domenica 4 settembre 2022

Con Dalla Chiesa uccisa anche la speranza?

     Palermo - «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti»: queste parole, scritte su un cartello il 4 settembre 1982 in via Isidoro Carini a Palermo, danno il senso dello sgomento e del dolore dei ‘palermitani onesti’ il giorno dopo l’assassinio per mano mafiosa del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo, morto qualche giorno dopo per le gravissime ferite riportate.
      Quarant’anni dopo l’agguato mortale a un così importante rappresentante dello Stato, bisogna confessare che, nella capitale siciliana, la sera del 3 settembre 1982 la speranza di combattere la mafia, infiltrata nell’economia, nelle Istituzioni, nella politica, era stata, se non annientata, davvero duramente colpita.
 Il generale Dalla Chiesa, nominato nel 1982 Prefetto di Palermo con l’incarico di combattere Cosa Nostra, nei suoi circa cento giorni di permanenza nel capoluogo – da cui il titolo ‘Cento giorni a Palermo’ del film di Giuseppe Ferrara - lamentò più volte il mancato sostegno da parte dello Stato e del governo in carica. 
    Espresse la sua disapprovazione per il fatto che i promessi "poteri speciali" tardavano ad arrivare (non gli furono mai concessi: sarebbero arrivati solo al suo successore), denunciando amaramente: «Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì; se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi, non possiamo delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti».
    Nell'agosto del 1982, il generale rilasciò un'intervista a Giorgio Bocca, in cui dichiarò ancora una volta la carenza di sostegno e di mezzi necessari per la lotta alla mafia, che nei suoi piani doveva essere combattuta strada per strada, rendendo palese alla criminalità la massiccia presenza di forze di Polizia.
Ma allora la mafia a Palermo era così forte che a fine agosto, con una telefonata anonima fatta ai Carabinieri del capoluogo probabilmente dal boss Filippo Marchese, venne in qualche modo preannunciato l'attentato mortale al Prefetto. Al telefono l’anonimo dichiarava che «l'operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa».
    Eppure le Istituzioni dello Stato e le Forze dell’Ordine si sarebbero dovute mobilitare con una reazione forte ed efficace, essendo state già duramente colpite con decine di omicidi eccellenti: si ricordano qui solo Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo, ucciso la mattina del 21 luglio 1979; Cesare Terranova, giudice istruttore del Tribunale di Palermo, ucciso il 25 settembre 1979, sotto casa, insieme al Maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso; Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Siciliana, ucciso il 6 gennaio 1980, anche lui sotto casa, mentre era in auto con la moglie e i due figli; Gaetano Costa, giudice presso il Tribunale di Palermo, assassinato il 6 agosto 1980; Pio La Torre, segretario regionale del PCI, e il collaboratore Rosario Di Salvo, assassinati il 30 aprile 1982. 
     Proprio dopo quest’ultimo omicidio, venne chiamato d’urgenza a Palermo il generale Dalla Chiesa, che vantava un curriculum di tutto rispetto nella lotta alla criminalità: negli anni ’50, aveva combattuto banditismo e mafia in Campania e in Sicilia, dove poi, tra  il 1966 e il 1973, con il grado di colonnello, era divenuto comandante della Legione Carabinieri di Palermo, compiendo importanti indagini su Cosa nostra. 
    Divenuto generale di brigata a Torino dal 1973 al 1977, fu protagonista della lotta contro le Brigate Rosse: su sua proposta venne creato il "Nucleo Speciale Antiterrorismo" attivo tra il 1974 e il 1976. Promosso generale di divisione, fu nominato nel 1978 coordinatore delle Forze di Polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo, con poteri speciali. Dal 1979 al 1981 comandò la Divisione Pastrengo a Milano e, tra il 1981 e il 1982, fu vicecomandante generale dell'Arma.
La reazione dell’opinione pubblica alla strage di via Isidoro Carini fu di rabbia e indignazione. Il giorno dei funerali, celebrati nella chiesa palermitana di san Domenico, la folla protestò contro tutti i politici, accusati di non aver sostenuto l’operato di Dalla Chiesa. Venne risparmiato dalla contestazione solo il Presidente della Repubblica Sandro Pertini. 
    L’indignato dolore dei ‘palermitani onesti’ fu espresso nella sua vibrante omelia dal cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo, che, citando un passo di Tito Livio, paragonò Palermo all’antica Sagunto e disse: «Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. Ma questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo…».
     Povera davvero la martoriata Palermo che avrebbe pagato la sua battaglia contro la mafia ancora con tanto sangue, anche quello di coraggiosi commercianti come Libero Grassi, ucciso il 29 agosto 1991 perché aveva dichiarato di non voler pagare ‘il pizzo’. 
    Gli omicidi eccellenti sarebbero culminati dieci anni dopo con le stragi di Capaci e di via D’Amelio, dove il 23 maggio e il 19 luglio 1992 sarebbero stati uccisi con autobombe i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la moglie di Falcone Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro,  Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
     Forse è stato proprio il sangue coraggioso e innocente di tanti integerrimi cittadini e servitori dello Stato ad onorare Palermo anche come capitale dell’antimafia e ad annaffiare l’assai fragile piantina della speranza. Che vivrà solo se ogni cittadino onesto farà la sua parte. 

Maria D'Asaro, il Punto Quotidiano, 4.9.22





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