Capita che vai in libreria. Compri il libro che hai in testa.
Poi ti concedi un giro tra gli scaffali. Sei colpita da un titolo: “La scuola s’è rotta”. In quarta di copertina leggi che l’autrice, la prof.ssa Mila Spicola, insegna Arte e Immagine in una scuola della periferia di Palermo. Scopri che quella scuola è a due passi dalla tua.
Compri il libro e lo leggi d’un fiato. Nelle varie lettere che la professoressa Spicola scrive – all’illustre collega Leonardo Sciascia, ai ministri dell’Istruzione e dell’Economia, a don Milani, all’ultimo della classe, alla collega dal registro perfetto… - c’è il suo urlo di dolore sulla scuola italiana. Su quella siciliana e palermitana, in particolare.
L’urlo di dolore di una docente che non si rassegna alla scure scriteriata dei ministri/boscaioli ciechi, che tagliano due ore di Italiano e una di Tecnologia ed eliminano le risorse per recuperare i bambini in difficoltà; l’urlo di dolore di chi non accetta che gli alunni in classe possano diventare fino a trenta, trentatre; l’indignazione di chi assiste quotidianamente al bivacco di ragazzini divisi in altre classi, quando un docente è costretto ad assentarsi, vista l’impossibilità di ricorrere a supplenti per mancanza di fondi.
La professoressa Spicola ci ricorda poi che, nell’Unione Europea, siamo tra i paesi col numero minore di laureati e con la maggiore percentuale di abbandoni scolastici precoci; che, sempre in Europa, siamo uno dei pochi paesi che non investe in cultura, ricerca e innovazione; denuncia inoltre che a Palermo, su 281 scuole primarie e secondarie di primo grado, due su tre non sono a norma; lamenta infine l’assoluta assenza di mobilità sociale, in Sicilia: dove un ragazzino è costretto a fare lo stesso lavoro del padre.
Ovviamente, la professoressa chiede con forza che la scuola non vada alla deriva. Che la politica cambi rotta: che nella scuola investa, invece che tagliare alla cieca.
Ma Mila Spicola non auspica gesti di liberazione velleitaria, quasi di cinematografica memoria, non invita nessuno a salire in piedi sui banchi.
Nella lettera a Roberto, il primo della classe, la collega ribadisce una cosa importante: - Sappiamo bene io e te che la vera rivoluzione da noi, il vero atto rivoluzionario è stare seduti. Altro che in piedi. Il coraggio di fare il proprio dovere e stare al proprio posto, io al mio e tu al tuo, è incommensurabilmente più scomodo dello stare in piedi allegramente.(p.69)
L’unica angolazione diversa per guardare il mondo che vi serve è da seduti nel banco. E ci metto la mano sul fuoco di quanto ne sono certa. Io mi sono fatta l’idea che devo darvi ciò che vi manca. E a voi non manca la libertà. No,no. Non manca il romanticismo. Non manca la fantasia.
La maggior parte di voi, lo sai bene, se ne sta da solo tutto il pomeriggio, bene che gli vada davanti al pc, benino davanti alla Tv, qualcuno con i nonni e i più, ahimè, per strada. Attaccati al cellulare ventiquattr’ore su ventiquattro, come se fosse ormai parte del vostro corpo. Altro che “attimo fuggente”… Liberi, liberissimi. Così liberi da farvi venire a noia cotanta libertà. (…) Altro che libertà. A voi manca un po’ di sano carcere. Ops, non dovrei dirlo per non offendere qualcuno dei tuoi compagni, ma mi è scappato. Vi manca tutto il resto: vi manca il rigore, la disciplina, il rispetto delle regole. Vi manca la comprensione stessa di quelle regole. Vi manca la cosa più importante: la consuetudine a quelle norme. (p.68)
Per cui mi tocca non saltare sul banco, per essere diversa, per farvi vedere il mondo da una prospettiva diversa; mi tocca sedermi e star ferma. Sedervi e cercare di togliervi un pezzettino almeno di quella libertà che vi ubriaca. Mi tocca dirla la parola maledetta: manca il rigore (p.69).
