Sarà
perché di mestiere faccio l’insegnante e so che vuol dire parlare di legalità ai
ragazzi difficili. Sarà perché il romanzo è ambientato a Palermo e io a Palermo
ci vivo. Sarà perché la storia e il contesto che la scrittrice racconta, pur se
di fantasia, sono più veri di quelli reali. Fatto sta che a me Cose da pazzi di Evelina Santangelo (Einaudi,
Torino 2012, € 21) è piaciuto da matti.
L’autrice,
con una tecnica narrativa che a mio avviso ricorda le riprese con telecamera a
spalla dei fratelli Dardenne, ci
introduce in un immaginario quartiere del centro storico palermitano dove il
dodicenne Rafael vive con il padre Marcello, più disoccupato che operaio, e con
Estella, madre colombiana arrivata in Italia in cerca di “buena suerte” perchè “siccome
il mondo è tondo è fatto per muoversi”. La scrittrice ci offre una
narrazione in terza persona dal punto di vista di Rafael, offrendoci
un’immersione straniante e struggente nei pensieri arruffati di un ragazzino di
seconda media, una sorta di meninos de
rua, un ragazzino di strada tutto
nostro, che ha come idoli assoluti Miccoli e gli Zero Assoluto, e come amico
del cuore Richi, “il figlio malato della signora Franca”.
Con un ritmo narrativo a zig-zag, sospeso tra
i fili intrecciati del racconto e le linee liquide e a volte smarrite delle
sensazioni di Rafael, ci viene offerto un microcosmo quasi claustrofobico che ruota
attorno a piazza Spina, dove c’è la chiesa con gli angeli e i santi, e da cui si
partono vicolo Grande e vicolo Storto. Rafael ci presenta Cetti e Salvo, gestori
di una trattoria rimediata rubando pezzi di marciapiede, amici di quelli che
comandano nel quartiere; Rocco, posteggiatore abusivo; Lilla che arrotonda
chiedendo l’elemosina ma che sa anche curare i canarini malati; Vito il
barbiere, Fiorella/Fiamma/Mauro/Stella, puttana di casa. E ci introduce nel
mondo dell’amico Richi, col peso ingombrante della sua malattia, e dei compagni
Lillo ed Eros. Con una visione che include anche i cani Bumma, Ciccia e Fifa e
i gabbiani che mangiano i corpi dilaniati, ma ancora vivi dei piccioni.
E’ una
sorta di Monopoli strana, la Palermo
di vicolo Grande e Vicolo Storto inventata dalla Santangelo. Una Palermo
attraversata dalla globalizzazione dal basso, perché, come dice Vito il
barbiere: “La fame nel mondo c’è sempre
stata (…) la differenza è solo quella che ora lo sappiamo di più. Da parte
loro, quelli che vengono dai barconi: “Già
ringraziano che sono qua (…) Prendono tutto il lavoro che viene, senza certe
pretese. E dicono grazie.” Una Monopoli cittadina dove, alla fine, non
vince nessuno: nemmeno il fratello ladro di Richi che mette l’Attak nel
catenaccio del negozio di Giovanni il salumiere. Una Palermo/Monopoli che
rimane desolata e irredenta, nella quale si sommano le disperazioni doppie degli
orizzonti individuali e collettivi a cui né il don Cosimo della chiesa degli
angeli e i santi né la professoressa Rita riescono a dare un senso.
E’ un mondo
a tinte scure, quello visto con gli occhi di Rafael. La Santangelo è davvero
brava a tratteggiare, col linguaggio coerente di un ragazzino palermitano di
oggi, le pennellate amare di un universo a tratti disperato.
Ma alla fine il romanzo non lascia un
retrogusto negativo, perché – come ha sottolineato l’autrice in un incontro di
presentazione del libro – in un mondo smarrito e compromesso a tutti i livelli,
in cui i buoni e i cattivi non si distinguono facilmente, la differenza la fa
chi resiste; chi, come il padre di Rafael, tiene la barra di un difficile
rigore etico. Soprattutto, la differenza la fa la voce fuori dal coro della
professoressa dagli occhi verdi: che ce la mette tutta per seminare nella mente
e nel cuore dei ragazzi pensieri nuovi e per convincerli che un altro mondo è
possibile. Che, ad esempio, è possibile vivere senza spremere l’Attak nelle
serratura e senza chiedere il pizzo. E che: “Se uno non conosce niente e non ha visto niente, non sa nemmeno dove
può andare, cosa gli può capitare nella vita, cosa può desiderare. Desidera
solo quello che ha. Mentre: “Se uno
ha l’età vostra (…) deve capire cosa vuole e cosa non vuole. E lo deve sapere
che ha un sacco di possibilità, che può scegliere”.
E allora,
pensando a Rafael e a Richi, che stanno sotto un “cielo appeso, striato di viola e di un blu fluorescente”, “il cielo di
quando non è ancora buio ma non è più giorno (…) che anche ai gabbiani deve far
venire quella specie di euforia tutta lacrime”, alla fine si ha voglia di
spendersi un poco di più per tutti i ragazzi dei vicoli sporchi di questa
Palermo. E augurargli un futuro migliore.
Maria D’Asaro (“Centonove”: 10
agosto 2012)
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