mercoledì 17 novembre 2010

Quindici anni e tre mesi

     Bastava un bambino che vociava più forte del solito, nel parco giochi del palazzo. O un’amica che non smetteva di commentare la pagella della figlia. E quel tarlo silenzioso si riaffacciava all’improvviso, nel balcone disordinato dei pensieri. Quasi obbligandola, ogni volta, a un conteggio. 
Che faceva piano, calcolando ogni volta anni e mesi con la punta delle dita, come una bambina lenta coi numeri. Per ricordarsi quanto sarebbe stato grande, ora, quel lui o quella lei che non era mai nato.
     Era successo tutto troppo in fretta. Prima l’agonia del suo matrimonio. Franato senza un motivo preciso, per il groviglio di non detti, per la distanza che nessuno dei due era riuscito più a ricomporre. Da una parte l’immobilismo di Andrea, i suoi ingombranti silenzi e i suoi troppi pensieri, la sua incapacità di scherzare. Dall’altra, la sua insofferenza per la cappa ammorbante dei suoceri, il fastidio quasi fisico per l’irresolutezza di fondo del marito. E l’indifferenza crescente, la voglia di mollare e andar via. Con Roberta, l’unica figlia, ormai sullo sfondo. Sempre più grande e lontana. Con Fabrizio era iniziata per caso: affascinata dalla sua cinica spensieratezza, dalle migliaia di foto, dal suo catturare ogni scorcio e ogni sguardo, senza mai rubare l’anima a niente e nessuno. E lei, così attenta, aveva dimenticato qualche volta la pillola. Positivo, il risultato del test, fatto solo per scrupolo. Ma la ferita della separazione non si era del tutto richiusa. E poi questo compagno, così provvisorio… 
    Di certo c’erano invece il concorso all’università, inseguito da quasi vent’anni, e la collaborazione al giornale, finalmente con contratto firmato. E i suoi quarant’anni, che l’aspettavano al varco. Quest’altro figlio, adesso, no, non se lo poteva permettere.
Solo che ogni tanto tornava. Qualche anno fa, con Fabrizio che non voleva parlarne e lo stress del libro in cantiere, il ricordo era diventato ferita infetta. Che pulsava così forte da non farla dormire. Tant’è che le occhiaie e il tremore erano divenuti evidenti. Se n’era accorto persino Saverio, il compagno di università da decenni missionario in Brasile, quando un giorno l’aveva incontrata in stazione. “Ti offro un caffè – Volentieri.” “Che succede, Francesca…” – le aveva chiesto, discreto. Le aveva detto di Andrea, del matrimonio finito. Del nuovo compagno. E poi, guardandolo dritto negli occhi, aveva accennato a quella possibilità rifiutata, agli anni e ai mesi che continuava a contare. Lui le aveva sorriso, con uno sguardo dolce e un po’ triste. Le aveva sfiorato appena appena i capelli. Aveva poi sussurrato il nome di un medico, un ex compagno: “Hai bisogno di dormire. Perché non vai a trovare Luigi? A volte un farmaco è miracoloso…”. E poi, salutandola, le aveva lasciato l’indirizzo della casa-missione, a Recife: “Caso mai hai voglia di adottare uno dei miei bambini di strada…”.
      Con le pillole era andata un po’ meglio. Adesso dormiva, la notte. Le adozioni a distanza erano state poi due. Un bambino e una bambina. Il legame con Fabrizio si era ormai assestato sulle tranquille rotaie di una sopportabile diversità. Chissà, forse sarebbero persino invecchiati insieme.
Anche oggi però si era ritrovata a contare: quindici anni e tre mesi.
Poi, lo squillo del cellulare. La redazione: il pezzo su Voltaire. Subito, per favore. Domani sarebbe andato in cinquantottesima pagina. Francesca richiude le dita e ripone delicatamente il ricordo nel suo ripostiglio segreto. Adesso l’aspetta il suo fragile, provvisorio figlio di carta.

Maria D'Asaro

2 commenti:

  1. L'argomento delicato del tuo racconto impone riflessioni forgiate dalla discrezione. Io credo che chi prende una decisione simile lo faccia perché dettata da mille ragioni che in quel momento considerava sufficientemente valide per portarla fino in fondo. Dopo tanti anni non ci si deve chiedere come sarebbe stato, perché un figlio porta "altrove", non certo dove oggi si ritrova l'ipotetica protagonista di questa storia. Altrove non è un posto migliore, né in uno peggiore. Ma altrove, appunto. C'è da chiedersi: il luogo dove si trova oggi, questa donna, le piace? Se la risposta è si, la smettesse di contare, conservando nel cuore solo una piccola malinconia. E basta. Un abbraccio delicato a tutte le donne che rimpiangono l'altrove.

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  2. I ricordi del passato non devono essere condizionati dai "se". La vita non è un buffet, dove guardi, pilucchi qua e là e ti allontani.
    Nella vita, il più delle volte, le scelte possibili sono solo due. Presa una decisione, il fatto che sia giusta o sbagliata diventa secondario. Ogni scelta "capo ha", e rimpiangere troppo quella scartata non aiuta a portare avanti l'altra.
    Il rimpianto va bene, ma non deve essere un rimpianto ossessivo.

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