Perché a te tocca sapere comunque di Platone e di Aristotele, come di Heidegger o Hanna Arendt, come di ogni altra cosa che ti affini le armi per resistere (…). Ti servono sapienza, eleganza e bellezza di ragionamento maggiori se devi rimanere, per contrastare tanta bruttezza e ignoranza (p.72).
Ma se i ragazzi bisogna farli stare seduti, quando è giusto che non stiano in piedi, è la politica, ribadisce la professoressa Spicola, a doversi mettere in piedi: perché la Scuola pubblica non continui a essere la scuola dei Divari, delle Distanze, delle Diseguaglianze. Immense, gigantesche a volte. Sociali, territoriali, tecnologiche. In cui Nord e Sud non sono mai stati così lontani, le competenze mai così dispari, e dove la famiglia di provenienza, la scuola di riferimento, il suolo in cui si nasce condizionano tutto. Cioè il futuro di un giovane. La sua chance o meno di entrare nel mondo del lavoro, di crearsi una vita propria, di essere autonomo, protagonista (p.178).
Un solo, piccolissimo, appunto, alla mia valente collega. A volte si commuove troppo. Che è poi lo stesso affettuoso rimprovero che le rivolge il papà: - Non ti devi commuovere, devi raggiungere una distanza adeguata, sennò non sarai mai un educatore. La commozione, la troppa confidenza, non vanno bene (p.125,126)-
Cara Mila, tuo padre ha ragione: la nostra professione impone un certo distacco tra insegnante e alunni.
Però ti capisco, mia battagliera collega: visto che scuola e società chiudono per loro porte e finestre, i Tony destinati al carcere minorile, talvolta, verrebbe persino di portarseli a casa…
Compri il libro e lo leggi d’un fiato. Nelle varie lettere che la professoressa Spicola scrive – all’illustre collega Leonardo Sciascia, ai ministri dell’Istruzione e dell’Economia, a don Milani, all’ultimo della classe, alla collega dal registro perfetto… - c’è il suo urlo di dolore sulla scuola italiana. Su quella siciliana e palermitana, in particolare.
L’urlo di dolore di una docente che non si rassegna alla scure scriteriata dei ministri/boscaioli ciechi, che tagliano due ore di Italiano e una di Tecnologia ed eliminano le risorse per recuperare i bambini in difficoltà; l’urlo di dolore di chi non accetta che gli alunni in classe possano diventare fino a trenta, trentatre; l’indignazione di chi assiste quotidianamente al bivacco di ragazzini divisi in altre classi, quando un docente è costretto ad assentarsi, vista l’impossibilità di ricorrere a supplenti per mancanza di fondi.
La professoressa Spicola ci ricorda poi che, nell’Unione Europea, siamo tra i paesi col numero minore di laureati e con la maggiore percentuale di abbandoni scolastici precoci; che, sempre in Europa, siamo uno dei pochi paesi che non investe in cultura, ricerca e innovazione; denuncia inoltre che a Palermo, su 281 scuole primarie e secondarie di primo grado, due su tre non sono a norma; lamenta infine l’assoluta assenza di mobilità sociale, in Sicilia: dove un ragazzino è costretto a fare lo stesso lavoro del padre.
Ovviamente, la professoressa chiede con forza che la scuola non vada alla deriva. Che la politica cambi rotta: che nella scuola investa, invece che tagliare alla cieca.
Ma Mila Spicola non auspica gesti di liberazione velleitaria, quasi di cinematografica memoria, non invita nessuno a salire in piedi sui banchi.
Nella lettera a Roberto, il primo della classe, la collega ribadisce una cosa importante: - Sappiamo bene io e te che la vera rivoluzione da noi, il vero atto rivoluzionario è stare seduti. Altro che in piedi. Il coraggio di fare il proprio dovere e stare al proprio posto, io al mio e tu al tuo, è incommensurabilmente più scomodo dello stare in piedi allegramente.(p.69)
L’unica angolazione diversa per guardare il mondo che vi serve è da seduti nel banco. E ci metto la mano sul fuoco di quanto ne sono certa. Io mi sono fatta l’idea che devo darvi ciò che vi manca. E a voi non manca la libertà. No,no. Non manca il romanticismo. Non manca la fantasia.
