ottobre è  stato unanimemente condannato; che quella della Flotilla è  una missione umanitaria,  nonviolenta, che non porta armi e che non vuole e non sarebbe neanche nelle condizioni di difendersi; naviga in acque internazionali e ha l'obiettivo di giungere fino alla costa gazawa, che illegalmente Israele presidia; si dimentica che i membri della Flotilla non vogliono fare gli "eroi", non sono kamikaze, sono uomini e donne che vivono l'entusiasmo dell'impresa ma anche le paure, infatti qualcuno non si è sentito di continuare, verosimilmente per timore (cosa c'è di più umano?). La Flotilla è  una luce che ci ricorda la nostra umanità, che è  tale perché si indigna di fronte allo scempio di vite umane.  Non si può  certo dire che i suoi membri siano  "pacifisti da divano",  altra garbata espressione  usata nei confronti di chi, sin dalla guerra in Ucraina, manifestava contro l'escalation bellicista...Insomma sia che si manifesti pacificamente,  sia che un gruppo trovi il coraggio di mettere i propri corpi e la propria vita in gioco, le alchimie linguistiche dei nostri politici, con i propri giornalisti al seguito,  riescono a ribaltare ogni significato.... Gli uomini e le donne della Flotilla non vanno né derise né  sminuite, tantomeno offese. Vanno rispettate e ringraziate dal profondo.

Da parte nostra sentiamo di sostenerli, sempre e solo secondo modalità pacifiche e   nonviolente, e  'con gli occhi su Gaza', come da loro costantemente ricordato. Il vento sta cambiando.....la politica sarà in grado di farsi interprete di quella parte di mondo che non vuole più né guerre nè armi?"

Sulla nonviolenza, qui:

https://maridasolcare.blogspot.com/2022/10/nonviolenza-lottare-senza-uccidere.html

https://maridasolcare.blogspot.com/2024/10/sofia-daniel-tarteel-e-aisfa-uniti-per.html

https://maridasolcare.blogspot.com/2025/06/e-se-il-rifiuto-della-guerra-fosse-il.html

https://maridasolcare.blogspot.com/2025/06/gentma-presidente-del-consiglio-il.html

https://maridasolcare.blogspot.com/2023/10/pensare-il-nemico-la-voce-di-david.html

Il nostro futuro o sarà nonviolento o non sarà o sarà atroce...

Mentre al Politeama, a Palermo, c'è una mostra di 'mostri' (armi dell'esercito), lo scriviamo con fermezza: gli eserciti, le armi (dal fucile al carro armato all'atomica) sono il problema e non la soluzione.


mercoledì 1 ottobre 2025

Forza Palermo e viva il congiuntivo!

        (Le affezionate lettrici e i cari lettori potrebbero ripetere: Ma comu ti spercia, con le tragedie che stiamo vivendo? Cerco di distrarmi, proprio per non morire di disperazione…)

   Nostra signora segue il calcio da sempre: negli anni ’70 ascoltava Tutto il calcio minuto per minuto, con il mitico Sandro Ciotti (scusa Ameri…) e adorava Gigi Riva. 
    Ora continua a interessarsene per amore dei nipotini Alessandro e Davide, che il calcio lo seguono e lo praticano anche. Così, si tiene al corrente sulle ingloriose vicende della nazionale, sulla Juve e sul Palermo, squadra di casa. Con un’attenzione speciale per il mister di turno: ad esempio, apprezzava Corini per la sua signorilità e perché… non sbagliava una concordanza verbale. Ora stima Pippo Inzaghi che, in una recente intervista, ha detto: “Totò Schillaci è stato il mio idolo… ho avuto modo di conoscerlo ed era assai piacevole andare a trovarlo. Mi sarebbe piaciuto che lui avesse visto che io sto allenando il Palermo…”. Allora, forza Palermo ed evviva Pippo, che porta avanti la nostra squadra ed azzecca persino l’uso del congiuntivo!

Maria D’Asaro