La maggior parte di voi, lo sai bene, se ne sta da solo tutto il pomeriggio, bene che gli vada davanti al pc, benino davanti alla Tv, qualcuno con i nonni e i più, ahimè, per strada. Attaccati al cellulare ventiquattr’ore su ventiquattro, come se fosse ormai parte del vostro corpo. Altro che “attimo fuggente”… Liberi, liberissimi. Così liberi da farvi venire a noia cotanta libertà. (…) Altro che libertà. A voi manca un po’ di sano carcere. Ops, non dovrei dirlo per non offendere qualcuno dei tuoi compagni, ma mi è scappato. Vi manca tutto il resto: vi manca il rigore, la disciplina, il rispetto delle regole. Vi manca la comprensione stessa di quelle regole. Vi manca la cosa più importante: la consuetudine a quelle norme. (p.68)
Per cui mi tocca non saltare sul banco, per essere diversa, per farvi vedere il mondo da una prospettiva diversa; mi tocca sedermi e star ferma. Sedervi e cercare di togliervi un pezzettino almeno di quella libertà che vi ubriaca. Mi tocca dirla la parola maledetta: manca il rigore (p.69).
Perché a te tocca sapere comunque di Platone e di Aristotele, come di Heidegger o Hanna Arendt, come di ogni altra cosa che ti affini le armi per resistere (…). Ti servono sapienza, eleganza e bellezza di ragionamento maggiori se devi rimanere, per contrastare tanta bruttezza e ignoranza (p.72).
Ma se i ragazzi bisogna farli stare seduti, quando è giusto che non stiano in piedi, è la politica, ribadisce la professoressa Spicola, a doversi mettere in piedi: perché la Scuola pubblica non continui a essere la scuola dei Divari, delle Distanze, delle Diseguaglianze. Immense, gigantesche a volte. Sociali, territoriali, tecnologiche. In cui Nord e Sud non sono mai stati così lontani, le competenze mai così dispari, e dove la famiglia di provenienza, la scuola di riferimento, il suolo in cui si nasce condizionano tutto. Cioè il futuro di un giovane. La sua chance o meno di entrare nel mondo del lavoro, di crearsi una vita propria, di essere autonomo, protagonista (p.178).
Un solo, piccolissimo, appunto, alla mia valente collega. A volte si commuove troppo. Che è poi lo stesso affettuoso rimprovero che le rivolge il papà: - Non ti devi commuovere, devi raggiungere una distanza adeguata, sennò non sarai mai un educatore. La commozione, la troppa confidenza, non vanno bene (p.125,126)-
Cara Mila, tuo padre ha ragione: la nostra professione impone un certo distacco tra insegnante e alunni.
Però ti capisco, mia battagliera collega: visto che scuola e società chiudono per loro porte e finestre, i Tony destinati al carcere minorile, talvolta, verrebbe persino di portarseli a casa…
non conoscevo questo libro e lo hai recensito benissimo. Il tema è "caldo" e quindi molto coinvolgente. Lo leggerò!
RispondiEliminaBella recensione,libri così hanno la missione
RispondiEliminadi non accettare rassegnati le cose ingiuste.
@TuristadiMestiere: grazie dell'attenzione e dell'apprezzamento. Alla prossima!
RispondiElimina@Costantino: è vero. Non possiamo rassegnarci all'esistente. Non si può cambiare il mondo: ma se c'è un'oasi da far fiorire in mezzo al deserto, ebbene, quei fiori vanno annaffiati. Grazie per la tua costante attenzione.
Che bella recensione Mari! Messa in lista :)
RispondiEliminarecensione forte e libro da leggere sicuramente. Ed è proprio vero: la rivoluzione è fare per davvero il proprio dovere e fare in modo che il cambiamento avvenga con le azioni!
RispondiElimina@Calzino: bedda! Lo sai che mi sei mancata?!
RispondiElimina@Carolina Venturini: grazie dell'attenzione. Sarà poco sessantottino, ma è vero che, spesso, è rivoluzionario già fare bene il proprio lavoro...